Un dolce che nasce in Oriente, attraversa i Balcani e
si trasforma in Ungheria
In un caldo pomeriggio di settembre Luca, giovane
professore di lettere classiche in un liceo di Padova, molto attento anche alla
cultura gastronomica, era arrivato con altri amici a Kusadasi e la città
anatolica, affacciata sull’Egeo, gli aveva subito mostrato il suo aspetto
vivace e pittoresco, piena di bazar coloratissimi e ristoranti che esponevano
in cassette e banchi frigo una gran varietà di pesce.
Dappertutto c’era un
confuso vociare e sulle strade un traffico caotico sia nella zona del porto che
nel labirinto delle viuzze cittadine. La mattina dopo il gruppo partì alle
prime luci dell’alba con una buona guida per visitare le vicine rovine
dell’antica città di Efeso.
Fino a quel giorno di Efeso Luca conosceva, assieme
a pochissime notizie, quasi solo il nome, sovente ascoltato nelle messe
domenicali, nei brani tratti dalla lettera che san Paolo aveva scritto quasi
duemila anni prima a quella comunità cristiana. Partendo dall’albergo nessuno
del gruppo immaginava la straordinaria ricchezza e bellezza delle rovine e dei
reperti che avrebbero trovato, che sono, confermava la guida, meno di un terzo
dell’antico centro abitato, ancora in gran parte nascosto sotto uno strato di
terra.
Luca sapeva già che in quella città erano arrivati, oltre
a san Paolo, l’apostolo ed evangelista Giovanni con la Madre di Gesù. “Si racconta,
diceva la guida, che Maria e Giovanni siano vissuti serenamente, in una casetta sulla
sommità della Bülbül Dagi, la "Collina degli Usignoli", appena a sud
di Efeso, non lontano dal centro abitato, dove ogni tanto
scendevano per incontrare quell’antica comunità cristiana.”
Anche per questo
Luca desiderava da tempo visitare Efeso e la giornata trascorsa tra quelle
rovine era stata indimenticabile. Ciò che aveva visto lo aveva affascinato non
solo per la maestosità del sito e la magnificenza delle pietre che avevano
sfidato i secoli, ma anche per la suggestione tutta spirituale regalatagli dalla
Casa della Madonna, immersa nel silenzio dei boschi e visitata con
devozione da cristiani e musulmani.
Il gruppo di amici era tornato da Efeso molto tardi e le
ombre della sera stavano per calare sul porto e tutt’intorno continuava
l’indistinto vociare dei commercianti di tappeti, di tessuti coloratissimi, di
cuoi lavorati e di tant’altre merci offerte a torme di turisti curiosi, scesi
dalle navi crociera o arrivati in aereo e in pullman in quell’angolo
dell’Anatolia affacciato sull’Egeo, di fronte all’isola greca di Samo.
Degli
uomini vestiti da camerieri, fermi alla porta di ristoranti e trattorie,
invitavano con inchini e ampi gesti delle mani a entrare; a Luca e ai suoi
amici incuriosiva la cucina del posto, ricca di profumi e di spezie, un misto
di turco, di greco e di mediterraneo e così, dopo aver girato con curiosità
nella casba, sono entrati in un ristorante non lontano dal porto dove hanno
ordinato alcuni piatti locali: foglie di vite ripiene di riso, una zuppetta di
muscoli, delle triglie al finocchio, un trancio di dentice al cartoccio, e,
infine, un dolce di antichissima tradizione, la baklava, un triangolo
appiccicoso di sottilissime sfoglie ripiene di mandorle tostate, pistacchi,
noci tritate e zucchero, con la superficie riccamente cosparsa di miele. Un
dolce davvero molto dolce, anzi, dolcissimo, probabilmente un po’ diverso,
pensava Luca, da quello che avranno gustato mille anni prima gli abitanti di
Costantinopoli e dei territori dell’Impero Romano d’Oriente, ma la sfoglia, le
noci, le mandorle, i pistacchi e il miele c’erano sicuramente anche allora.
