domenica 25 agosto 2024

 

Le moéche col pien

Uno straordinario piatto veneziano

 

Ho trovato Momo ch’era appena rientrato dal lavoro, era stanco morto. Era uscito prima dell’alba per andare alle serraglie, poi al casòn e ai viéri, dove aveva raccolto una buona quantità di moéche. Seduto in cucina nella sua casa di Burano, con le pareti esterne d’un rosso acceso, mangiava, ancor prima che fosse mezzogiorno, una zuppa calda e corroborante, tenendo d’occhio le sue cinque cassette ripiene di moéche in movimento, accatastate in un angolo della stanza. “State buone ancora un po’, sembrava dicesse a quel piccolo tesoro che teneva continuamente controllato, che andrete subito a Venezia dove vi aspettano.” Poco dopo una barca si fermò sul canale davanti alla casa, appena al di là della strada, con a bordo delle cassette di pesce.

“È mio zio Bepi, disse Momo, adesso prende le cassette delle moéche e le porta a Venezia da due clienti assieme all’altro pesce che ha già in barca.”

Bepi sistemò le cassette sulla barca, le coprì con una tavola e vi sopra mise una grossa pietra per impedire che le moéche uscissero, coprendo il tutto con un telone scuro. Momo salutò lo zio e, trangugiato un bicchiere di rosso, sembrò finalmente quietarsi.

“Adesso, disse, come riprendendo un discorso interrotto dall’arrivo della barca, ai viéri c’è mio fratello Albino, sta selezionando i granchi che ho preso dai cogòlli stamattina, nel pomeriggio gli darò il cambio. Bisogna essere sempre lì, perché le moéche non aspettano. Un altro mio fratello, Marco, sta ora lavorando ai cogòlli innestati sulle seràie, aggiunse. Passa con la barca e rovescia sul fondo i cogòlli con i pesci e i granchi che si sono fatti intrappolare. Poi mette il pesce nelle cassette e i granchi nei sacchi e li porta nel casòn che abbiamo ai margini della laguna. E lì seleziona i granchi e li rimette nei sacchi; prima prende gli spiàntani e li mette nei viéri dove in poche ore diventano moéche,  poi prende i gransi boni e li mette nei viéri dei gransi boni, prende quindi i gransi mati e li mette in altri viéri o li ributta in acqua. Per ultimo prende il pesce e lo porta alla cooperativa, ma qualche cassetta la vendiamo noi direttamente ai ristoranti di Venezia.”

Capivo solo una parte dei discorsi di Momo, poiché parlava di operazioni abbastanza complesse e a me del tutto sconosciute. Sapevo cosa sono i gransi, cioè i granchi, conosco pure le moéche, un piatto delizioso, ma mi confondevo davanti ai viéri, alle seràie, ai cogòlli, agli spiàntani, ai gransi boni e a quelli matti e poi tutto quell’andare da una parte all’altra dall’alba al tramonto, mettere e levare dai sacchi, trasferire nei viéri e così via. E lo dissi a Momo che si mise a ridere.

“Allora ti spiego io, disse con un largo sorriso. Si vede proprio che sei foresto. Ascolta: il pesce e i granchi girano per la laguna seguendo i percorsi loro e spesso, senza accorgersi, entrano in zone circondate da reti ben sostenute da pali piantati sul fondo. Questi sbarramenti dalle forme geometriche del tutto inconsuete per chi non se ne intende sono fatti con le reti e si chiamano seràie e creano misteriosi disegni sulle basse acque della laguna. A queste reti sono innestate delle trappole a imbuto dove entrano pesci e granchi senza la possibilità di tornare indietro. Questi imbuti si chiamano cogòlli. Quando passiamo svuotiamo sulla barca il pesce e i granchi e li portiamo nel casòn, un capanno di lavoro dove facciamo le selezioni. Per i granchi maschi questa è la stagione della muta, cioè perdono la loro corazza. È la natura che lo vuole per farli crescere, altrimenti muoiono. Questi granchi, che noi chiamiamo gransi, se sono in procinto di perdere la corazza li chiamiamo spiàntani, se mancano una o al massimo due settimane alla muta li chiamiamo gransi boni, quelli invece ancora molto indietro o già vecchi sono i gransi mati. Tutto qui. Hai capito come funziona?”

