La vera storia della Malvasia istriana
di
Giampiero Rorato
Le terre bagnate dall’Adriatico settentrionale e
specialmente la penisola istriana, hanno rappresentato nel basso medioevo il
trampolino di lancio d’uno dei vitigni e conseguentemente d’una delle uve più
antiche che ci sia dato di conoscere: la Malvasia.
La storia di questo nome è
semplice e fantasiosa assieme, certo è che si tratta di un’uva e di un vino che
esistono fin dai primordi dell’umanità e, cosa più unica che rara, sono
riusciti a conservare inalterato la loro identità pur nel volgere dei millenni
e delle molte vicissitudine che li hanno accompagnati.
La storia della Malvasia inizia molto lontano e lo stesso nome, assieme a quello del Moscato, si è conservato uguale nel corso dei secoli, a differenza di tutti gli altri vitigni e vini conosciuti e coltivati.
La storia della Malvasia inizia molto lontano e lo stesso nome, assieme a quello del Moscato, si è conservato uguale nel corso dei secoli, a differenza di tutti gli altri vitigni e vini conosciuti e coltivati.
Per la nostra storia,
occorre partire dalla Francia, anche se poi, alla fine del viaggio, si arriva
in Istria, nella Venezia Giulia, in Friuli, nel Veneto e, da qui, in mille
altri luoghi ancora.
In uno dei tanti tornei
medioevali tenuto all’inizio del XIII
secolo nello Champagne, e più precisamente nel castello di Ecri, Tebaldo conte
di Champagne, allora ventiduenne, dopo aver ascoltato un infuocato sermone di
Folco di Neuilly, aveva lanciato ai suoi compagni d’arme e di baldorie la
proposta di radunare il meglio della cavalleria d’Europa e partire per la
Terrasanta per liberare il Sepolcro di Cristo dai Saraceni.
Con un nonno come Luigi VII e due zii come Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone, egli aveva le crociate nel sangue e per di più era energico, ambizioso e molto religioso. Dopo che la sua proposta era stata accolta con entusiasmo da molti cavalieri francesi Tebaldo mandò dei messaggeri a Roma, al papa Innocenzo III, perché indicesse ufficialmente quella che sarebbe stata la quarta crociata e sei cavalieri guidati da Geoffrey de Villehardouin, maresciallo di Champagne, li inviò a Venezia per negoziare il trasporto delle truppe verso la Terrasanta.
Con un nonno come Luigi VII e due zii come Filippo Augusto e Riccardo Cuor di Leone, egli aveva le crociate nel sangue e per di più era energico, ambizioso e molto religioso. Dopo che la sua proposta era stata accolta con entusiasmo da molti cavalieri francesi Tebaldo mandò dei messaggeri a Roma, al papa Innocenzo III, perché indicesse ufficialmente quella che sarebbe stata la quarta crociata e sei cavalieri guidati da Geoffrey de Villehardouin, maresciallo di Champagne, li inviò a Venezia per negoziare il trasporto delle truppe verso la Terrasanta.
Il papa accolse la richiesta e bandì la crociata, mentre i
Veneziani, da abili mercanti, vollero discutere e poi fissare con molta cura le
clausole del contratto. I messi francesi prevedevano che nella primavera del
1202, data fissata per l’inizio della crociata, sarebbero convenuti a Venezia
almeno 35.000 uomini e in cambio della promessa di 85.000 marchi d’argento i
maggiorenti veneziani e il doge stesso si impegnavano a procurare navi e viveri
per un anno per l’enorme esercito formato da 4.500 cavalieri con altrettanti
cavalli, nove mila scudieri e ventimila fanti a piedi, più altri uomini
necessari alle molte incombenze richieste da una simile impresa.
Fatti i conti,
occorrevano più di trecento navi e Venezia avrebbe armato a proprie spese 50
galee, a condizione di ricevere metà dei tesori che sarebbero stati
conquistati. Prima di prendere la decisione, il doge volle sentire il parere
dei suoi cittadini.
«E così - ha scritto con qualche esagerazione nel suo
diario il maresciallo di Champagne, testimone dell’intera vicenda - fece
radunare almeno diecimila uomini nella basilica di San Marco, la più bella
della città, per ascoltare la messa e pregare Dio perché concedesse la sua
guida. E dopo la messa il doge convocò i sei cavalieri francesi e li pregò di esporre
essi stessi al popolo veneziano le loro richieste. Geoffrey de Villehardouin,
con il consenso dei suoi compagni, parlò per tutti. Poi il doge e il popolo
alzarono in alto le mani e gridarono forte con una sola voce: Lo concediamo! Lo
concediamo!». E ancora una volta l’Arsenale divenne un cantiere attivo giorno e
notte, con una presenza ininterrotta di migliaia di operai.