Dai
palazzi di Costantinopoli a quelli di Istanbul, dai gusti degli ultimi
imperatori romani d’oriente a quelli dei sultani che ne hanno preso il posto il
passo è stato breve. Il 1453 è stato, come ben si sa, lo spartiacque tra i due
imperi, ma molto meno fra le due cucine e la baklava ha infatti superato senza
danni anche il cambio di regime e di religione.
Mentre i commensali gustavano la baklava e la
confrontavano con altre trovate in Grecia, in Libano, nel cuore dei Balcani e
poi anche in Dalmazia e fino all’Istria, il pensiero del giovane professore di
lettere corse allo strudel e ne parlò con gli altri commensali. Il professore
era stato varie volte a Vienna e a Budapest e spesso in quelle città, come a
Bratislava, Praga, Graz, Klagenfurt aveva scelto proprio lo strudel come dolce
alla fine dei pasti.
“Ma che rapporto poteva esserci, chiese allora un
commensale, tra questi due dolci, uno nato in Medioriente e l’altro
caratteristico della Mitteleuropa e presente pure nel Triveneto e nelle regioni
vicine?”
Ne nacque una insolita ma piacevole discussione che tenne
il gruppo a tavola un po’ di tempo. Una signora triestina della compagnia,
raccontò che nella sua città lo strudel lo chiamano strucolo e nominò Katharina Prato e il suo Manuale di Cucina scritto nella seconda metà dell’800, che cita più
volte lo strudel e poi Mady Fast, una raffinata gastronoma del secolo scorso,
la quale affermava che la ricetta di questa preparazione è molto vecchia e viene
dalla Germania.
Giorni dopo, a casa, Luca andò a leggere quello che affermava la Fast e infatti scriveva che
la ricetta «è presente non solo nell’Artusi, ma già nel ricettario del
Messisbugo (XVI° sec.) che, sotto la dicitura torta alla tedesca, ci dà la descrizione molto dettagliata della
preparazione del ripieno dello strudel
con mele cotte e cannella come si trova oggi nei ricettari tedeschi.» La stessa
Fast scriveva ancora che la particolarità del dolce triestino «è costituita
dalla pasta sottilissima, povera, fatta con acqua, olio e farina, ma
resistente. Può essere farcita con mele - precisava – albicocche, ciliegie o
frutta diversa, da svariati ripieni come marmellate, noci, mandorle, miele, e
da quanto la fantasia può suggerire.»
“Nel nostro Carso, aggiunse la signora, mentre erano a
tavola a Kusadasi, le donne slovene fanno anche lo strucolo in straza”,
che è, come poi Luca lesse nei ricettari triestini, diverso dallo strudel
tradizionale. La pasta dolce è spesso lievitata, il ripieno è costituito da
noci, miele o ricotta e zibibbo e il dolce viene cotto a vapore o in acqua
bollente, avvolto in un tovagliolo, chiamato appunto straza, parola che, letteralmente, significa straccio.
Queste cose il professore le aveva sentite ancora quando
si fermava a Trieste e saliva a mangiare nelle trattorie o nelle osmize del
Carso e sapeva anche che la parola strudel
deriva dalla lingua tedesca e significa vortice,
gorgo, quindi dolce fatto a spirale, come la gubana delle Valli del Natisone, alle spalle di Cividale, e
dell’area goriziana; il presniz, che
Katharina Prato chiama strucolo alla
goriziana (e va infatti, essa scrive, «avvoltolato a guisa di chiocciola»)
e ancora la putiza, dolce pasquale
triestino, presente anche in Istria e Dalmazia. A proposito della Prato Luca
accertò che essa riporta nel suo volume ben venticinque ricette di strudel,
diverse delle quali prevedono che il dolce sia avvolto a spirale, «a guisa di
chiocciola», unendo quindi nello stesso nome sia il dolce alla tedesca,
tipicamente mitteleuropeo, che la baklava rivisitata dagli Ungheresi.
Tornato a casa, mentre controllava la veridicità delle
affermazioni di quella sera in faccia all’Egeo, il giovane professore
continuava a pensare alla baklava e a un possibile rapporto con lo strudel.
