Storia e cultura di una tecnica di cottura antichissima, ancora presente e molto apprezzata nella fascia prealpina dalla Venezia Giulia alla Lombardia e in altre regioni d’Italia
Intervento
di Giampiero Rorato in occasione del 6° Corso per Menarosti
Pieve
di Soligo (Treviso), 10 novembre 2014
Tema affascinante, quello dello spiedo, strumento antico e
mai superato, quindi moderno, strettamente legato alla storia
dell’alimentazione umana, ma non solo – poiché usato in passato anche come arma
bellica - e legato soprattutto a una tipologia di cottura che ha riguardato e
continua a riguardare principalmente la carne.
I primi documenti conosciuti che ci confermano l’esistenza e
l’uso dello spiedo per cuocere le carni sono i poemi omerici, composti in
Grecia tra il IX e il VII secolo a. C. da un qualche geniale poeta, conosciuto
fin dall’antichità col nome di Omero, il quale ha raccolto le storie e le
leggende tramandate da generazioni e raccontate per le strade della Grecia da
cantastorie girovaghi e ha composto due poemi – il secondo forse da attribuirsi
a un altro aedo – e sono poemi che hanno attraversato i millenni.
Ad Omero sono dunque attribuite due opere poetiche, dei veri
e propri romanzi in versi, che restano dei punti fondamentali nella storia
della cultura umana: l’Iliade, da Ilio, antico nome della città di Troia, sorta
all’imbocco dei Dardanelli verso l’antica Bisanzio, poi Costantinopoli e ora Istambul,
di cui racconta le ultime vicende e la sua distruzione nella guerra combattuta
contro la città dai Greci; l’altro poema è l’Odissea, da Ulisse, il re di
Itaca, di cui racconta le tante peripezie nel suo lungo viaggio per mare nel ritorno a casa dopo la vittoria greca
nella guerra contro la città di Troia.
Già nel primo libro dell’Iliade, Omero descrive la
preparazione d’un banchetto, con la cottura delle carni allo spiedo,
soffermandosi pure sull’aspetto religioso precedente il sacrificio dell’animale
e ricordando che l’esame delle sue viscere consentiva di predire il futuro.
Scrive dunque Omero, che qui presento nella traduzione di Vincenzo Monti, in
uso nelle scuole fino a qualche decennio fa.
Quindi
fin posto alle preghiere, e sparso
il salso farro, alzar fêr suso in prima
alle vittime il collo, e le sgozzaro.
il salso farro, alzar fêr suso in prima
alle vittime il collo, e le sgozzaro.
Tratto
il cuoio, fasciâr le incise cosce
di doppio omento, e le coprîr di crudi
brani. Il buon vecchio su l’accese schegge
le abbrustolava, e di purpureo vino
spruzzando le venìa. Scelti garzoni
al suo fianco tenean gli spiedi in pugno
di cinque punte armati: e come fûro
rosolate le coste, e fatto il saggio
delle viscere sacre, il resto in pezzi
negli schidoni infissero, con molto
avvedimento l’arrostiro, e poscia
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell’opra,
poste le mense, a banchettar si diero,
e del cibo egualmente ripartito
sbramârsi tutti.
di doppio omento, e le coprîr di crudi
brani. Il buon vecchio su l’accese schegge
le abbrustolava, e di purpureo vino
spruzzando le venìa. Scelti garzoni
al suo fianco tenean gli spiedi in pugno
di cinque punte armati: e come fûro
rosolate le coste, e fatto il saggio
delle viscere sacre, il resto in pezzi
negli schidoni infissero, con molto
avvedimento l’arrostiro, e poscia
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell’opra,
poste le mense, a banchettar si diero,
e del cibo egualmente ripartito
sbramârsi tutti.
Sempre Omero ci ricorda che il pasto ordinario degli eroi –
così l’antico poeta denominava i combattenti troiani e quelli greci che
combatterono sotto le mura di Troia – si componeva di pane, vino e carne
arrostita, e le carni preferite erano quelle di bue e di maiale.
A quei tempi lo spiedo, che ritroviamo anche in altri
banchetti raccontati nell’Iliade (per esempio nel IX libro) e nell’Odissea, non
era certo tecnologicamente raffinato come quello attuale, comunque risulta in
uso anche prima alla guerra di Troia, che fu combattuta attorno al XII° sec.
a.C.
La metodica descritta da Omero nei passi citati e altrove –
vale a dire: lo spiedo va posto sopra o accanto alle braci dopo che le fiamme
si sono completamente estinte - rimarrà sostanzialmente invariata fino ai
nostri giorni, ammettendosi tutt’al più di procedere anche col fuoco di fiamme,
sempre però per irradiazione e mai per contatto.
