lunedì 28 aprile 2014

Noi, dell'Alto Adriatico

 Una riflessione di Giampiero Rorato

C’è un piccolo angolo della grande Europa, un minuscolo braccio di mare circondato da terre abitate da epoche immemorabili, verso il quale negli ultimi tempi l’attenzione degli osservatori, degli storici, dei politici e della stessa stampa internazionale s’è fatta scarsa o del tutto assente, come se questa parte d’Europa non abbia peso politico o culturale, oppure ne abbia pochissimo, per cui non conviene proprio perderci tempo. Ad occuparsene sono invece piccoli gruppi di abitanti del posto, più mossi da minuscole questioni interne e da meschine e incomprensibili rivendicazioni,  che da un serio e intelligente respiro europeo. 

Ma, se ancora succede che l’attenzione di qualche osservatore internazionale si volga da questa parte, capita pure che quasi sempre si fermi, a seconda delle circostanze, verso l’una o l’altra delle sue sponde, quasi fossero mondi separati, e sempre più raramente si preoccupi dell’insieme e delle vicende comuni e di quei sottili eppur tenaci legami che invece collegano da sempre le due coste. Per questi motivi sta entrando anche nella coscienza di chi vi abita la convinzione di vivere in mondi totalmente divisi e diversi, lontanissimi l’uno dall’altro per storia, cultura e civiltà.

Venezia, ponte Degli Scalzi


Quest’angolo attualmente quasi trascurato è l’alto Adriatico, uno spazio geograficamente proprio piccolo, ma parte integrante del grande Mediterraneo, che è il luogo nativo della civiltà occidentale e, crediamo, snodo obbligato dei futuri destini dell’Europa, oltreché del vicino Oriente e dell’Africa Settentrionale. È una ridotta porzione d’Europa, è vero, ma che condensa in sé millenni di storia e vi si trovano luoghi cui la civiltà occidentale deve molto. 

Il braccio di mare che collega quest’arco di terre ha avuto nel corso del tempo nomi diversi: Gaio Plinio Secondo lo chiama sinus adriaticus, golfo Adriatico e i Romani anche Mare Superum e Mare Nostrum e, mille anni dopo, si tornerà a chiamarlo golfo e più precisamente golfo di Venezia, quando la città che conserva le spoglie di san Marco si presenta come l’ideale capitale del mondo nell’età di mezzo. Proprio negli stessi anni, subito dopo il Mille, il re croato Krešimir lo chiama Mare nostrum Dalmaticum, impropriamente tradotto, in anni a noi vicinissimi, in Mare nostrum Croaticum. Questo golfo che arriva fino a Ragusa e alle bocche di Cattaro e ancora più in giù, fino a Otranto, al pari del Mediterraneo non è solo geografia. Attorno ad esso sono nati miti, storie e leggende, e ancora, come puntualmente ricorda Predrag Matvejević, il più acuto studioso del Mediterraneo e delle civiltà che l’attorniano, la diplomazia moderna e la civiltà europea della tavola (e non solo questa); si sono incontrati e fusi in un crogiolo promotore di nuova civiltà apporti provenienti dalla Grecia, da Bisanzio, dal Catai, dal mondo arabo, dall’Africa, dalle lontane Americhe e dal resto d’Europa, compresa la Russia, alimentando in modo del tutto nuovo e originale la vita non solo dell’Europa ma dell’intero Occidente. 

Non si può dimenticare che lungo le coste del Mediterraneo, di cui l’Adriatico è parte significativa, «passava - come puntualmente annota Matvejević - la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli oli e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della scienza. Gli empori greci erano a un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dall’Asia sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa». 