Stavo entrando in un mondo ancora misterioso dove si ripetevano, a tempi stabiliti, antichi rituali di pesca. Ero arrivato a Burano, nella laguna nord di Venezia, il giorno prima. Burano è un’isola bellissima, con l’antica tradizione dei merletti e le case allineate lungo i canali dipinte con colori sgargianti. Sapevo dei merletti e m’avevano detto che ormai non ne facevano quasi più. Ma ho visto delle donne anziane sedute in crocchio davanti a una casa, intente a lavorare al tombolo e creare con le mani che muovevano con sorprendente velocità dei preziosi merletti. M’ero fermato ai bordi d’un canale per guardarle lavorare e una di loro mi mostrò come nascono i merletti. Era anziana e parlava in modo quasi incomprensibile. La fotografai e mi sorrise divertita. Intanto sul canale passava una barca e vidi delle cassette ripiene di granchi in movimento. Più tardi, rientrato alla locanda, chiesi di che specie fossero i granchi che avevo visto. “Le xe moéche, sior. No le cognosse?”. Sì, le moéche le avevo l’anno prima mangiate a Mestre, nella trattoria dall’Amelia. Erano semplicemente deliziose. Sapevo che non erano pesci, ma granchi, cioè crostacei e che richiedono una vera specializzazione a chi li vuol produrre. Il locandiere mi presentò un vecchio pescatore, Andrea, che s’era fermato lì a bere un bicchiere di vino.

“Andrea, mi disse il locandiere, ha tre figli moecànti, specializzati nella produzione di moéche.”

Mi guardò e, sentito il mio interesse, m’invitò a casa sua.

“Domani, mi disse il vecchio pescatore, se vieni a casa mia prima di mezzogiorno, a cinquanta metri da qui, trovi mio figlio Momo che ti racconta tutto.” 

Il mattino successivo entrando nella vicina rivendita di giornali per acquistare i miei quotidiani trovai anche un libretto che parlava di pesci, crostacei e molluschi di laguna. Lo acquistai subito e poi cercai notizie sulle moéche. Seppi così che si tratta di granchi verdi della specie Carcinus moenas, che mutano due volte l’anno, in primavera, proprio anche in quei primi giorni di aprile, e poi in autunno e quando perdono la corazza restano nudi solo per poche ore, perché poi, a contatto con l’acqua salmastra della laguna, la rifanno velocemente. In quelle poche ore che ne sono privi vengono chiamate dai veneziani moéche e sono una delle migliori e più ghiotte specialità della cucina veneziana.

Ma come fanno i pescatori della laguna a prenderle al momento giusto? Ecco perché avevo deciso di andare dal figlio di Andrea.

“Eh, amico mio, questo è un mondo che conosciamo solo noi. Ma lo sai, diceva Momo, che tutta la roba di laguna e di mare che ha le zampe deve cambiare la scorza, altrimenti non cresce? Gransi, maxanéte, canòce, gransipòri, aragoste, granséole, àstisi, tutti i crostacei che hanno le zampe devono mutare se vogliono crescere.” Interessante, non ci avevo mai pensato. Anche i serpenti mutano pelle ma che i crostacei perdessero il carapace e se lo ricostruissero in poche ore non ci avevo mai pensato.

“«Ma le moéche e le maxanéte non sono la stessa specie?” chiesi a Momo.