Nei tempi preistorici, quando gli uomini erano nomadi e
vivevano di caccia e di pesca, la carne e anche il pesce erano cotti su pietre
arroventate o in fosse sul cui fondo erano poste delle braci ardenti, poiché
allora non esistevano ancora recipienti adatti alla cottura, che sarebbero
arrivati più tardi, in uno stadio molto più evoluto di civiltà, quindi in
epoche abbastanza recenti, né si conosceva lo spiedo.
Ma ecco che un bel giorno – nessun documento ci attesta
quando e dove ciò sia avvenuto - arriva il tocco di genio di qualcuno, il quale
infila la carne in un bastone appuntito e la fa cuocere gradualmente,
rigirandola sopra delle braci, senza che le tocchi.
La tecnica di cottura per mezzo dello spiedo, inventata in
qualche sperduta pianura del vasto oriente o su qualcuna delle tante colline
sub caucasiche - in quei lontani millenni una delle zone più evolute della
“mezzaluna fertile” - s’era poi gradatamente diffusa, almeno dall’ottavo
millennio a.C, nell’area allora
più civilizzata, quindi in Egitto, Grecia, Anatolia, Siria, Armenia, Georgia e fino
nell’intera Mesopotamia, l’attuale Iraq, tutti luoghi nei quali le popolazioni
cominciano a fermarsi e a coltivare la terra.
Poi, dalla Grecia a Roma il passaggio è stato veloce,
soprattutto dopo che i Greci, attorno al 750 a .C., costituirono nell’Italia meridionale
- conosciuta poi come “Magna Grecia” - numerose colonie dove importarono, oltre
alla loro cultura, anche i loro usi e costumi alimentari e le testimonianze
dell’impiego dello spiedo nella cultura romana fin dal periodo dei sette re e
della repubblica sono numerose.
Già Virgilio, nel IV° libro dell’Eneide, raccontando una
battuta di caccia, ci dice che un gruppo di scelti giovani uscirono dalla città
alle prime luci dell’alba impugnando “ferrei spiedi”, chiamati venabula e questo termine ha un duplice
significato: spiedo e lancia,
come se lo stesso strumento avesse un doppio uso.
It
portis iubare exorto delecta iuventus :
Retia
rara, plagae, lato venabula ferro,
Massilique ruun equites et odora canum
vis.
E se la cosa non fosse del tutto chiara, ci sono Cicerone e,
ancor meglio Plinio il Giovane a spiegarci che il venabulum, usato per cuocere la
carne delle prede di caccia, era la lancia: “Erat in proximo non venabulum,
non lancea, sed stylus et pugillares”.
La letteratura romana è ricca di riferimenti allo spiedo, che
non era ancora come l’intendiamo oggi, trattandosi in quel tempo di lunghi
ferri appuntiti, praticamente dei giavellotti, sulle cui punte veniva infilzato
un pezzo di carne, posta sopra le braci per una cottura più o meno sommaria.
Prima ancora che la cultura e le tradizioni della Grecia
giungessero nell’Italia centro-meridionale con la nascita di numerose colonie
greche, la cultura mediorientale era arrivata già prima del 1000 a .C. alle sponde del
Lazio con Enea e in Veneto con Antenore, entrambi fuggiti dalla loro città,
Troia, conquistata dai Greci. Ed è quindi possibile pensare che lo spiedo
omerico sia arrivato nel Lazio e nel Veneto direttamente dall’Anatolia
occidentale oltre tremila anni fa.
Negli stessi anni in cui veniva combattuta la guerra di Troia
ci furono nel Vicino Oriente grandi migrazioni di popoli; gli stessi Ebrei in
quegli anni uscirono dalla schiavitù dei faraoni mettendosi in viaggio verso la Terra Promessa.
Durante quel viaggio Mosè, ricevute sul Sinai le Tavole della Legge, trasmise
al suo popolo numerose regole alimentari, dettategli da Dio, fra cui, come si
legge nel Deuteronomio, quella di preparare gli spiedi solo con legno di
melograno, confermando quindi che l’uso dello spiedo era allora molto diffuso
nel Vicino Oriente.
La grande evoluzione di questo strumento di cottura, che
diventa di uso comune, lo si ha tuttavia con le popolazioni che vivevano a nord
dei confini dell’impero romano.