Molo Audace a Trieste


Nei tempi antichi, dunque anche i miti hanno trovato spazio in questo minuscolo angolo del pianeta, come quello che racconta l’origine delle isole Apsirtidi, nel golfo del Quarnaro e l’altro che ricorda la tragedia del bellissimo Fetonte, che aveva fatto innamorare di sé Afrodite, la dea dell’amore e questa è ricchezza che unisce, assieme ad altre eredità, l’alto Adriatico alla Grecia e all’Oriente, terre native dei miti, i quali sono storie tutt’altro che fantasiose, svelando spesso verità non altrimenti conoscibili o raccontabili. Nel nostro caso essi collocano biografie individuali e collettive in una cornice che racchiude in sé il volere degli dei, i desideri e le speranze degli uomini e l’esplodere di sentimenti che uniscono gli abitanti dell’Olimpo e della terra: l’amore e l’odio, l’ardire e la sfida, la passione e il tradimento, il dolore e la disperazione. 

Il mito ci assicura poi che nella lontana preistoria quest’angolo di mare è stato sorvolato da giovani coraggiosi, come Fetonte, e percorso da eroi che non hanno più fatto ritorno alla loro terra d’origine, come Diomede e Antenore, i quali hanno terminato i loro giorni lungo la frangia lagunare altoadriatica e precisamente nella Henetiké. Questa è la terra conquistata, oltre tre millenni or sono, dai Veneti giunti dalla Paflagonia e approdati alle coste settentrionali dell’Adrias, il mare che prende il nome dalla città di Adria che per lungo tempo è stato il polo terminale delle rotte marine e delle vie carovaniere che collegavano l’Europa settentrionale all’alto Adriatico. Strade spesso impervie, specie nei mesi invernali, percorse dagli antichi mercanti che passavano le Alpi per il Brennero o il Resia per seguire poi il percorso dell’Adige e giungere ad Adria e al delta del Po; oppure, provenienti dall’Europa centro-orientale, dalla Pannonia e dall’area danubiana, attraverso la valle della Drava, prendevano la valle del Gail, superavano le Alpi alla Sella di Camporosso e, seguendo la Valle del Ferro, scendevano alla pianura, per dirigersi ad Adria lungo le antichissime piste tracciate nel folto della Silva Magna; o ancora oltrepassavano le Alpi orientali lungo la valle dell’Isonzo per scendere verso il Timavo e giungere sempre ad Adria seguendo la gronda lagunare. Quest’ultimo percorso carovaniero è stato chiamato anche via argonautica, poiché, lungo l’asse della Drava e del Danubio, di recente nuovamente rivalutato e riproposto dagli esperti dei grandi traffici commerciali internazionali, si può giungere al Mar Nero e alle sponde caucasiche, da dove ebbe inizio il viaggio di ritorno di Giasone e dei suoi compagni.

Dubrovnik, città vecchia


È forse poco tutto questo per sentirci invitati ad iniziare una riflessione sulla storia passata, le vicende attuali e le prospettive di questi luoghi?

Gettando lo sguardo sulle isole dell’antico mito di Apsirti, poste sul braccio di mare racchiuso fra la costa settentrionale dalmata e la penisola istriana, viene intanto spontaneo definirle naturali, predominandovi tutt’oggi una natura incontaminata, dove i castellieri preistorici si guardano ancora l’un l’altro dalle morbide cime dei colli; dove le pecore vagano brucando tra le masiere, i muri a secco che delimitano le proprietà, racchiudendo particelle coltivate a olivo; dove regna la macchia mediterranea e cresce infestante il ginepro; dove a primavera le ginestre tappezzano di giallo le rive che degradano verso il mare; dove abbondano il fico e il ciliegio; dove chi passa sente forte, assieme al profumo salmastro del mare, quello resinoso dei pini e degli abeti e ancora quelli ovunque presenti dell’artemisia marittima, della mentuccia, del finocchio e dell’origano selvatici, del timo, della salvia e del rosmarino. 

Qui e altrove - nel cuore disabitato dell’Istria, lungo la frastagliata e brulla costa dalmata e poi su, fin sulle spoglie rughe del Carso, o, sull’altra costa, nelle silenti lagune di Grado e di Venezia, tra le basse barene regno d’uccelli acquatici, nel vasto delta del grande Po - sembra che i rari segni dell’uomo ricordino, quando esistono, solo le avventure tramandate dal mito o brevi passaggi sperduti nel tempo. 