“E no, sior lu! Le maxanéte sono le femmine e le moéche i maschi. Sono tutti e due granchi verdi, ma vivono in modo diverso. Le maxanéte mutano solo tra maggio e luglio, quando è finita la stagione della Quaresima, durante la quale, tra marzo e aprile, a mutare sono solo i maschi. Le femmine mutano dopo, quando è il periodo dell’accoppiamento. È allora che si riconoscono le femmine, quando si attaccano ai maschi. Noi, quando mutano, le chiamiamo pùtole, da sempre, perché sono molto disponibili alle richieste dei maschi. Poi, in autunno non mutano più, mentre i maschi perdono di nuovo la corazza al tempo della fraima, tra settembre e ottobre.”

“E le maxanéte, chiesi, sono buone da mangiare?”

“Altroché. Momo sorrideva e quasi mi pareva compiangesse la mia ignoranza. Le maxanéte sono una specialità della cucina autunnale, tra ottobre e novembre, quando sono piene di uova. È in quei mesi che le catturiamo perché vanno mangiate col coràl, cioè con le uova. Sono straordinarie!”

Mi piaceva ascoltare Momo. Col suo linguaggio semplice, anche colorito, era una fonte inesauribile di saperi su questi granchi verdi che abitano la laguna di Venezia.

“Ma lo sai, amico, quanta perizia ci vuole per distinguere gli spiàntani dai gransi boni e questi dai gransi mati? E quanta bravura ci vuole per prendere le moéche appena sono pronte? E lo sai che se arrivi a prenderle in ritardo gli spiàntani che hanno la corazza se le mangiano e non ne trovi più?”

Il locandiere, ottimo conoscitore della sua isola, mentre mi decantava, la sera prima. il piatto delle moéche col pien che mi avrebbe preparato se restavo lì qualche giorno, s’era versato da bere e s’era seduto accanto al mio tavolo.

“«Caro signor, diceva, mentre io gustavo il risottino con le erbine dell’Estuario che mi aveva preparato, questa è un’isola unica al mondo. Ha mille anni di storia e per almeno nove secoli qui tutti sono vissuti pescando. Poi con i primi alberghi costruiti al Lido, al tempo della Belle Époque, dieci vent’anni prima che scoppiasse la grande guerra, qui molti hanno cambiato mestiere e sono andati a vivere a Venezia o anche a Mestre e dopo la seconda guerra mondiale abbiamo perso addirittura metà degli abitanti che sono andati a vivere in terraferma, a Mestre, a Marghera, a Favaro, a Chirignago e anche più in là. Per fortuna che alcuni giovani hanno imparato il mestiere di moecanti, rubandolo ai chioggiotti che erano gli unici, fino ad allora, a produrre moéche. E così, oltre al turismo che è arrivato anche da noi, si è aggiunta negli ultimi decenni anche la pesca e la produzione di moéche, che i chioggiotti da un po’ di tempo hanno abbandonato quasi del tutto, in favore della pesca delle vongole.”

Momo mi aveva convinto: quello dei moecanti è un mestiere unico, che richiede precise conoscenze e una presenza continua nel periodo della muta. Poi quel giovanotto mi chiese: “Vuoi venire con me in barca in laguna così vedi tutte queste cose?”

Non ci pensai un attimo a rispondergli affermativamente.

“Lasciami riposare fino al pomeriggio, mi disse. Ti aspetto qui verso le tre, quando arriva mio fratello Marco. Prendiamo la sua barca e andiamo a dare il cambio ad Albino.”

Andai un po’ in giro per Burano, diedi uno sguardo alle sue chiese, ascoltai il chiacchierare cantilenante e molto dolce della gente nelle calli e nei campielli, poi, verso l’una, il mio locandiere mi servì degli ottimi spaghetti con le vongole e una meravigliosa frittura di pesce. C’erano anelli di calamaro, seppioline di barena, gamberi di vario tipo, minuscoli pesciolini, tutto frammisto a verdurine dell’Estuario, appena colte negli orti dell’isola. Non avevo mai mangiato una frittura così, freschissima, piacevolmente croccante, con una pastella leggera come un velo da sposa. Una vera delizia, accompagnata da un vino frizzante e beverino proveniente dalla vicina terraferma. Mi fermai poi a sfogliare i giornali, tenendo controllato l’orologio. Qualche minuto prima delle tre ero davanti alla casa di Momo.