Ritornano qui in mente i
celebri versi di Dante Alighieri (Inferno, canto XXI), che, descrivendo anni dopo l’Arsenale, non
temette di paragonarlo a un girone infernale:
Quale ne l’Arzanà de’Viniziani
Bolle l’inverno la tenace pece
A rimpalmar li legni lor non
sani,
Che navicar non ponno; e‘n quella vece
Chi fa suo legno novo e chi
ristoppa
Le coste a quel che più viaggi
fece;
Chi ribatte da proda e chi da poppa;
Altri fa remi e altri volge
sarte;
Chi terzeruolo e artimon
rintoppa;
Tal, non per foco, ma per divin’arte
Bollia là giuso una pegola
spessa,
Che ‘nviscava la ripa d’ogni
parte.
L’enorme esercito accorso
all’invito del papa si radunò sulle spiagge del Lido nel giorno di san
Giovanni, il 24 giugno 1202, ospitato in grandi capanne di tavole per i
soldati, mentre per i cavalli erano state costruite lunghissime scuderie.
Nel
frattempo il doge Enrico Dandolo, carico d’anni e di saggezza, discuteva degli
interessi veneziani con il figlio di Federico Barbarossa, Filippo di
Hoenstaufen, capo della casa di Svevia e del partito ghibellino.
Protrattesi oltre il previsto e finalmente concluse le lunghe e complesse trattative, delle quali non è rimasto alcun documento e men che meno per quanto riguarda gli accordi segreti, e approntate le navi in quantità che risultò essere superiore al necessario, l’8 novembre 1202 la grande armata salpò da Venezia, sotto il comando supremo del doge, il quale, benché ottuagenario e cieco, era ancora vigoroso di corpo e di mente e insuperabile nel procacciare in ogni faccenda gli interessi della sua città.
Protrattesi oltre il previsto e finalmente concluse le lunghe e complesse trattative, delle quali non è rimasto alcun documento e men che meno per quanto riguarda gli accordi segreti, e approntate le navi in quantità che risultò essere superiore al necessario, l’8 novembre 1202 la grande armata salpò da Venezia, sotto il comando supremo del doge, il quale, benché ottuagenario e cieco, era ancora vigoroso di corpo e di mente e insuperabile nel procacciare in ogni faccenda gli interessi della sua città.
Prima di partire, tuttavia, il doge, per
consolidare la sua posizione e avere un preventivo avallo dei veneziani per le
scelte future, anche se diverse da quelle pubblicamente pattuite, aveva
convocato i patrizi veneziani e i cavalieri francesi nella basilica marciana,
ove fece questo discorso: «Signori, voi siete qui riuniti assieme al più degno
popolo del mondo per la più alta impresa mai tentata.
Io sono vecchio e debole;
ho bisogno di riposo; il mio corpo è infermo. Ma io so che nessun uomo può
guidarvi e governarvi come io, vostro capo, posso fare. Se pertanto voi volete
permettermi, prendendo la croce, di guidarvi e di difendervi, mentre mio figlio
resta al mio posto a proteggere la Repubblica, io sono pronto a vivere e a
morire con voi e con i pellegrini.» Ha scritto il Villehardouin, presente
all’avvenimento, che «dopo averlo udito, i veneziani gridarono a una sola voce:
“Preghiamo Iddio che tu faccia questa cosa e tu venga con noi!” Allora egli
scese dal pulpito e andò all’altare e si inginocchiò e pianse. Gli fu cucita la
croce sul suo grande berretto di cotone, tanto decisamente egli voleva che
tutti potessero vederla».
Tra le navi che uscirono
dalla laguna in mare aperto grandeggiavano tre immensi dromoni, il Mondo, la
Pellegrina e il Paradiso, lunghi ben sessanta metri e larghi dieci, armati con
tre alberi e tre basse vele quadrate, un castello a poppa e uno a prua e nel
mezzo una specie di trincea per riparare i combattenti. Queste navi da guerra
erano spinte da cento rematori ciascuna, posti su due file per parte, capaci di
far correre l’imbarcazione anche in difetto di vento.