Caduta Roma, si scopre che i grandi gruppi di stranieri –
conosciuti nei libri di scuola come “orde barbariche” - avevano l’abitudine di
cuocere le carni come gli antichi Greci accampati alle porte della città di
Troia e che a diffondere l’arte dello spiedo in Italia, privilegiandolo su ogni
altra tipologia di cottura, sono stati principalmente i Longobardi.
L’antico termine per designare lo spiedo, il venabulum dei romani, viene sostituito nel
Medioevo dal termine spetus, parola originariamente franca – speot - ulteriormente modificato dai Longobardi (in
tedesco Spiess, in longobardo spiede) e tale termine entra
nel linguaggio medioevale un po’ in tutta la Penisola , dove comunque
s’erano insediati i Longobardi.
Questo popolo era sceso in Italia forte di circa
centocinquantamila persone, trentamila delle quali erano guerrieri, mentre le
altre persone erano i loro familiari e non ovunque dimorarono a lungo. Ma nella
pedemontana veneto-friulana-lombarda, da Cividale a Ceneda a Soligo, a
Breganze, alla Lessinia e fino a Brescia e poi a Pavia essi s’insediarono
dall’anno del loro ingresso in Italia, avvenuto attraverso le Alpi Giulie nel
568, guidati da Alboino e vi rimasero da padroni fino al 774, anno in cui il
loro ultimo re, Desiderio, fu sconfitto dai Franchi di Carlo Magno.
Oltre 200 anni, quanto basta perché la tecnica quotidiana di
cottura delle carni, caratteristica dei Longobardi, diventasse anche la tecnica
di cottura dei residenti, che, soprattutto nella Pedemontana trevigiana in
Sinistra Piave, nell’alto vicentino e nel bresciano l’hanno trasmessa da una
generazione all’altra fino ai nostri giorni. Quel che avvenne dopo, soprattutto
nel Basso Medioevo e nel primo Rinascimento, interessò principalmente i
costruttori di spiedi, producendone diverse tipologie, mossi sia a mano – dal
menarosto – o da animali o, come nello “spiedo di Leonardo da Vinci”, azionati
dal calore e dal fumo, o, infine, da meccanismi mossi dall’acqua corrente, come
avveniva nei mulini.
Lo spiede longobardo
era una verga di ferro o di legno forte, appuntita ad una estremità, in modo da
poter trafiggere i pezzi che veniva infilati ed era appoggiata da una parte a
una forcella, mentre dall’altra parte era sostenuta e nel contempo fatta
ruotare da una persona addetta a questo compito.
Col passare del tempo, il sostegno a forcella si duplica,
fissandosi al fusto verticale degli alari del camino e dispensando così il
rosticciere dalla fatica di reggere l’asta, che, oltretutto, diventa più
agevole da girare quando l’estremità non appuntita comincia ad essere modellata
a collo d’oca.
L’iconografia medioevale mostra spesso i servitori che
manovrano gli spiedi nell’atto di sollevare la mano libera per proteggersi
dalla vampa del fuoco, e li raffigura talvolta al riparo di schermi simili a
paraventi.
Sull’uso dello spiedo nel Medioevo è doveroso un’ulteriore
riflessione poiché una vasta letteratura italiana ce ne conferma non solo
l’esistenza, ma si sofferma molto sulle caratteristiche delle carni cotte allo
spiedo.
Scrive in suo trattato il senese Ugi Benzi, vissuto tra la
fine del ‘300 e l’inizio del ‘400: “le carni rustite sono de megliore e magiore
nutrimento e più conveniente a li corpi robusti” e aggiunge: “Et imperò el è più de nutrimento
in le carni rustite che in le allixate”, ripetendo quanto si legge in un
trattato toscano della fine del ‘300. “Carne arostita è più savorita che la lessa, perché è cotta
nel suo humido, e quella nell’altro”, poiché le carni lesse sono cotte
nell’acqua.
Ha scritto recentemente lo storico dell’alimentazione Massimo
Montanari: “La maggior sapidità dell’arrosto,
la sua maggiore robustezza di gusto, non poteva non essere più confacente a una
società come quella altomedioevale – cioè prima dell’anno 1000 – che anche sul piano dei comportamenti
alimentari si caratterizzava – almeno ai suoi livelli superiori – come
fortemente impulsiva e violenta”.
L’arrosto apparteneva anche culturalmente alla nobiltà
guerriera, poi c’era un legame strettissimo, almeno nella convinzione del
tempo, tra consumo di carne e forza fisica.