La barca, spinta dal motore, lasciò presto l’isola per entrare in laguna. Momo conosceva il percorso, lo faceva da anni. L’acqua era molto bassa ma Momo sapeva evitare i dossi; a volte sfiorava le barene perché i canali lagunari, spiegava, corrono dove vogliono, anche vicinissimo alle terre emerse. Poi cominciarono ad apparire le serraglie, le lunghe reti messe a ferro di cavallo o a triangolo e sostenute da pali ben fissi sul fondo lagunare.

“Ecco, guarda, mi disse, adesso controllo i cogòlli.”

Fermò la barca accanto alle reti, spense il motore e prese quelle trappole a forma di imbuto, fatte di reti e di cerchi di legno e ne svuotò il contenuto sul fondo della barca. Poi introdusse i granchi in un sacco che chiuse subito e versò il pesce nelle cassette, coprendole poi di ghiaccio. Ripeté l’operazione più volte, per oltre un’ora, spostando la barca con i remi da una seràia all’altra. Terminato quel lavoro riaccese il motore e si diresse verso un rialzo del terreno dove c’era una palafitta.

“Ecco il nostro casòn, disse, ci fermiamo qua per dividere i gransi.”

Momo salì la scaletta che portava a una stanza da lavoro, io gli passai i due sacchi con i granchi. Poi salii anch’io. Momo svuotò allora un sacco alla volta e con occhio esperto passò tra le mani, uno alla volta, tutti i granchi e li divise rimettendoli in tre sacchi distinti.

“Vedi, mi disse, gli spiàntani domattina saranno moéche e li metto in un sacco. I gransi boni vanno in un altro sacco e quelli mati ormai non mutano più, non servono e li ributto in laguna.” Muoveva le mani con grande velocità, senza mai alzare gli occhi dai granchi. Finito il lavoro di cernita, calò i sacchi nella barca e ripartimmo.

“Adesso andiamo nel nostro canale, dove ci sono i vieri”, disse.

Ripartimmo.

“Ma come hai fatto a distinguere i tre tipi di granchi?” gli chiesi.

“Gli spiàntani mostrano una fessuretta e sembra che stiano per scoppiare. Ci vuole occhio e tanta esperienza, bisogna sentirli in mano e guardare le zampe che non sono come quelle degli altri gransi. Poi i gransi boni sono più lucidi degli altri, hanno la pancia più soda, sono più gonfi. Ma credimi, è difficile spiegare, bisogna toccarli, sentirli con le mani. A volte basta guardare il dorso e si capisce se sono pronti, se manca qualche settimana o se sono mati. Insomma, caro amico, ci vuole pratica, tanta pratica.”

Che mondo strano e meraviglioso assieme, pensavo.

“Ma si trovano solo qui questi granchi?” chiesi allora.

“Tempo fa mi hanno detto, mi rispose Momo, che una cosa simile avviene anche in America, in una valle marina del Maryland. Lì, dicono che c’è la tradizione di raccogliere, quando sono in muta, dei granchi chiamati azzurri per farne dei piatti d’alta cucinai. Questo impiego gastronomico, a quanto pare, si fa solo qui e in quella valle e poi basta.”

Dopo un po’ Momo rallentò la corsa.

“Siamo arrivati”, disse. Eravamo in un canale dal quale emergevano le parti superiori di grandi contenitori, non capivo se fatti di plastica o in tavole di legno. Ce n’erano di vario tipo e l’acqua poteva tranquillamente entrare e uscire per le numerose fessure. Momo mi spiegò che dentro i vieri possono andare solo granchi dello stesso sesso e in quella stagione solo maschi. “Se mettessi anche le pùtole i maschi si accoppiano subito e così si indeboliscono e non mutano più. Poi ogni viero deve avere granchi allo stesso stadio di maturazione, altrimenti gli spiàntani, appena perdono la corazza, vengono aggrediti dagli altri, che, rimasti intrappolati, poi insaccati e tenuti chiusi per ore hanno fame e diventano cannibali. Per questo bisogna controllare i vieri più volte al giorno e togliere subito le moéche.”