Il primo porto toccato dall’armata
che innalzava il gonfalone di san Marco fu Trieste, quindi, dopo altre tappe
intermedie, la flotta si parò il 10 novembre davanti alla bella e munita città
di Zara, allora sotto il dominio degli Ungheresi, ma che i crociati
conquistarono con estrema facilità, lasciandola in dominio della Serenissima.
Passato l’inverno in quel porto, nella seguente primavera il possente naviglio
riprese il mare, ma invece di volgere le vele verso i lidi della Terrasanta, si
diresse alla volta di Costantinopoli. Cos’era dunque successo per far cambiare
progetti ai capi della spedizione e allo stesso Dandolo?
A Zara, durante
l’inverno, era arrivato Alessio, figlio dell’imperatore bizantino Isacco
Comneno e cognato di Filippo di Svevia, per impetrare l’aiuto dei crociati
contro lo zio paterno, anche lui di nome Alessio, che aveva imprigionato suo
padre, legittimo imperatore d’Oriente, usurpandone il trono. Il doge, il re di
Germania e gli altri marchesi e baroni che comandavano i crociati intravidero
nell’impresa proposta insperati vantaggi economici e li vide in particolare
Enrico Dandolo, che pensava, conquistata Costantinopoli, di alzare le bandiere
veneziane in tutti i porti dell’Adriatico e dell’Egeo.
Presa la decisione di
assecondare le richieste del giovane principe bizantino, i crociati
abbandonarono il progetto di far guerra ai Saraceni e diressero le navi verso
la città imperiale. Costantinopoli fu conquistata in breve tempo, mentre
l’usurpatore prendeva la fuga per non cadere
nelle mani dei vincitori. Isacco Comneno fu liberato dal carcere, ma, vecchio e
malato, rinunciò al trono in favore del figlio, il quale non fu però in grado
di mantenere le promesse fatte ai crociati e da qui ebbe inizio un nuovo
assalto alla città, che avvenne il 9 aprile 1204, cui seguirono saccheggi e
violenze d’ogni genere.
I veneziani, che, secondo cronache casalinghe
dell’epoca, anche in quel frangente pensarono non ai loro personali interessi
ma allo splendore della loro città, s’impadronirono di una enorme quantità di
oggetti preziosi, quadri, statue, vasi d’oro e d’argento e gemme d’ogni tipo
con cui poi ornarono la Pala d’oro e arricchirono il tesoro di San Marco. E,
dato che c’erano, presero anche i quattro cavalli di rame dorato, provenienti
da Chio e che abbellivano l’ippodromo di Bisanzio dal tempo del secondo
Teodosio e il gruppo scultoreo in porfido dei Tetrarchi, risalente al IV secolo dopo Cristo.
La conquista della splendida città sul Bosforo, nella quale, come scrisse Robert de Clari, uno dei comandanti latini, “erano concentrati i due terzi delle ricchezze del mondo”, cambiò radicalmente la storia di Venezia. Grazie a questa conquista essa divenne finalmente signora dei mari, prendendo il posto di Costantinopoli quale più bella e ricca capitale dell’intero Mediterraneo. Chi aveva tratto i maggiori vantaggi dall’impresa era stato dunque l’abilissimo doge Enrico Dandolo che aveva saputo volgere in favore di Venezia tutte le vicende di quella straordinaria spedizione.
Aveva infatti riconquistato Zara, aveva
evitato l’attacco all’Egitto suggerito con insistenza dai francesi, proteggendo
in tal modo gli interessi commerciali veneziani nel mondo musulmano; aveva
assecondato il desiderio di Filippo di Svevia di deviare su Costantinopoli. E
nella più bella città dell’Oriente cristiano aveva dato prova di valore e di
astuzia, conquistando un bottino insperato. Nelle successive trattative
dimostrò poi appieno la sua scaltrezza diplomatica ottenendo un trattato che
dava a Venezia gran quantità di privilegi.
Non va poi dimenticato che anche
se poteva già fregiarsi dei titoli di doge di Venezia, della Dalmazia e della
Croazia, il Dandolo assunse in tale occasione pure il titolo di Signore di un quarto e mezzo dell’impero di
Romania. Forse il nuovo appellativo era un po’ ridondante e la quantità
indicata non corrispondeva al vero, anche perché, ad esempio, la Croazia e la
Dalmazia appartenevano sì alla signoria veneziana, ma solo lungo la costa.