Bari, basilica di San Nicola


In verità anche i luoghi più inaccessibili, anche lì dove regnano i grifoni o i cormorani, la storia dell’uomo s’è sedimentata in densi strati capaci di raccontare mille e mille storie di vita, assorbite, incorporate, fossilizzate nella roccia carsica, fattesi esse stesse natura, ma ancora capaci di gridare dalle viscere nascoste dei monti, dal fondo buio delle doline, dai recessi inaccessibili delle foibe e dalle umide grotte marine la lunga avventura degli uomini che qui hanno vissuto, sofferto e gioito. E anche se è difficile scindere, come ci ricorda ancora Matvejević, i binomi natura/civiltà e silenzio/storia, anche se lo spessore della civiltà e la complessità della storia sono immersi e quasi annegati nella natura incontaminata e nel silenzio più profondo, qui si legge senza fatica l’armoniosità del creato in cui ogni parte, anche l’opera dell’uomo, trova il proprio posto, in modo del tutto naturale, dando vita a quello sgargiante mosaico formato anche dalle vivaci e gloriose città che costellano la mezzaluna altoadriatica. In queste - Ravenna, Chioggia, Venezia, Caorle, Grado, Duino, Trieste, Muggia, Pirano, Parenzo, Rovigno, Pola, Abazia, Fiume, Veglia, Cherso, Lussinpiccolo, Zara, Sebenico,  Spalato, Ragusa e altre ancora - la storia emerge prepotente, la civiltà è ampiamente visibile, concorrendo a realizzare l’armonia d’un insieme che solo così, nella propria interezza, rivela appieno la sua splendida unicità e la sua bellezza, dono divino davvero incommensurabile.

Antiche strade sfioravano fin dai tempi sconosciuti il golfo altoadriatico, unendo la terra dei Liguri a quella degli Euganei, e poi ancora, passando tra il mare e il Carso, oltre l’Istria e verso il cuore dei Balcani. Quante torme d’animali, quanti gruppi umani l’hanno percorsa, lasciando segni che si sono sedimentati gli uni sugli altri alimentando i primi barlumi di civiltà che sono diventati luce e fuoco e storia di secoli e di millenni!


Pola dall'alto


Le strade hanno condotto gli uomini a conoscere il mondo al di là del villaggio, li hanno portati dalle capanne costruite in faccia al mare fin nelle vallate boscose dell’interno, oltre le creste innevate, e su quelle strade, raddrizzate e lastricate, sono passate, oltre due millenni or sono, le legioni di Roma, lasciando poi, specie sulla costa orientale, segni di grandezza imperitura, come la maestosa arena di Pola e le imperiali vestigia di Spalato. In questo minuscolo spazio di terra e di mare, una mezzaluna appoggiata sul golfo pescoso, si sono condensati, sovrapposti, incrociati e confusi numerosi popoli e civiltà: Euganei, Istri, Illiri, Veneti, Celti, Romani, Dalmati, Eruli, Alemanni, Goti di varia provenienza, Unni, Avari, gruppi di Slavi, Longobardi, Franchi, Ungheri, Uscocchi, Greci, Turchi, Germani, Austriaci, Ungheresi e poi Morlacchi, Valacchi, Montenegrini e altri ancora, ciascuno dei quali diverso per origine, storia, cultura, tradizioni, esperienze, cucina e anche religione. E ognuno ha lasciato qualcosa di sé, fatto proprio e assorbito da chi è rimasto: virtù e vizi, usi e abitudini, parole e gesti, canti e riti. Anche questo s’è accumulato, dando forma, colore, luce, consistenza, compattezza, valore, suoni, speranze e attese alla mezzaluna altoadriatica, spaccato prezioso per chi ama oggi sapere la storia della civiltà mediterranea e mitteleuropea assieme, specchio sincero per chi, figlio o nipote di questa terra, vuole conoscere se stesso e il proprio destino.