Momo, sdraiato sopra uno di quei contenitori e con la testa e le braccia dentro l’apertura, prende le moéche e le trasferisce in una cassetta. “È uno spettacolo unico, mi dirà poi, quando vedi il guscio che si apre e vedi comparire la schiena nuda, poi le nuove zampine, una alla volta, poi il granchio si libera completamente del vecchio vestito e è diventato una moéca. È un nuovo essere, sembra quasi una nuova nascita. Se metti in acqua questo granchio nudo dopo poche ora ricostruisce la corazza e ridiventa un granchio normale. Fuori dall’acqua può vivere anche un paio di giorni, senza che ricresca la sua corazza.”

Stiamo tornando verso casa con alcune cassette di moéche ben chiuse da una tavola.

“Vedi, caro amico, questa è la vita di moecanti di Burano. Il mondo arriva a Venezia per gustare questo granchietto nudo, ma per poterlo avere quanto lavoro. E speriamo che in laguna restino tanti granchi e chi siano ancora moecanti, altrimenti questa festa finirà presto.”

Rientrati a Burano volle che mi fermassi a casa sua per la cena. Sua madre preparò le moéche col pien ed erano deliziose. Le chiesi come si prepara questo piatto che si mangia solo a Venezia e a Chioggia.

“Si lavano velocemente le moéche sotto acqua corrente, mi disse, poi si mettono in una terrina con alcune uova sbattute. Si copre bene perché non escano e si lasciano così qualche ora. Loro mangiano l’uovo e si riempiono bene e sembrano addirittura grasse. Quando le togli sono come intontite da quanto uovo hanno mangiato, allora le passi velocemente alla farina e le fai friggere in abbondante olio bollente e passano dal sonno alla morte senza accorgersi. Sono un piatto nato tanto tempo fa a Chioggia, mi pare nel Settecento, e che si trova solo qui, nelle isole e attorno alla laguna.”

Non avevo bisogno di sapere altro, l’indomani mattina sarei partito da Burano arricchito da un’esperienza che non avrei mai immaginato di poter vivere dal vivo.

sabato 10 agosto 2024

 

Venezia: la tradizione gastronomica

 

 

Le isole della laguna erano già abitate in epoca paleoveneta, al pari di Altinum, città della quale abbiamo numerose testimonianze di autori latini relative ai prodotti agroalimentari e ai cibi disponibili. Non così per gli abitanti delle isole, infatti il primo documento che ci dà una qualche informazione sulla loro alimentazione è la celebre lettera che Cassiodoro, il grande rètore giunto a Ravenna dalla natia Squillace al servizio di Teodorico, scrisse nell’anno 537 ai tribuni marittimi della Venezia: “Un’unica risorsa hanno gli abitanti [delle isole], quella di mangiare solamente pesci a sazietà. Ivi ricchi e poveri vivono allo stesso modo. Un identico cibo sostenta tutti…”.

Quando Cassiodoro scrive questa lettera correvano tempi grami per gli abitanti delle Venezie, per le continue invasioni di sanguinarie orde straniere, già allora definite “barbariche”. Il periodo peggiore è quello che va dalla metà del V secolo, quando Attila invase il Veneto, mettendolo a ferro e fuoco, a oltre due secoli più tardi, quando, dopo aver scorazzato per gli stessi luoghi, depredando e distruggendo città e villaggi, i Longobardi, convertiti al cristianesimo romano (prima, infatti, erano ariani), rallentano le loro scorrerie, facendo rinascere la vita in terraferma, grazie anche all’ala protettrice dei monasteri benedettini.  In quei due terribili secoli da Julia Concordia, Altinum, Opitergium, Tarvisum, Padua e dalle terre d’attorno, gli abitanti furono costretti più volte ad abbandonare precipitosamente le loro case, trovando salvezza, rifugio e una nuova patria nelle isole della laguna, dando così origine alla città di Venezia. 

