L’origine dei Veneti tra storia e leggenda
di Giampiero Rorato
La città era avvolta dalle
fiamme che s’alzavano alte in quella tragica notte e i vincitori, dopo anni di
snervanti attese, sanguinose battaglie e centinaia di pire innalzate per
bruciare i loro morti, sembravano impazziti.
Avevano corso per ore tra gli
accampamenti e la città, irrompendo dapprima per il varco aperto dai Troiani
stessi per introdurre il cavallo di Ulisse, quindi per le porte abbattute, ed
erano penetrati nelle case e nei palazzi di Priamo e degli altri notabili
distruggendo e bruciando con rabbia quanto trovavano; avevano inseguito e
ucciso il maggior numero di nemici; poi, aperti i loro otri, avevano brindato
alla vittoria e quando ormai stava per spuntare l’alba s’erano finalmente
acquietati nelle braccia di Morfeo.
Nelle stesse ore, dietro la
città in fiamme, nel folto della selva che s’allungava verso le alture, gruppi
di Troiani scappati alla strage cercavano nella notte familiari e amici per
fuggire al più presto dal fuoco e dalla morte.
E qualcuno fra i pochi anziani
sopravvissuti all’eccidio, dopo aver combattuto e sofferto invano per difendere
la patria, si sarà certamente chiesto se quanto stava succedendo fosse davvero
voluto dagli dei e quale tremenda vendetta stavano essi consumando e per quali
motivi.
Forse nell’Olimpo non erano ancora paghi del devastante terremoto che
qualche decennio prima aveva demolito dalle fondamenta la nobile città di
Troia? Pur in mezzo all’oscurità della selva, sinistramente illuminata da
lontani bagliori, quei fuggiaschi avevano ancora negli occhi l’assalto dei
Greci, l’immane rogo e la terribile carneficina. La splendida capitale della
Troade che s’innalzava superba a poche miglia dall’Egeo e dall’Ellesponto,
sicura nelle sue possenti mura, ricca di risorse economiche e ancor più di
giovani valorosi stava velocemente trasformandosi in un acre cumulo di macerie
che il tempo avrebbe sommerso e cancellato per sempre.
Perché era successo tutto
questo? I giovani troiani che avevano a lungo combattuto sotto le mura della
loro città contro le preponderanti forze greche forse non lo sapevano, perché
nessuno avrà detto loro che quella era una guerra che i Greci avevano
combattuto per il pane, altro che Elena, Paride o Menelao! L’aristocratica e
bellicosa casta che comandava a Troia pretendeva infatti una taglia da tutte le
navi che entravano e uscivano dagli stretti e i Greci, che grazie a Giasone
avevano scoperto che nella lontana Colchide il grano cresceva rigoglioso -
quello era infatti il prezioso vello d’oro - e lo andavano a prendere con le
loro navi perché in patria non allignava, dovevano pagare ai Troiani uno scotto
sempre più pesante.
Fra gli anziani che una
qualche divinità amica aveva salvato dalla morte e che in quella tristissima
notte raccoglievano e organizzavano i superstiti c’era anche Antenore, il probo
consigliere di Priamo e di Ettore, da questi molto stimato seppur poco
ascoltato. Più volte aveva supplicato di aprire trattative con i Greci e di
restituire Elena al suo legittimo sposo, pena la distruzione della loro città.
Troppo forte e potente è la coalizione greca per pensare di resisterle e di
sconfiggerla, ripeteva, ma Paride era un giovane orgoglioso e aveva convinto la
sua gente che aprire un tavolo di trattative con i Greci per la soluzione dei
problemi sul tappeto e restituire Elena a Menelao, significava ammettere che
Troia era debole e incapace di sostenere
e respingere l’assalto dei nemici. Nessuna nave può tornare dagli stretti,
dicevano dunque i baldanzosi eredi della nuova dinastia dei potenti Troiani, se
non scarica sulle nostre rive parte del grano di cui sono piene e per difendere
questo diritto siamo pronti a combattere fino alla morte. E per molti, Ettore
in testa, fu davvero la morte.
I vecchi, convinti anche
loro del diritto del più forte, non erano riusciti a conservare la pace,
garantendo continuità di vita alla loro giovane città e, fra pochissimi altri,
anche il saggio Antenore aveva previsto il tragico sbocco di tanto superbo
orgoglio ma invano e ora, al pari di Enea, era costretto a scappare nella notte
dalla sua città in fiamme e dai Greci, vegliando sulla moglie Teano e i figli
Elicaone, Polidamante e gli altri di minore età, mentre a lui guardavano centinaia
di Troiani superstiti e gli alleati della Paflagonia, gli ardimentosi
combattenti a cavallo rimasti senza re, caduto giorni prima in battaglia a
difesa della città amica.
