Le moéche col pien
Uno straordinario piatto veneziano
Ho trovato Momo ch’era appena rientrato dal lavoro, era stanco morto. Era uscito prima dell’alba per andare alle serraglie, poi al casòn e ai viéri, dove aveva raccolto una buona quantità di moéche. Seduto in cucina nella sua casa di Burano, con le pareti esterne d’un rosso acceso, mangiava, ancor prima che fosse mezzogiorno, una zuppa calda e corroborante, tenendo d’occhio le sue cinque cassette ripiene di moéche in movimento, accatastate in un angolo della stanza. “State buone ancora un po’, sembrava dicesse a quel piccolo tesoro che teneva continuamente controllato, che andrete subito a Venezia dove vi aspettano.” Poco dopo una barca si fermò sul canale davanti alla casa, appena al di là della strada, con a bordo delle cassette di pesce.
“È mio zio Bepi, disse Momo, adesso prende le cassette delle moéche e le porta a Venezia da due clienti assieme all’altro pesce che ha già in barca.”
Bepi sistemò le cassette sulla barca, le coprì con una tavola e vi sopra mise una grossa pietra per impedire che le moéche uscissero, coprendo il tutto con un telone scuro. Momo salutò lo zio e, trangugiato un bicchiere di rosso, sembrò finalmente quietarsi.
“Adesso, disse, come riprendendo un discorso interrotto dall’arrivo della barca, ai viéri c’è mio fratello Albino, sta selezionando i granchi che ho preso dai cogòlli stamattina, nel pomeriggio gli darò il cambio. Bisogna essere sempre lì, perché le moéche non aspettano. Un altro mio fratello, Marco, sta ora lavorando ai cogòlli innestati sulle seràie, aggiunse. Passa con la barca e rovescia sul fondo i cogòlli con i pesci e i granchi che si sono fatti intrappolare. Poi mette il pesce nelle cassette e i granchi nei sacchi e li porta nel casòn che abbiamo ai margini della laguna. E lì seleziona i granchi e li rimette nei sacchi; prima prende gli spiàntani e li mette nei viéri dove in poche ore diventano moéche, poi prende i gransi boni e li mette nei viéri dei gransi boni, prende quindi i gransi mati e li mette in altri viéri o li ributta in acqua. Per ultimo prende il pesce e lo porta alla cooperativa, ma qualche cassetta la vendiamo noi direttamente ai ristoranti di Venezia.”
Capivo solo una parte dei discorsi di Momo, poiché parlava di operazioni abbastanza complesse e a me del tutto sconosciute. Sapevo cosa sono i gransi, cioè i granchi, conosco pure le moéche, un piatto delizioso, ma mi confondevo davanti ai viéri, alle seràie, ai cogòlli, agli spiàntani, ai gransi boni e a quelli matti e poi tutto quell’andare da una parte all’altra dall’alba al tramonto, mettere e levare dai sacchi, trasferire nei viéri e così via. E lo dissi a Momo che si mise a ridere.
“Allora ti spiego io, disse con un largo sorriso. Si vede proprio che sei foresto. Ascolta: il pesce e i granchi girano per la laguna seguendo i percorsi loro e spesso, senza accorgersi, entrano in zone circondate da reti ben sostenute da pali piantati sul fondo. Questi sbarramenti dalle forme geometriche del tutto inconsuete per chi non se ne intende sono fatti con le reti e si chiamano seràie e creano misteriosi disegni sulle basse acque della laguna. A queste reti sono innestate delle trappole a imbuto dove entrano pesci e granchi senza la possibilità di tornare indietro. Questi imbuti si chiamano cogòlli. Quando passiamo svuotiamo sulla barca il pesce e i granchi e li portiamo nel casòn, un capanno di lavoro dove facciamo le selezioni. Per i granchi maschi questa è la stagione della muta, cioè perdono la loro corazza. È la natura che lo vuole per farli crescere, altrimenti muoiono. Questi granchi, che noi chiamiamo gransi, se sono in procinto di perdere la corazza li chiamiamo spiàntani, se mancano una o al massimo due settimane alla muta li chiamiamo gransi boni, quelli invece ancora molto indietro o già vecchi sono i gransi mati. Tutto qui. Hai capito come funziona?”