Nonostante ciò, gli eventi della mancata quarta crociata modificarono davvero
la geografia politica del Mediterraneo e dell’Adriatico. Venezia iniziava un
nuovo periodo della sua storia, diventando il più importante centro economico e
commerciale dell’Europa, l’emporio più ricco d’ogni tipo di merci, luogo
d’incontro di tutti i mercanti del Vecchio Continente, del Medio Oriente e dei
Paesi mediterranei.
E se a Venezia giunsero, col
viaggio di ritorno, tanti splendidi tesori ancor oggi conservati e ammirati,
quella quarta crociata lasciò altri segni tuttora presenti e vivi nell’economia
dell’Europa.
Conclusi gli impegni a
Costantinopoli sul finire di quell’avventurosa estate del 1204, alcune navi di
ritorno a Venezia procedevano lente e cariche di bottino costeggiando la
Grecia, fermandosi ogni tanto per rifornirsi d’acqua e di viveri. Superate le
Sporadi settentrionali e la penisola Eubea, passarono tra questa e l’isola di
Andro, sfiorarono la punta meridionale dell’Attica e s’avvicinarono
all’Argolide.
E dalle navi che s’apprestavano a circumnavigare il Peloponneso,
quei mancati crociati videro le colline dell’Argolide tutte inghirlandate di
vigne e desiderosi di gustarne i grappoli che luccicavano al sole mediterraneo
e bere con generosità i vini conservati nelle cantine scavate nella roccia,
gettarono le ancore nel porto di Monemvasìa.
Era per l’appunto in quel
porto e in quelli delle isole intorno che i veneziani inviavano già dagli anni
successivi all’impresa dell’Orseolo, quindi da poco dopo l’anno Mille, le loro
navi a comperare quel vino, specie quello resinato, che tanto piaceva nelle
case dei patrizi e nelle osterie cittadine. Scesero dunque dalle galee e
assaggiate quelle uve meravigliose e i vini da esse prodotte, decisero di
approfittare della felice opportunità e di prendere, oltre a molti otri di
vino, gran quantità di quei tralci per portarseli a casa.
Dopo la sosta a
Monemvasìa, le navi ripresero il mare risalendo l’Adriatico, fermandosi a Zara
e, prima di entrare bel bacino di San Marco, anche nei porti dell’Istria, a
Rovigno, a Parenzo, a Cittanova e poi a Trieste e a Grado, lasciando ai
cavalieri che sbarcavano parecchi tralci recisi nelle vigne greche perché
venissero innestati sulle viti autoctone, coltivate in quei luoghi da oltre
mille anni.
Anche altri cavalieri e baroni, trasportati dalle navi veneziane,
avevano fatto provvista di tralci greci e così in pochi anni le uve del
Peloponneso cominciarono a maturare in Istria, quindi, nei secoli successivi, nella
Venezia Giulia, in Friuli, nel Veneto e poi ancora in Francia, in Spagna, in
Portogallo e perfino nelle isole Canarie, dove comunque v’erano già dei vitigni
sia a bacca bianca che rossa, provenienti dalla zona di Monemvasìa, diffusi nel
Mediterraneo dai Fenici e poi Greci oltre un millennio prima.
Il nome della
città da cui provenivano quei tralci era piuttosto difficile da pronunciare dai
marinai veneziani, i quali perciò l’avevano venezianizzato già da due secoli e poi
ripreso nelle altre regioni d’Italia in Malvasìa e lo stesso nome fu dato alle
viti peloponnesiache e al vino prodotto sia nel Peloponneso, che nelle isole di
Candia, Rodi e Santorino e nelle altre isole dell’Egeo meridionale, come pure
dovunque quelle viti andarono moltiplicandosi.
Da allora, fra i tanti tesori che arricchirono la Serenissima, va ascritta anche la Malvasia, anzi, ad essere più precisi le Malvasie, oggi l’uva più prodotta in Istria - e nel villaggio di Materada una pergola di Malvasia rendeva liete e ombrose le estati di FulvioTomizza - e fra le più coltivate in tutte le terre bagnate dall’alto Adriatico, con presenze che si estendono ormai in ogni parte del mondo.
Da allora, fra i tanti tesori che arricchirono la Serenissima, va ascritta anche la Malvasia, anzi, ad essere più precisi le Malvasie, oggi l’uva più prodotta in Istria - e nel villaggio di Materada una pergola di Malvasia rendeva liete e ombrose le estati di FulvioTomizza - e fra le più coltivate in tutte le terre bagnate dall’alto Adriatico, con presenze che si estendono ormai in ogni parte del mondo.