Costoro, conosciuti come
Heneti o Veneti, erano accorsi col loro duce Pilemone alla chiamata dei
Troiani, probabilmente subito dopo la morte di Ettore ed erano arrivati con i
loro piccoli e veloci destrieri, quella “razza di indomite mule” cantata da
Omero, tanto erano resistenti alla fatica e al lavoro. Poi Pilemone era morto
in battaglia e nella notte della terribile sconfitta il suo popolo,
impossibilitato a tornare in patria a causa di una insurrezione (Heneti, seditione ex Paphlagonia pulsi, Livio,
Hist. 1,1), si era rivolto ad Antenore perché lo guidasse alla salvezza e a una
nuova sede. E questi ne aveva assunto volentieri il comando e li porterà, come
testimonia Tito Livio, «nel più interno golfo del mare Adriatico» (in intimum maris Adriatici sinum, Hist.
1,1.).
E se l’indicazione non fosse ancora chiara lo storico si premura di
precisare che «i Veneti e i Troiani, cacciati gli Euganei che vivevano tra il
mare e le Alpi, ne occuparono le terre» (Euganeisque,
qui inter mare Alpesque incolebant, pulsis Enetos Troianosque eas tenuisse
terras, ivi.). Livio precisa pure, iniziando la sua Storia di Roma che
«dopo la presa di Troia si infierì contro tutti i Troiani, fuorché due, Enea e
Antenore, in favore dei quali e per un antico vincolo di ospitalità e perché
essi erano sempre stati fautori della pace e della restituzione di Elena, gli
Achivi rinunciarono a ogni diritto di guerra» (Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse
Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti iure hospitii et quia pacis
reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achivos
abstinuisse, ivi.). E la storia sembra essere stata ancora benevola con
Antenore se, come riferisce Virgilio, Venere, pregando Giove in favore di Enea,
esclama:
«Qual limite, gran re,
dunque tu poni
ai lor travagli? E poté pure
Antenore,
sfuggendo al folto delle
mischie achèe,
negl’illirici seni entrar
sicuro
e fin nel cuore del liburnio
regno;
poté varcare le fonti del
Timavo,
onde per nove bocche in mar
prorompe,
sì che ne tuona e ne
rimugghia il monte,
e fiumana sonante i campi
inonda.
E la città di Padova ei
costrusse
per sede ai Teucri, e diede
un nome ai suoi,
ed ivi alfine l’armi iliache
appese;
lieto or riposa in placida
quïete.»
(... Quem das finem, rex magne,
laborum?
Antenor potuit mediis alapsus
Achivis
Illyricos penetrare sinus atque
intuma tutus
regna Liburnorum et fontem superare Timavi,
unde per ora novem vasto cum murmure montis
it mare proruptum et pelago premit arva sonanti.
Hic tamen ille urbe Patavi sedesque locavit
Teucrorum et genti nomen dedit
armaque fixit
Troïa, nunc placida compostus pace quiescit...)
[Eneide, 1, 241-249, trad.
Guido Vitali, Mursia 1986]
La storia delle origini dei
Veneti e del Veneto è dunque la storia di un viaggio oltre il mare, l’esodo
lungo e difficile di un popolo che, abbandonata la patria sulle sponde
meridionali del Mar Nero, dopo aver combattuto a fianco dei Troiani perdendo il
re, impossibilitato a tornare in patria, aveva fatto propria la sconfitta degli
alleati e s’era dato a uno dei capi dei vinti per cercare la salvezza e una
nuova patria. Ancora una volta dunque il riscatto passa attraverso un viaggio
iniziatico sulle acque e oltre le acque ed è proprio un viaggio verso l’ignoto
che porta alla rinascita della stirpe Heneta, aprendo ad essa scenari nuovi che
si prolungheranno nel tempo verso un futuro di cui non si vedono i limiti.
Storia affascinante e misteriosa, non cantata da alcun poeta, come invece toccò
in sorte al pio Enea e al suo nemico Ulisse, così come anni prima il mito aveva
cantato la nascita delle isole incastonate nel golfo del Quarnero.
Gli storici non raccontano
quale sia stata la via percorsa da Antenore e dai Veneti per giungere dall’Asia
Minore al golfo più interno del mare Adriatico. È tuttavia presumibile si sia
trattato di una via marittima, la stessa percorsa in antico dagli Argonauti
inseguiti da Apsirto, e decidendo poi di occupare la regione già abitata dagli
Euganei avranno dovuto sbarcare lungo la costa occidentale, magari alla foce o
poco all’interno di uno dei tanti fiumi che attraversano la regione, forse il Po,
l’Adige o il Brenta. Ma quelle coste, come annota Tito Livio, erano impetuosa italica litora (X, 2,4) a causa dei forti venti di
scirocco e di bora che soffiavano spesso minacciosi lungo la costa occidentale,
mentre le sponde orientali conoscevano già allora e ancor più nei secoli
seguenti un continuo andirivieni di navi greche che approdavano a Lesina,
Lissa, Faro e Nesazio. Ma gli stessi navigli greci arrivavano da epoche lontane
anche alle foci del Po e lo risalivano per acquistare i gioielli d’ambra, lavorati
nei villaggi lungo il fiume, nei pressi di Fratta Polesine.