Nei castelli dell’alto Medioevo, come ci ricorda il biografo
di Carlo Magno, Eginardo (770-840), il cronista franco più accreditato del suo
tempo, lo spiedo era, infatti, sempre in movimento vicino al fuoco perché
grandi pezzi di carne dovevano ogni giorno essere portati in tavola per soddisfare
la fame dei guerrieri e soprattutto di Carlo Magno e dei suoi comites
(compagni, poi “conti”).
La carne allo spiedo, lombi e cosciotti di grandi animali,
aveva anche un valore simbolico, poiché solo chi comandava, solo i potenti,
potevano nutrirsi ogni giorno di carne.
Si deve dunque riconoscere l’indiscussa rilevanza dello
spiedo e, quindi, della carne arrostita, nella regìa del banchetto medioevale.
Se poi dall’alto Medioevo arriviamo al tardo Medioevo, quindi
dopo il Mille, vediamo che nei castelli continuano ad esserci spiedi sempre in
attività, ma, come notano alcuni storici, ciò potrebbe avere un carattere
“tralatizio” cioè di continuità inconsapevole con le abitudini della precedente
nobiltà feudale, abitudini di cui i nuovi signori hanno conservato solo il
risultato finale, vale a dire l’imbandigione volutamente spettacolare del pezzo
arrostito allo spiedo, portato in tavola nel momento centrale del banchetto, e
ciò è il ricordo degli antichi trionfi di caccia e dell’allestimento di
estemporanei spuntini sul luogo stesso della cattura, con un cerimoniale che
imponeva la scelta di procedure essenziali anche nei preparativi di cucina e
non c’è dubbio che la cottura allo spiedo presentasse tutti i requisiti di semplicità
richiesti in simili circostanze. È in virtù di un rapporto in un certo senso
culturale e mai interrotto tra nobiltà feudale altomedioevale e nuova nobiltà
che prende forma lo stretto rapporto tra i nobili e lo spiedo e, quindi, con la
carne arrosta.
I nobili praticavano la caccia – allora e fin quasi ai tempi
moderni - anzitutto per dovere sociale, come dimostrazione di coraggio e
insieme di dispotismo. Divorare la preda appena uccisa aveva per loro il
significato di antidoto contro la viltà e la maniera più spedita di cucinare la
cacciagione sul posto di cattura era quella di arrostirla: i soli utensili
indispensabili erano un acciarino per accendere il fuoco e un coltello per
tagliare la carne. Tutto il resto lo forniva la foresta, compreso lo spiedo
facilmente adattabile da un giovane arbusto scortecciato.
Quando nei tempi antichi, nel medioevo e anche dopo si parla
di carne arrosto si intende sempre la carne cotta allo spiedo mediante
irradiazione cioè in assenza totale di mediazione tra la carne e la fonte di
calore.
Ma vediamo quello che scrivono importanti autori tra Medioevo
e Rinascimento.
Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, autore del “De honesta
voluptate et valetudine” (Del piacere
onesto e della buona salute) redatto
nel 1475, sulla base del trattato di cucina composto in precedenza da Maestro
Martino da Como, scrive che l’arrosto è la cottura che meglio si addice alle
carni grasse (“Pinguis caro melior assa
quam elixa est”) e precisa: “le carne
grase è meglio de rustirle che alexarle”
La tecnica di
cottura allo spiedo l’aveva indicata il medico bizantino Anthimo, vissuto nel
VI secolo, nel suo trattato “De natura ciborum” raccomandando di tenere le
carni da arrostire ad una certa distanza dal fuoco e girarle lentamente (delonge a foco et diutius) perché se la
fonte di calore è troppo vicina e perciò più volenta,”ardet caro deforis et deintus devenit cruda, et potius nocet quam
iuvat” (troppo vicina al fuoco) la
carne si cuoce all’esterno e all’interno rimane cruda e fa più male che bene.
Il ben noto
fenomeno di una crosta esterna abbrustolita, che, già nel terzo secolo prima di
Cristo aveva attirato l’attenzione del grande filosofo greco Aristotile (384-322 a .C.), rappresenta una
sorta di incubo per i cuochi medioevali: le carni da arrostire – e per
arrostirle la tecnica è sempre quella dello spiedo – non si devono incontinente aproximar a le braxe e gran
focho, perché fano la crosta intempestiva, e sì è impedita la penetrazione del
calore a le parte intrinsece e la decoctione de le parte centrale” affermava
all’inizio del ‘400 il Benzi.
Il celebre
medico catalano Arnaldo da Villanova, uomo di straordinaria cultura, vissuto
nel corso del ‘200, raccomanda che nel preparare qualsiasi arrosto occorre fare
attenzione che non si rinsecchi eccessivamente e, in ogni caso, la crosta secca
che può formarsi in superficie va scrupolosamente eliminata, e lo stesso dicasi
della cotenna del maiale.