Come mai, si chiedeva, è stato dato un nome tedesco, cioè strudel, a un dolce che non ha assolutamente la forma a spirale? Ed
era proprio lo stesso dolce illustrato da Messisbugo nella prima metà del ‘500
nel suo celebre ricettario?
Allora pensò bene di riprendere in mano l’opera
gastronomica di Cristoforo da Messisbugo e ne lesse con attenzione la ricetta.
Non c’è dubbio, si disse Luca, si tratta di una normale torta di mele, fatta
come le altre torte tipiche dell’epoca tra Medioevo e Rinascimento, riportate da
tutti gli autori del tempo.
In questo caso è confezionata con strati di pasta e
di mele, insaporendo il tutto di zucchero e abbondantissima cannella e
ammorbidendo con parecchio burro. Questa è una torta dolce, ma c’erano
all’epoca anche tante torte salate, alternando strati di pasta con diversi
ingredienti, dalle erbe di campo o coltivate, al pesce d’acqua dolce, alla
carne di piccione, di castrato e di selvaggina specie di piuma, al formaggio
sia fresco che invecchiato, oppure foderando una teglia con una sfoglia di
pasta, riempiendola con la farcia prescelta e richiudendo il tutto con la
stessa sfoglia.
La torta di Cristoforo da Messisbugo, pubblicata la prima volta
nel 1549, è dunque una torta dolce come altre, pensava Luca, convinto che vi
fosse solo una lontana parentela con lo strudel,
anche perché quest’ultimo ha una sfoglia del tutto particolare e contiene degli
ingredienti che non sono presenti nella torta cinquecentesca e che ne rivelano
l’origine levantina.
Probabilmente la torta codificata dal Messisbugo, pensò il
professore, era di antica origine medioevale e una signora umbra, che era della
loro compagna a Kusadasi, aveva infatti affermato che anche nella sua regione
c’erano dolci che arrivavano dal medioevo che, nella forma, potevano in qualche
modo ricordare la baklava, come il serpentone delle monache cappuccine
di Perugia, le rocciate di Assisi e Foligno e l’attorta di
Campello sul Clitumno. Queste ultime due, poi, sono a forma di spirale e i
ripieni, arricchitesi nel corso del tempo addirittura con il cioccolato, sono
molto simili a quello del presniz triestino, per cui non è errato
pensare a una possibile origine medioevale, se non addirittura precedente, via
via perfezionatasi e poi diversificatasi nelle varie aree.
Luca volle rivedere con più attenzione anche quanto aveva
scritto Katharina Prato a proposito di questo dolce. Nel suo Manuale di Cucina, pubblicato la prima
volta a Graz nel 1880, presenta, come detto, ben 25 ricette di strudel, che la
sua non sempre precisa traduttrice triestina, Ottilia Visconti Aparnik, nella
prima edizione italiana del 1892, chiama col nome di strucoli. Quello
con le mele è così raccontato: «Si gocciola del burro sulla pasta spianata,
poi si cospargono al disopra delle mele affettate sottilmente o sminuzzate col
tagliamele, 1 manciata d’uva passa e zibibbo, 1 manciata di pignoli o mandorle
tagliate a filetti o briciole di panini, zucchero, bucce di limone e cannella,
ed arrotolato e ripiegato a chiocciola, lo si mette a cuocere al forno in una
casseruola ben burrata. Oppure si spalma con cura la pasta con burro freddo
fuso, spargendo fittamente il ripieno per lungo sopra la metà della sfoglia,
arrotolando poi la pasta burrata su quella ripiena, per cui cuocendo si
solleverà in falde come una sfoglia.»
Innanzi tutto, a differenza del dolce raccontato dal
Messisbugo, confezionato esclusivamente con pasta, mele, burro, zucchero e
cannella, qui si trova anche l’uva passa, lo zibibbo, i pinoli o le mandorle,
il pangrattato e il limone e Luca fu colpito poi da quel “ripiegato a
chiocciola”, mentre presentando la ricetta dello “strudel alla goriziana” che
definisce anche “presniz”, la
Prato dice che va confezionato «o in lungo o avvoltolato a
guisa di chiocciola».