Chi però guarda frettoloso questo lembo d’Europa, specie quello bagnato dalla sponda orientale dell’Adriatico, ha oggi difficoltà, come ha osservato Gabriele De Rosa, «a capire e comprendere il mosaico delle tante culture e tradizioni che si sono formate in quelle aree della balcania che si affacciano o tendono ad affacciarsi sull’Adriatico, un mare che non è chiuso, essendo tutt’uno con il Mediterraneo, il quale non è un mare nostro, non è creazione di una sola lingua o di una sola tradizione, non si specifica con una determinata appartenenza. Nel passato i confini etnici non esistevano, esistevano quelli degli Stati che mutarono nel corso dei secoli. C’è di tutto in queste terre antiche, ma sempre in movimento: dal giudaismo al cristianesimo ortodosso e cattolico all’islam, alle tante guerre, balcaniche e mondiali, ai regimi nazionalistici e comunisti. L’Adriatico era per eccellenza il mare di Venezia, oggi dovrebbe essere, per dirlo con le parole di Predrag Matvejević, il “mare dell’intimità” dei popoli che si riconoscono in esso, che sono obbligati a riconoscersi, quindi a esplorare con pazienza le vie e i sentieri di una continua collaborazione, per raggiungere e conquistare il traguardo della convivenza».

Trieste, piazza Unità d'Italia


E che la convivenza non sia ancora che un sogno o comunque una meta lontana è sotto gli occhi di tutti, perché questo è crogiolo ove si mescolano e bruciano aspirazioni, debolezze, mire espansionistiche, sopraffazioni, vendette, desideri, vizi e virtù, come pure, purtroppo, le speranze di un vivere assieme, arricchendosi ciascuno delle ricchezze degli altri e quindi collaborando in modo pacifico per costruire un futuro migliore per tutti; e questa incomprensibile e ingiustificabile insania sembra quasi una scelta pervicacemente voluta da molti fra coloro che qui abitano ma soprattutto da chi ha governato e governa alcuni di questi luoghi, per i quali comunque, in questo inizio del nuovo millennio, sembrano intravedersi speranze pur labili ma finalmente positive.

Eppure questa è una terra incantevole e peregrinando sulle strade spesso impervie che rasentano il mare il viaggiatore attento scopre molte più cose di quante sperasse. E ce lo conferma Ulderico Bernardi, che s’è fermato più volte tra la gente che abita quest’arco di terra. «C’è più da imparare - ha scritto - in un bicchiere di Malvasia bevuto al banco di un’osteria istriana immersi in una girandola di voci venete, croate, slovene, o chissà quali, che in un intero trattato del multiculturalismo. “Havvi de’ popoli o de’ frammenti di popoli, posti dalla Provvidenza siccome ponti dall’una all’altra nazione e civiltà: e tale è l’Istria tra Italia e Slavia: e tale è tutta quella costa del mare Adriatico, che con men di mezzo milione di abitanti è destinata a operare grandi cose, se la paurosa tracotanza di que’ che governano non glielo proibisce” (Nicolò Tommaseo, Del Presente e dell’Avvenire, 1840). 

Non fosse quindi per le antiche ferite della storia, sulle quali nuovi nazionalismi vengono talvolta spargendo il sangue avvelenato dell’intolleranza, l’Istria sarebbe nelle migliori condizioni per fornire al mondo l’immagine esemplare di quanto possa essere fecondo l’incontro fra culture».
E non solo l’Istria, ma in tutta quell’ampia striscia di terra che incastona nelle sue più antiche case il leone alato di san Marco scolpito nella candida pietra d’Istria, da Ragusa alle foci del Po - l’intera Dalmazia, il Quarnaro, l’Istria, la Venezia Giulia, il Friuli e il Veneto - ovunque si respira un’aria capace di unire, perché essa penetra fin nell’intimo e parla al cuore. «La costa profuma di erbe, - ha scritto Matvejević in Mediterraneo - di vegetazione, di pini. In certi punti mantiene questi odori più di quello del mare stesso. La commistione che ne nasce è diversa da costa a costa. Ci sono alberi, piante o frutti che coinvolgono lo spirito, altri che lo lasciano indifferente. La vigna si trova sia nelle Sacre Scritture (Gen. IX, 20) sia nel Corano (XVI, 273). 