Inizialmente il cibo era dato ancora dal pesce, poi, grazie a situazioni più tranquille, s’erano andati sviluppando nuovi e interessanti rapporti tra la laguna e la terraferma con lo scambio di prodotti della campagna, carni e cereali soprattutto, con il sale  prodotto nelle isole.

Con il passare del tempo le condizioni alimentari migliorano e Pompeo Gherardo Molmenti, ne La storia di Venezia nella vita privata, riferendosi ai secoli antecedenti e attorno al Mille, afferma che “il vitto dei primi Veneziani, oltre che di carne di bove, di capretto, di maiale, era composto anche da quanto offriva in gran copia la caccia e la pesca, che sappiamo quanto fossero attive. Sulle lagune, numerosi gli uccelli palustri, come le anitre selvatiche (osele), i maggioringhi (i germani reali), le folaghe, i chiurli, le cercerdule, le arzagole; di svariate specie i pesci dell’Adriatico e dei fiumi; abbondante la selvaggina nelle selve dell’Estuario. Erbaggi e frutta si ritraevano delle campagne e dagli orti dell’Estuario. S’intende che, pur non dipartendosi la città in sul principio da un modesto tenore di vita, le mense dei ricchi e dei poveri erano variamente fornite. Oltre che più copiose e di più larga scelta, le vivande dei ricchi doveano essere condite con molte spezie, che venivano in gran quantità dall’Oriente. Così dalla Siria e dall’Egitto, sin dal 996, fu portato lo zucchero, che divenne quasi un monopolio per i Veneziani, i quali giunsero nella raffinatura a una perfezione maggiore che altrove. Non tardò quindi l’uso delle pasticcerie, e le carte antiche parlano spesso di marzapani, zeli (zaletti), pignocade, codognade, storti, occhietti, spongade e specialmente di scalette, dalle quali venne la denominazione vernacola di scaletteri ai pasticcieri.”

Come si vede, le tavole veneziane in pochi secoli s’erano notevolmente arricchite e lo saranno ancor più dopo la spedizione in Adriatico del doge Pietro Orseolo II, avvenuta allo scoccare dell’anno Mille e soprattutto dopo la conquista di Costantinopoli del 1204, quella impropriamente chiamata la “Quarta Crociata”, in seguito alla quale Venezia divenne la dominatrice dei mari e il grande emporio europeo delle spezie. 

“Con la prosperità – scrive ancora il Molmenti – crebbe il gusto della buona tavola, e vi si aggiunse l’amore del lusso, che diventò così diffusa consuetudine ne’ banchetti da parere disdicevole; ond’è che hanno principio nel XIV secolo le leggi moderatrici dell’eccessivo dispendio nei pranzi e nelle cene.”

Una testimonianza preziosa del cibo delle case signorili veneziane, ma anche di quelle della terraferma alle spalle di Venezia, la troviamo nel Libro per cuoco, scritto verso la fine del XIV secolo da un autore, cuoco o gastronomo, rimasto anonimo, ma sicuramente veneziano o veneto, le cui 135 ricette mostrano la ricchezza della tavola veneziana, dove emerge, fra l’altro, l’impiego di una straordinaria quantità di spezie (24 volte “spezie generiche”; 2 ”spezie bone”; 13 “spezie dolci”; 16 “spezie dolci e forti”; 5 “spezie dolci fini”; 9 “spezie fini”; 3 “spezie forti”, per un totale di 72 impieghi di spezie miste per 135 ricette. Inoltre: sono impiegati 4 volte l’anice, 7 la cannella, 4 il cardamomo, 27 i chiodi di garofano, 17 il cinnamomo, 1 volta il coriandolo, 10 la noce moscata, 8 il pepe, 4 il pepe lungo, 3 il sommaco, 30 lo zafferano, 29 lo zenzero).