Stavo entrando in un mondo ancora misterioso dove si ripetevano, a tempi stabiliti, antichi rituali di pesca. Ero arrivato a Burano, nella laguna nord di Venezia, il giorno prima. Burano è un’isola bellissima, con l’antica tradizione dei merletti e le case allineate lungo i canali dipinte con colori sgargianti. Sapevo dei merletti e m’avevano detto che ormai non ne facevano quasi più. Ma ho visto delle donne anziane sedute in crocchio davanti a una casa, intente a lavorare al tombolo e creare con le mani che muovevano con sorprendente velocità dei preziosi merletti. M’ero fermato ai bordi d’un canale per guardarle lavorare e una di loro mi mostrò come nascono i merletti. Era anziana e parlava in modo quasi incomprensibile. La fotografai e mi sorrise divertita. Intanto sul canale passava una barca e vidi delle cassette ripiene di granchi in movimento. Più tardi, rientrato alla locanda, chiesi di che specie fossero i granchi che avevo visto. “Le xe moéche, sior. No le cognosse?”. Sì, le moéche le avevo l’anno prima mangiate a Mestre, nella trattoria dall’Amelia. Erano semplicemente deliziose. Sapevo che non erano pesci, ma granchi, cioè crostacei e che richiedono una vera specializzazione a chi li vuol produrre. Il locandiere mi presentò un vecchio pescatore, Andrea, che s’era fermato lì a bere un bicchiere di vino.
“Andrea, mi disse il locandiere, ha tre figli moecànti, specializzati nella produzione di moéche.”
Mi guardò e, sentito il mio interesse, m’invitò a casa sua.
“Domani, mi disse il vecchio pescatore, se vieni a casa mia prima di mezzogiorno, a cinquanta metri da qui, trovi mio figlio Momo che ti racconta tutto.”
Il mattino successivo entrando nella vicina rivendita di giornali per acquistare i miei quotidiani trovai anche un libretto che parlava di pesci, crostacei e molluschi di laguna. Lo acquistai subito e poi cercai notizie sulle moéche. Seppi così che si tratta di granchi verdi della specie Carcinus moenas, che mutano due volte l’anno, in primavera, proprio anche in quei primi giorni di aprile, e poi in autunno e quando perdono la corazza restano nudi solo per poche ore, perché poi, a contatto con l’acqua salmastra della laguna, la rifanno velocemente. In quelle poche ore che ne sono privi vengono chiamate dai veneziani moéche e sono una delle migliori e più ghiotte specialità della cucina veneziana.
Ma come fanno i pescatori della laguna a prenderle al momento giusto? Ecco perché avevo deciso di andare dal figlio di Andrea.
“Eh, amico mio, questo è un mondo che conosciamo solo noi. Ma lo sai, diceva Momo, che tutta la roba di laguna e di mare che ha le zampe deve cambiare la scorza, altrimenti non cresce? Gransi, maxanéte, canòce, gransipòri, aragoste, granséole, àstisi, tutti i crostacei che hanno le zampe devono mutare se vogliono crescere.” Interessante, non ci avevo mai pensato. Anche i serpenti mutano pelle ma che i crostacei perdessero il carapace e se lo ricostruissero in poche ore non ci avevo mai pensato.
“«Ma le moéche e le maxanéte non sono la stessa specie?” chiesi a Momo.
“E no, sior lu! Le maxanéte sono le femmine e le moéche i maschi. Sono tutti e due granchi verdi, ma vivono in modo diverso. Le maxanéte mutano solo tra maggio e luglio, quando è finita la stagione della Quaresima, durante la quale, tra marzo e aprile, a mutare sono solo i maschi. Le femmine mutano dopo, quando è il periodo dell’accoppiamento. È allora che si riconoscono le femmine, quando si attaccano ai maschi. Noi, quando mutano, le chiamiamo pùtole, da sempre, perché sono molto disponibili alle richieste dei maschi. Poi, in autunno non mutano più, mentre i maschi perdono di nuovo la corazza al tempo della fraima, tra settembre e ottobre.”
“E le maxanéte, chiesi, sono buone da mangiare?”
“Altroché. Momo sorrideva e quasi mi pareva compiangesse la mia ignoranza. Le maxanéte sono una specialità della cucina autunnale, tra ottobre e novembre, quando sono piene di uova. È in quei mesi che le catturiamo perché vanno mangiate col coràl, cioè con le uova. Sono straordinarie!”
Mi piaceva ascoltare Momo. Col suo linguaggio semplice, anche colorito, era una fonte inesauribile di saperi su questi granchi verdi che abitano la laguna di Venezia.
“Ma lo sai, amico, quanta perizia ci vuole per distinguere gli spiàntani dai gransi boni e questi dai gransi mati? E quanta bravura ci vuole per prendere le moéche appena sono pronte? E lo sai che se arrivi a prenderle in ritardo gli spiàntani che hanno la corazza se le mangiano e non ne trovi più?”