Maurus Servius Honoratus,
commentando Virgilio, afferma con sicurezza che Antenore e i Veneti sbarcarono
nella Venezia ed è infatti a quest’epoca che risalgono gli empori di Adria e di
Spina, principali punti di riferimento nell’alto Adriatico per le attività
commerciali dei Greci, come hanno mostrato gli archeologi che vi hanno
rinvenuto ceramica attica e altri oggetti di provenienza micenea. O forse, come
racconta lo stesso Virgilio, lo sbarco era avvenuto alle foci del mitico e
misterioso Timavo, ai piedi del Carso, lì dov’era giunto anche Diomede, carico
di gloria e avvolto dal benvolere degli dei, fatto lui stesso dio.
Quegli antichi fuggiaschi,
«cui fu dato il nome di Veneti» (gens universa
Veneti appellati, Hist.1,1), potrebbero anche aver percorso una via
diversa, tra mare e terra, per non incappare nelle navi dei Greci che, specie
nelle settimane successive alla vittoria, solcavano di continuo l’Egeo e quindi
è possibile si siano dapprima diretti da Troia ancora in fiamme verso nord-est,
attraverso le boscaglie che coprivano la regione, e, giunti al Mar Nero, averlo
navigato sino alle foci del Danubio. Da qui, dalle regioni del Ponto, seguendo
lo stesso percorso attribuito agli Argonauti e ai loro inseguitori, avrebbero
potuto risalire prima il Danubio poi la Drava per giungere alle Alpi e scendere infine
alla pianura, fermandosi definitivamente nelle fertili terre tra la Livenza e il Po.
Al di là delle molte
supposizioni e delle leggende spesso fantasiose per molti è ormai certo che i
Paflagoni e un gruppo di Troiani, chiamati poi tutti col nome di Veneti, sono
partiti con Antenore da Troia dopo la conquista e l’incendio della città ad
opera della coalizione greca comandata da Agamennone, tra il XIII e il XII secolo avanti Cristo, in
quello che è stato un periodo ricco di avvenimenti e di grandi migrazioni,
quando i popoli del mare, ricordati dai geroglifici egiziani, tentarono di
invadere anche l’Egitto ed è proprio da allora che si cominciano a individuare
i primi nuclei etnici che danno vita alla protostoria italica. In questo vasto
e complesso scenario che interessa il Mediterraneo e il vicino Oriente si
muovono anche i Veneti che, arrivati dopo un lungo peregrinare nella pianura a
ridosso dell’alto golfo adriatico e delle Alpi, si concentreranno soprattutto
in alcuni insediamenti, i maggiori dei quali sono Adria, Altino, Asolo,
Belluno, Este, Làgole e Valle di Cadore, Montebelluna, Oderzo, Padova, Treviso,
Vicenza, spingendosi fino a Caporetto e Santa Lucia in Slovenia, tutti luoghi
nei quali sono emersi resti di abitati, necropoli e santuari innalzati alle
loro divinità, soprattutto a Reitia, ma anche Artemide Etolica, i Dioscuri,
Ercole, Gerione, Ob e Diomede.
In tutti questi luoghi hanno creato le loro
prime città e i loro villaggi, continuando ad allevare i cavalli portati dalla
lontana Paflagonia, disboscando pezzi di terra per coltivare il grano e altri
cereali; iniziando poi a commerciare da una città all’altra, dai lidi adriatici
fino alle Prealpi, dalla Livenza al Po e ancora più in là.
Antenore, la saggia guida
dei Troiani superstiti e degli Heneti di Paflagonia, si fermerà nel cuore della
fertile pianura lungo le sponde del fiume Bacchiglione e lì, dando inizio alla
colonizzazione della regione, farà sorgere la città di Padova, appendendo nei
templi le antiche armi troiane. Finalmente è arrivata anche per questa torma di
fuggiaschi mediorientali la pace e il vecchio eroe e i suoi compagni potranno
riposare e godere i tanti doni d’una terra ferace.
Attraverso la storia delle
loro origini, i Veneti confermano dunque l’antichità d’un legame che lega
l’Occidente all’Oriente e questo popolo che mille anni più tardi si unirà e
confonderà con quello romano, restando comunque veneto, possiede già una
cultura che nasce da una complessità di radici.
È una cultura pienamente
mediterranea, connotata in più da quell’atto liturgico di Antenore che,
radunato il popolo nel tempio, donò agli dei e per sempre le vecchie armi dei
suoi guerrieri divenuti agricoltori, preferendo da allora in poi costruire
case, allevare animali, seminare e raccogliere il grano e forgiare falci ed
aratri per il pacifico lavoro dei campi.
Ed è una cultura ove confluiscono i
contributi non solo della civiltà greca e anatolica, ma, come riconoscono gli
studiosi, anche di quella caldea e assiro-babilonese e quindi cultura che è
anche compiutamente orientale, entrata stabilmente nei cromosomi dei Veneti,
patrimonio ricco e prezioso cui si aggiungeranno poi tanti altri contributi,
quelli di Roma, dei Goti, dei Longobardi, dei Bizantini e altri ancora, e, come
la Repubblica
di Venezia insegnerà nei suoi mille anni di storia, l’attenzione all’Oriente e
all’altro da sé e un cosmopolitismo ampio, aperto e solidale resteranno
connaturati per sempre alla civiltà di questo popolo.