E così è per il fico. “Non si colgono i fichi dai rovi né l’uva dalle spine” (Luca, VI, 43). Sui sarcofagi e su altri monumenti di vario genere, come gli stecci, gli affreschi, le icone, le pagine dei messali, si trovano molte foglie di vite e grappoli d’uva. Le colonne del tempio di Salomone erano ornate da melograni (Re, I,7). Gesù venne ricevuto dagli abitanti di Gerusalemme che stendevano sul suo cammino foglie di palma. Tra l’altro la palma, assieme all’ulivo, è una delle immagini che ricorrevano con maggior frequenza. La sua presenza del resto contribuisce a determinare i confini del Mediterraneo».

La mezzaluna altoadriatica, piccolo lembo di terra bagnata dal golfo più settentrionale del Mediterraneo, è davvero profumata d’erbe e i pini marittimi ne inghirlandano spesso le rive, a volte solitari, alti sulla roccia carsica, a volte riuniti in boschi silenti e in alcuni scorci incantevoli dell’isola di Veglia o nel cuore dell’isola di Cherso e a Lussino, oppure a vegliare in gruppo il sonno dei defunti, come nel piccolo cimitero di San Marco al Belvedere di Aquileia, in faccia alla laguna di Grado, o ancora ammassati in lunghe selve, come quella che da Mesola scende verso il mare di Ravenna.

E ovunque in queste terre si coltiva la vite. Nell’isola di Sansego, oggi modernissimo vigneto, prezioso soprattutto di varietà preistoriche, fra cui l’uva di Troia (trojšcina), si trovano anche i vitigni più attuali e poi in Dalmazia il nobile Babić, il Grk a Curzola, il Bogdanuša a Hvar, il Vugava a Vis, il Prošek diffuso dalla Dalmazia all’Istria, lo Slahtina nella piana attorno a Verbenico nell’isola di Veglia, la Malvasia nell’Istria ma anche in Italia, il Terrano nel Carso sia sloveno che italiano, la Ribolla, lo Schiopettino, il Tazzelenghe, il Pignolo sui colli che da Gorizia e Cividale degradano verso il mare, il Picolit nel Collio e nei Colli Orientali del Friuli, il Refosco in Friuli ma anche in Istria, il Raboso, il Verduzzo, il Prosecco, il Marzemino, la Boschera, il Serprino e il Friularo nel Veneto orientale: vitigni antichi, autoctoni, cui se ne sono aggiunti così tanti e di così validi che il Friuli primeggia nel mondo per i suoi vini bianchi e il Veneto è diventata la prima regione d’Italia per produzione di vino. 

E c’è l’ulivo, tornato a donare i suoi frutti preziosi come all’epoca di Cassiodoro e ancora di più, anche nella pedemontana friulana e veneta, con esiti fino a ieri impensati.

Forse, nell’epoca dell’imperante globalizzazione, purtroppo non temperata per la mancata nascita di autorevoli e diversificati centri di potere sparsi sul pianeta, fissare l’attenzione su uno spazio di terra e di vita così limitato potrebbe apparire riduttivo, come se fosse espressione di quel pensiero debole che non ama impegnarsi su grandi temi, preferendo indugiare su argomenti leggeri, lontani dalle problematiche più vere che interessano gli uomini d’oggi. E questa sensazione potrebbe essere giustificata dal fatto che lo scenario entro il quale si dipana la storia umana è infinitamente più vasto, più ricco e complesso del piccolo spazio che qui ci interessa, anche se i canovacci delle scene di vita che si svolgono nei tanti palcoscenici del mondo sono piuttosto simili fra loro. Un pensiero forte potrebbe al contrario ignorare l’assordante cicaleccio di quanti, anche nelle più stimate sedi internazionali, tentano di mascherare il proprio egoismo o smaccati interessi di parte e invece contribuire, solo per fare un esempio, a individuare le cause vere dei tanti focolai di guerra che anche in questi anni iniziali del terzo millennio continuano a mietere vittime in troppe parti del mondo e indicare poi soluzioni possibili ed efficaci, in grado di fermare gli odi e trasformare, come avveniva nell’antica età dell’oro, le spade che uccidono in vomeri che sfamano.