Il padovano
Michele Savonarola (1384-1468), professore a Padova e poi medico dei duchi di
Ferrara, autore di importanti opere di medicina, si dice convinto che l’elevato
consumo di salsa di senape a Ferrara, è una conseguenza dell’incapacità dei rosticcieri
locali che propinano arrosti magri e rinsecchiti. L’abilità di un cuoco veniva
allora giudicata – ci conferma il Savonarola – dalle sue doti di rosticciere,
perché l’arrostire allo spiedo richiede un’abilità indiscussa, “imperò disse Aristotile che era più
artificiosa cosa lo rostire che lo alixare”, come ricorda il senese Benzi.
In conclusione le ripetute raccomandazioni degli esperti dei secoli
passati concordano con la collaudata esperienza dei maestri rosticcieri d’oggi:
le carni da arrostire si mettono al fuoco quando le fiamme si sono placate e si
sia steso un buon letto di braci. Come si legge in un trattato manoscritto
redatto in Italia all’inizio del ‘500 occorre fare grande attenzione quando si
arrostiscono i volatili che devono essere avvicinati al fuoco soltanto
gradualmente. Riferendosi, com’era allora costume cacciare, alla gru, si legge:
“quando la poni al fuocho, ponlavi di
lungie, sì ch’ella si schaldi bene dentro chon pocho fuocho, acciò ch’ella non
si abbronzi di fuori e dentro sia rossa e cruda.”
Sotto gli spiedi, insegnavano gli esperti fin dai tempi
antichi, si pongano dei recipienti destinati a raccogliere i succhi che
stillano durante la cottura, che servono sia per tenere umide le carni, che per
essere utilizzati come fondi per le salse di accompagnamento o, come avveniva
nel Medioevo, come basi per le zuppe. Nelle fasi finali della cottura si usava
spesso ricoprire le carni con una specie di glassatura, che forma una crosta più
o meno consistente, come si legge in un manoscritto della fine del XV secolo: “mettila ordinatamente nello spiedo, ponila
al fuocho e daglielo nel principio adagio; perché sia bello e buono, arosto si
debbe quocere piano piano, e quando ti pare che sia presso che cotto, piglia
uno pane biancho e gratugialo minuto, e con esso pane misticha tanto sale come
ti pare necessario per lo arrosto, poi getta questa mescolanza di pane e di
sale sopra l’arosto in modo che ne vada in ogni luogo, poi dalli una buona chalda
di fuocho, faccendolo voltare presto.”
Sempre sul finire del Trecento, un anonimo cuoco o gastronomo
toscano, autore di un trattato di cucina ispirato ai ricettari nati in Sicilia,
anche traducendo ricette arabo-persiane, al tempo di Federico II (1194-1250),
scrive: A cocere prestamente e bene uno
arosto. Togli carboni e con essi coci; e quando sono bene acesi gittavi su
vino, e dureranno di più e più focosi.”
In un altro trattato di fine medioevo si legge: “A fare arosto de omne carne asai, porcelli,
cervi, castrati e vitela, e altri polli e ucelli… fa el foco da tutti doi li canti;
e commo è facta la brascia, che ce sia de li carboni de bone legne, asetta li
spiti [disponi gli spiedi] e di sotto
mecti una palata de brascia o di carboni più presto, e dinante fa una letiera
de brascia, non troppo inanti che metti lo spieti e come sonno mezi copti,
insalali.”
Con gli spiedi a doppia forcella, nati nel Medioevo, si entra
nella storia moderna, nella quale più che il mezzo, che subisce continue innovazione
fino agli spiedi attuali e che resta comunque fondamentale, conta il risultato,
cioè la perfetta cottura delle carni, sia d’uccelletti di passo, di animali da
cortile, di selvaggina di piuma e di pelo o ancora di ovini, caprini, suini e
bovini, che devono essere sempre carni di prima qualità.
E pur mancando oggi certe carni – soprattutto alcune
tipologie di uccellini dal becco gentile – l’arte e la tradizione dello spiedo
sono ancora presenti e vive a sottolineare una civiltà e una identità, come la
nostra, che affonda le radici in una storia molto lontana, densa di avvenimenti
e di apporti culturali, nella ricerca di un cibo sano, buono e appagante,
affinché la nostra vita possa fare tesoro, oltre al resto, anche di questo
prezioso dono del Cielo e della bravura dei moderni rosticcieri.