Il locandiere, ottimo conoscitore della sua isola, mentre mi decantava, la sera prima. il piatto delle moéche col pien che mi avrebbe preparato se restavo lì qualche giorno, s’era versato da bere e s’era seduto accanto al mio tavolo.
“«Caro signor, diceva, mentre io gustavo il risottino con le erbine dell’Estuario che mi aveva preparato, questa è un’isola unica al mondo. Ha mille anni di storia e per almeno nove secoli qui tutti sono vissuti pescando. Poi con i primi alberghi costruiti al Lido, al tempo della Belle Époque, dieci vent’anni prima che scoppiasse la grande guerra, qui molti hanno cambiato mestiere e sono andati a vivere a Venezia o anche a Mestre e dopo la seconda guerra mondiale abbiamo perso addirittura metà degli abitanti che sono andati a vivere in terraferma, a Mestre, a Marghera, a Favaro, a Chirignago e anche più in là. Per fortuna che alcuni giovani hanno imparato il mestiere di moecanti, rubandolo ai chioggiotti che erano gli unici, fino ad allora, a produrre moéche. E così, oltre al turismo che è arrivato anche da noi, si è aggiunta negli ultimi decenni anche la pesca e la produzione di moéche, che i chioggiotti da un po’ di tempo hanno abbandonato quasi del tutto, in favore della pesca delle vongole.”
Momo mi aveva convinto: quello dei moecanti è un mestiere unico, che richiede precise conoscenze e una presenza continua nel periodo della muta. Poi quel giovanotto mi chiese: “Vuoi venire con me in barca in laguna così vedi tutte queste cose?”
Non ci pensai un attimo a rispondergli affermativamente.
“Lasciami riposare fino al pomeriggio, mi disse. Ti aspetto qui verso le tre, quando arriva mio fratello Marco. Prendiamo la sua barca e andiamo a dare il cambio ad Albino.”
Andai un po’ in giro per Burano, diedi uno sguardo alle sue chiese, ascoltai il chiacchierare cantilenante e molto dolce della gente nelle calli e nei campielli, poi, verso l’una, il mio locandiere mi servì degli ottimi spaghetti con le vongole e una meravigliosa frittura di pesce. C’erano anelli di calamaro, seppioline di barena, gamberi di vario tipo, minuscoli pesciolini, tutto frammisto a verdurine dell’Estuario, appena colte negli orti dell’isola. Non avevo mai mangiato una frittura così, freschissima, piacevolmente croccante, con una pastella leggera come un velo da sposa. Una vera delizia, accompagnata da un vino frizzante e beverino proveniente dalla vicina terraferma. Mi fermai poi a sfogliare i giornali, tenendo controllato l’orologio. Qualche minuto prima delle tre ero davanti alla casa di Momo.
La barca, spinta dal motore, lasciò presto l’isola per entrare in laguna. Momo conosceva il percorso, lo faceva da anni. L’acqua era molto bassa ma Momo sapeva evitare i dossi; a volte sfiorava le barene perché i canali lagunari, spiegava, corrono dove vogliono, anche vicinissimo alle terre emerse. Poi cominciarono ad apparire le serraglie, le lunghe reti messe a ferro di cavallo o a triangolo e sostenute da pali ben fissi sul fondo lagunare.
“Ecco, guarda, mi disse, adesso controllo i cogòlli.”
Fermò la barca accanto alle reti, spense il motore e prese quelle trappole a forma di imbuto, fatte di reti e di cerchi di legno e ne svuotò il contenuto sul fondo della barca. Poi introdusse i granchi in un sacco che chiuse subito e versò il pesce nelle cassette, coprendole poi di ghiaccio. Ripeté l’operazione più volte, per oltre un’ora, spostando la barca con i remi da una seràia all’altra. Terminato quel lavoro riaccese il motore e si diresse verso un rialzo del terreno dove c’era una palafitta.
“Ecco il nostro casòn, disse, ci fermiamo qua per dividere i gransi.”
Momo salì la scaletta che portava a una stanza da lavoro, io gli passai i due sacchi con i granchi. Poi salii anch’io. Momo svuotò allora un sacco alla volta e con occhio esperto passò tra le mani, uno alla volta, tutti i granchi e li divise rimettendoli in tre sacchi distinti.