I prodotti fin qui ricordati, presenti nella cucina veneziana medioevale: pesce e naturalmente crostacei e molluschi, uccelli di valle, selvaggina di piuma e di pelo, carni bovine, caprine e suine, frutta, ortaggi, zucchero, spezie, dolci e biscotti vari, rappresentano la base della successiva cucina che andrà arricchendosi e ingentilendosi con ulteriori proposte, anche nella ricerca di quel piacere della tavola, frutto non solo della nuova ricchezza ma di una cultura gastronomica che, nel Rinascimento,  pone Venezia ai vertici della cucina europea.

Grazie agli intensi scambi col Levante, il Nord Africa, la Spagna e i Paesi bagnati dall’Oceano Atlantico e ai tanti prodotti importati, i cuochi veneziani variano, affinano e ingentiliscono i piatti, soprattutto in occasione delle tante feste tenute nel corso dell’anno, facendo loro acquistare una ben precisa identità. Già nel Quattrocento e ancor più nei secoli successivi, la cucina veneziana del patriziato e della ricca borghesia si distingue da altre cucine delle corti italiane  per la possibilità di operare con una maggior varietà di prodotti, per un’accurata scelta della materia prima, per l’uso delle spezie e soprattutto per preparazioni che mostrano un respiro internazionale.

E a proposito della grande disponibilità di prodotti, merita citare un breve dialogo fra il borghese Lissandro e l’oste Menego nella commedia goldoniana Chi la fa l’aspetta del 1764. A un certo punto della trattativa fra i due per preparare una cena in casa di Lissandro si parla di carne:

Osto: Cossa vorla de rosto?

Lissandro: Cossa gh’aveu de bon?

Osto: Lonza, Straculo, Cinghial, Lievro, Agnello, Cavretto, Polastri, Dindj, Capponi, Anere, Quagge, Gallinazze, Beccanotti, Pernise, Francolini, Fasani, Beccafighi, tutto quel che la vol.

Lissandro: Tutta sta roba gh’avé?

Osto: La comandi, e no la dubita gnente. Semo a Venezia, sala! No ghe nasse gnente, e ghe xe de tutto, e a tutte le ore, e in t’un batter d’occhio se trova tutto quel che se vol. La comandi.

Da allora, la cucina veneziana continua  ad attingere a piene mani ai prodotti delle isole, della laguna, del mare Adriatico e della terraferma e della montagna veneta e friulana, nonché, come in passato, ai tanti prodotti importati e possiede ancor oggi  profumi e sapori che richiamano l’Oriente, come ha piatti che si trovano nei Paesi che appartennero in passato alla Dominante.

 

La cucina veneziana attuale

Come la storia, anche la cucina è sempre in movimento, resta comunque vero che i piatti più caratteristici della cucina veneziana attuale arrivano da lontano. Il baccalà mantecato, ad esempio, realizzato la prima volta all’inizio del ‘600, quando l’influenza della lingua spagnola – gli Spagnoli dominarono Milano e la Lombardia dal 1535 al 1706 – fece cambiare il nome al merluzzo essiccato che, da stoccafisso divenne nel Veneto baccalà ed è leccornia ancor oggi presente in tutti i locali veneziani. Lo stoccafisso fu conosciuto per la prima volta 1432 dal capitano de mar veneziano Piero Querini, in seguito  al suo naufragio nelle Lofoten, ma arrivò a Venezia solo dopo la conclusione del Concilio di Trento, avvenuta nel 1563. E da lontano arriva la castradina, tradizionale ancor oggi nella festa della Madonna della Salute, il 21 novembre, realizzato con la carne di castrato che i veneziani conoscono già dal 1173,. come attesta il calmiere del doge Sebastiano Ziani in cui è menzionata la sicce vero carnis de Romania et de Sclavinia, a indicare la provenienza di quella carne dalla Dalmazia meridionale, dal Montenegro e dall’Albania. Era infatti lungo quelle coste che le navi veneziane caricavano le mezzene di castrato essiccato e affumicato, quale preziosa scorta alimentare. E quando le navi tornavano a Venezia la carne rimasta veniva data ai marinai e doveva essere consumata, per disposizione delle autorità, entro il 21 novembre di ogni anno.