La forma ufficiale, chiamiamola pure così, dei vari tipi
di strudel probabilmente nell’800 non era ancora definita e nelle diverse aree
della Mitteleuropa potevano allora coesistere sia quella lunga che quella a
spirale, assumendo forme definitive nel ‘900, con l’avvento di un maggior
numero di pasticcerie e con la codificazione delle ricette a cura delle varie
scuole.
Quando Luca assaggiò la baklava era in Anatolia e quella
sera, tutto preso dal piacere della vacanza non pensò minimamente alle vicende
belliche legate a Jànos Hunday che nel 1456 aveva respinto l’assalto di
Maometto II a Belgrado, anche se quell’episodio gli era perfettamente noto. I
Turchi erano già da un pezzo nei Balcani, dove avevano fatto conoscere anche
alle popolazioni sottomesse la loro baklava e, nonostante la sconfitta patita,
non erano arretrati, anzi, dopo una lunga pausa per riprendere le forze e
affinare le strategie, continuarono nella loro lenta avanzata verso Nord e
quasi un secolo dopo, nel 1547, conquistarono Budapest e si installarono in
gran parte dell’Ungheria fino al 12 settembre 1683 quando fallirono l’assalto a
Vienna. Ma quel che successe quel giorno è un’altra storia.
Luca sapeva pure che durante la lunga permanenza in
Ungheria, i Turchi diffusero, come già nei Balcani, le loro tradizioni, per cui
ancor oggi ci sono a Budapest le terme turche oltre a numerosi piatti
assimilati dagli abitanti, fra cui la baklava, diventata strudel.
Tornato a Budapest dopo il viaggio in Turchia, il
professore volle andare al Gundel, il più celebre ristorante della capitale,
per cercare di saperne un po’ di più su questo dolce. In compagnia di un famoso
albergatore di Udine incontrò il pasticciere del ristorante, József Juhos, che
ha confermato essere la pasta l’ingrediente principale e più delicato dello
strudel, proprio come in Turchia.
C’è nelle biblioteche ungheresi, gli disse
Juhos, un ricettario di fine Ottocento che, a proposito di questa pasta scrive:
«Saprai se la tua pasta per lo strudel è pronta quando prendendo un panino
d’impasto riuscirai ad avvolgere un ussaro assieme al suo cavallo». Doveva
dunque trattarsi di una sfoglia finissima, come è ancor oggi a Trieste, secondo
le corrette indicazioni di Mady Fast. Le attuali ricette dello strudel sono
assai simili a quella di Katharina Prato e, per quanto riguarda la pasta, si sa
che anche in Ungheria, come già in Turchia, assai prima che a Trieste, la pasta
deve risultare sottilissima.
“La tradizione ungherese, disse József Juhos al
suo ospite, suggerisce di impiegare della farina con un alto contenuto di amido
e di glutine, assolutamente asciutta, quindi strutto, uova, aceto, sale e burro
per pennellare. Per le farce al ristorante Gundel, aggiunse il pasticcere, ci
si limita in questo periodo alle mele e alle ciliegie con cannella e salsa
vaniglia. La tradizione ungherese è tuttavia molto più ricca, per cui si hanno,
oltre ai due citati, anche strudel ai semi di papavero, al quark, che è un
formaggio tipico mitteleuropeo, semolino e uvetta, alle pesche, alle visciole,
alle noci, alla ricotta e in altri modi ancora, come si trova anche a Trieste.”
Nella sua visita al Gundel, dove s’era fermato a cena con
un paio di amici, Luca chiese a un commensale, un ungherese di origine
balcanica, come mai c’era stato questo cambio di farcia nell’antico dolce e
perché le mele, altri frutti, i semi di papavero, il quark e la ricotta avevano
sostituito le mandorle tostate, i pistacchi, le noci tritate e il miele.
“L’Ungheria è la terra delle mele, gli aveva risposto, esse costituiscono
addirittura la metà della produzione annuale di tutta la frutta, è dunque
naturale che vengano impiegate per farcire lo strudel, anche se si aggiungono
ancora le noci tritate, l’uva passa e la cannella. Le altre farce, aveva
aggiunto, in particolare quella con i semi di papavero, il quark e la ricotta
nascono dall’utilizzo di prodotti assai comuni in tutta l’Ungheria.”