“Vedi, mi disse, gli spiàntani domattina saranno moéche e li metto in un sacco. I gransi boni vanno in un altro sacco e quelli mati ormai non mutano più, non servono e li ributto in laguna.” Muoveva le mani con grande velocità, senza mai alzare gli occhi dai granchi. Finito il lavoro di cernita, calò i sacchi nella barca e ripartimmo.
“Adesso andiamo nel nostro canale, dove ci sono i vieri”, disse.
Ripartimmo.
“Ma come hai fatto a distinguere i tre tipi di granchi?” gli chiesi.
“Gli spiàntani mostrano una fessuretta e sembra che stiano per scoppiare. Ci vuole occhio e tanta esperienza, bisogna sentirli in mano e guardare le zampe che non sono come quelle degli altri gransi. Poi i gransi boni sono più lucidi degli altri, hanno la pancia più soda, sono più gonfi. Ma credimi, è difficile spiegare, bisogna toccarli, sentirli con le mani. A volte basta guardare il dorso e si capisce se sono pronti, se manca qualche settimana o se sono mati. Insomma, caro amico, ci vuole pratica, tanta pratica.”
Che mondo strano e meraviglioso assieme, pensavo.
“Ma si trovano solo qui questi granchi?” chiesi allora.
“Tempo fa mi hanno detto, mi rispose Momo, che una cosa simile avviene anche in America, in una valle marina del Maryland. Lì, dicono che c’è la tradizione di raccogliere, quando sono in muta, dei granchi chiamati azzurri per farne dei piatti d’alta cucinai. Questo impiego gastronomico, a quanto pare, si fa solo qui e in quella valle e poi basta.”
Dopo un po’ Momo rallentò la corsa.
“Siamo arrivati”, disse. Eravamo in un canale dal quale emergevano le parti superiori di grandi contenitori, non capivo se fatti di plastica o in tavole di legno. Ce n’erano di vario tipo e l’acqua poteva tranquillamente entrare e uscire per le numerose fessure. Momo mi spiegò che dentro i vieri possono andare solo granchi dello stesso sesso e in quella stagione solo maschi. “Se mettessi anche le pùtole i maschi si accoppiano subito e così si indeboliscono e non mutano più. Poi ogni viero deve avere granchi allo stesso stadio di maturazione, altrimenti gli spiàntani, appena perdono la corazza, vengono aggrediti dagli altri, che, rimasti intrappolati, poi insaccati e tenuti chiusi per ore hanno fame e diventano cannibali. Per questo bisogna controllare i vieri più volte al giorno e togliere subito le moéche.”
Momo, sdraiato sopra uno di quei contenitori e con la testa e le braccia dentro l’apertura, prende le moéche e le trasferisce in una cassetta. “È uno spettacolo unico, mi dirà poi, quando vedi il guscio che si apre e vedi comparire la schiena nuda, poi le nuove zampine, una alla volta, poi il granchio si libera completamente del vecchio vestito e è diventato una moéca. È un nuovo essere, sembra quasi una nuova nascita. Se metti in acqua questo granchio nudo dopo poche ora ricostruisce la corazza e ridiventa un granchio normale. Fuori dall’acqua può vivere anche un paio di giorni, senza che ricresca la sua corazza.”
Stiamo tornando verso casa con alcune cassette di moéche ben chiuse da una tavola.
“Vedi, caro amico, questa è la vita di moecanti di Burano. Il mondo arriva a Venezia per gustare questo granchietto nudo, ma per poterlo avere quanto lavoro. E speriamo che in laguna restino tanti granchi e chi siano ancora moecanti, altrimenti questa festa finirà presto.”
Rientrati a Burano volle che mi fermassi a casa sua per la cena. Sua madre preparò le moéche col pien ed erano deliziose. Le chiesi come si prepara questo piatto che si mangia solo a Venezia e a Chioggia.
“Si lavano velocemente le moéche sotto acqua corrente, mi disse, poi si mettono in una terrina con alcune uova sbattute. Si copre bene perché non escano e si lasciano così qualche ora. Loro mangiano l’uovo e si riempiono bene e sembrano addirittura grasse. Quando le togli sono come intontite da quanto uovo hanno mangiato, allora le passi velocemente alla farina e le fai friggere in abbondante olio bollente e passano dal sonno alla morte senza accorgersi. Sono un piatto nato tanto tempo fa a Chioggia, mi pare nel Settecento, e che si trova solo qui, nelle isole e attorno alla laguna.”
Non avevo bisogno di sapere altro, l’indomani mattina
sarei partito da Burano arricchito da un’esperienza che non avrei mai
immaginato di poter vivere dal vivo.