Maschere a Venezia


E si scoprirebbe, magari, che molti degli scontri intestini, apparentemente causati da diversità religiose, che ancora a cavallo tra il ventesimo e il ventunesimo secolo continuano a incendiare, in mezzo a tanti altri luoghi, anche vaste aree dell’Asia meridionale, sono in verità motivati, come già nei Balcani o nella Russia caucasica, da rivendicazioni indipendentistiche o espansionistiche o da inconfessati disegni politici di qualche signore della guerra. 

Oppure, come continua a succedere in tante parti del globo, da quell’insopprimibile bisogno di respirare libertà e indipendenza, per conquistare la quale da sempre gli uomini lottano fino al sacrificio della propria vita. Non c’è dubbio che lo scenario entro il quale si sviluppano le tante vicende umane è assai più vasto e complesso e, a volte, addirittura indecifrabile, rispetto a quello che attira la nostra attenzione in queste righe e non lo ignoriamo affatto, ma crediamo che questo piccolo spazio possa essere considerato paradigma veritiero del mondo d’oggi e che su esso gravino le stesse nubi grigie che oscurano altrove i raggi del sole e che nel cuore di quanti vivono in questa terra alberghino gli stessi sentimenti che si ritrovano in tutti gli esseri umani: l’amore e l’odio, la comprensione e la solidarietà, l’egoismo e l’invidia e altri ancora, come da sempre avviene, per la presenza in ciascuno d’un alito divino, troppo spesso soffocato dalla debolezza della carne.


E c’è qualcosa in più. In questa mezzaluna altoadriatica, archetipo d’ogni altra terra, dove crescono la vite e l’ulivo, piante-simbolo della prima civiltà umana, vivono oggi degli uomini e delle donne che hanno nel sangue, come s’è visto, storie e cromosomi provenienti da razze e culture diverse, ma qui, proprio qui, per la forza d’una civiltà fra le più dense di valori, che resta, nonostante tutto, radice viva di queste comunità, dovrebbe nascere - deve nascere - se la volontà sa rispondere alle comuni speranze, la futura civiltà dell’uomo, una e multietnica assieme: una, per la comune conquista dei valori sommi del rispetto, dell’accettazione, della solidarietà, della pacifica convivenza, dell’amore fraterno che discende dalla fede in un Dio creatore dell’universo, giudice ultimo, ma soprattutto padre buono e misericordioso di ogni essere umano. 

Multietnica: nell’arricchente rispetto delle diverse storie e delle diverse culture, del diverso modo di organizzare la vita delle comunità, della diverse strade percorse per arrivare a Dio, della diversità anche dei gusti e delle scelte di vita. Per questo le terre bagnate dall’alto Adriatico sono, più di ogni altra, una speranza e una scommessa. 

Da qui può riversarsi sull’Europa la vera cultura mediterranea, la più ricca, la più completa, la più umana e lo potrà se coloro che vi abitano, facendo tesoro delle molte esperienze maturate nel corso dei millenni, decidono di ricollegarsi convintamente alle proprie radici più antiche per diventare in Europa protagonisti d’un futuro di civile convivenza, di seria collaborazione, di fruttuose intese culturali e umane, senza le quali i fuochi che hanno bruciato l’Europa, ma soprattutto e più volte gran parte dei Balcani pure nel tragico ventesimo secolo, e, all’inizio del ventunesimo, nel troppo vicino Medioriente, possono estendersi di nuovo anche a questo piccolo lembo di mondo, cartina di tornasole della storia prossima futura del Vecchio Continente.