Resta comunque vero che la farcia principe dello strudel
anche ai nostri giorni, non solo nella Mitteleuropa e in Italia, è a base di
mele e lo è ovunque sono arrivati emigranti mitteleuropei, in particolare
ungheresi, austriaci, boemi, slovacchi e italiani del Triveneto, quindi in
tutto il mondo.
“Sai se non andavo a Kusadasi?” disse Luca una sera mentre
seduto al tavolo d’un ristorante padovano raccontava a degli amici questa sua
avventura gastronomica. “Ora so, concluse, che una fetta di strudel conserva in
sé millenni di storia e secoli di intensi anche se non sempre pacifici rapporti
fra Oriente ed Occidente.”
La ricetta originale ungherese dello strudel
La ricetta originale ungherese dello strudel di mele (“Almás rétes”) ha come ingredienti base
la pasta da strudel, quindi 1
kg di mele acidule, 150-200 g di zucchero, mezzo
cucchiaino di cannella, 100 g
di gherigli di noci tritati, pangrattato a piacere e zucchero a velo, sempre a
piacere.
Per prima cosa si prepara con grande cura la pasta per lo
strudel (“Rétestészta”) con 600 g di farina, 80 g di strutto, 1 uovo, 2
cucchiaini di aceto, mezzo cucchiaino di sale, 100 g di burro per
spennellare. Si impasta la farina con lo strutto fuso, portato a temperatura
ambiente, si aggiungono l’aceto, 2-3 decilitri di acqua tiepida leggermente
salata, quanto serve per ottenere un impasto abbastanza sodo. Si lavora a lungo
con le mani, sbattendo più volte la pasta sul piano di lavoro fino a quando in
superficie diventa lucida e compaiono delle bolle. L’impasto è pronto quando si
stacca dalle mani e dal piano di lavoro.
A questo punto si cosparge di farina
la spianatoia, si divide l’impasto in due parti e con ciascuna delle due si
forma un pane che non dovrà avere né spaccature né tagli. Si lasciano i pani
riposare ben ricoperti in luogo tiepido per una mezz’oretta e quando l’impasto
risulterà morbido e premendolo con un dito lascerà il segno si può cominciare a
lavorare. Si stende allora sul tavolo un telo di lino, che debordi dal tavolo,
lo si spolvera di farina e v sii appoggia sopra l’impasto di un pane (il
secondo verrà utilizzato in una preparazione successiva, seguendo un uguale
procedimento). Si cosparge l’impasto di burro sciolto e poi lo si tira verso il
bordo del tavolo, girando lentamente attorno al tavolo stesso. Si tagliano i
bordi più spessi della pasta, si impastano di nuovo e si lasciano riposare,
quindi si torna a tirare la pasta che, alla fine, deve risultare sottilissima
come la carta e la si spennella con lo strutto fuso.
Con l’aiuto del telo di
lino si piega l’impasto su se stesso e si ripete più volte tale operazione,
quindi, stesa nuovamente la pasta, quasi trasparente, si dispone sopra la
farcia, preparata nel modo seguente. Si elimina il torsolo delle mele, le si
sbuccia e taglia a rondelle sottili che vengono cospargono di zucchero. Le si
lascia riposare una ventina di minuti, quindi le si strizza.
Si distribuisce
allora una leggera striscia di pangrattato larga una spanna sulla pasta, sopra
vi si adagiano le mele e le noci tritate, cospargendo il tutto di cannella.
Sollevando dolcemente il telo di lino si arrotola lo strudel e lo so taglia in
pezzi a misura della lunghezza della teglia.
Ogni pezzo di strudel si appoggia
a tre dita di distanza dall’altro sulla teglia unta, lo si spennella con
abbondante strutto liquido e si mettono a cuocere in forno a 200°C per una ventina di
minuti, finché la pasta risulta dorata. Si lascia quindi raffreddare e si
taglia gli strudel in diagonale, ottenendo delle fette larghe sui 6 cm che possono essere
servite sia fredde che, piacendo, tiepide o calde, cosparse di zucchero a velo.