Fra i piatti veneziani d’antica storia ci sono gli sfogéti in saòr, per secoli il piatto dei pescatori nella cena organizzata lungo le rive della loro parrocchia di Santa Marta, in occasione della festa della patrona, il 29 luglio. Poi, introdotte a Venezia dagli Schiavoni, arrivarono anche le sarde in saòr, presenti da sempre in Dalmazia, gustate in barca nella notte del Redentore.

Nel ‘500 arriva nella terraferma veneta anche il riso e i piatti di più antica datazione sono i risi co’ l’ua (minestra di riso con l’uva passa) di chiara ispirazione bizantina; i risi e bisi, che era il piatto immancabile sulla tavola del Doge il 25 aprile, festa del patrono san Marco; i risi cola castradina, conditi con un sugo di carne di castrato; i più popolari risi cola fongadina (con le frattaglie di vitello o d’agnello) e, prima che tramonti il secolo, soprattutto nelle isole, ecco arrivare in tavola risi e fasioi in brodo de gò. Nei secoli seguenti arriveranno altri risotti, arricchiti di sapore con ogni tipo di pesci, molluschi e crostacei, con le verdure dell’estuario e con altre carni. Ne citiamo uno, particolarmente interessante, divenuto in tempi recenti minestra asciutta, il risotto co le sécole, cioè con i pezzetti di carne rimasti attaccati alle ossa dopo che il bovino è stato interamente spolpato, grande gloria gastronomica della cucina veneziana dei secoli passati.

Molto prima di questi piatti ce n’erano comunque altri di molto interessanti, soprattutto in casa dei pescatori, fra cui la sopa de pesse, ottenuta con gli scarti del pescato, che, diventando asciutta, si trasformò in un altro piatto delizioso, il brodetto de pesse, uno stufato che si trova solo in territorio veneziano e a Grado e poi ancora l’anguilla, molto ricercata e preparata in tanti modi, alcuni ormai dimenticati: bisato in grea, bisato a la caéna, bisato in speo, bisato su l’ara, bisato scotà, bisato imbriago, bisato infumegao (a Chioggia), bisato incoconao (altra ricetta chioggiotta), bisato marinà e bisato fritto. Queste ricette danno conto della fantasia dei veneziani del passato e della loro capacità di realizzare preparazioni molto gustose e appetitose con una materia prima facilmente reperibile, come lo erano anche, in laguna, i folpi, i go, le varie famiglie di cefali, fra cui i lotregani e le volpine.

Venezia, come scriveva Cassiodoro, ha sempre fatto uso di pesce, specie il popolo minuto e le cotture erano principalmente due: il pesce piccolo veniva fritto, il grande bollito

E i patrizi? La loro era molto diversa, era cucina di carne, che a Venezia è quasi scomparsa, rifugiatasi comunque nell’adiacente terraferma dove continua a primeggiare su tutte le tavole.

Possiamo fermarci qui, aggiungendo soltanto che al tempo della Belle Époque, poco più di un secolo fa, con l’avvento del turismo, essendo Venezia città di mare, la sua cucina è andata privilegiando decisamente il pesce, elevando a livelli di alta gastronomia l’antica cucina dei pescatori e del popolo, introducendo, anche nei locali più alla moda, moéche, masanéte, schie, gamberetti di laguna, folpi e pesce azzurro e  conservando decisamente i vecchi piatti isolani, come le castraùre di Sant’Erasmo, frutto di una civiltà che, nei secoli della Serenissima, ha idealmente unito a tavola Occidente ed Oriente.