Un dilemma che accompagna gli
uomini fin dall’antichità, denunciato già nel II secolo da Clemente di
Alessandria
di Giampiero Rorato
Clemente
di Alessandria (150-215 d.C.) è considerato uno dei messimi intellettuali della
classicità greco-romana nonché il più importante pensatore e pedagogista cristiano
delle origini. Tito Flavio Clemente nacque probabilmente ad Atene da una
famiglia benestante che gli permise di avere un regolare e serio corso di studi
che ben traspare dalle sue opere.
Fin
da giovane intraprese lunghi viaggi alla
ricerca, come lui stesso scriverà più tardi, della verità. Dalla Grecia si recò
nell’Italia meridionale, in Asia Minore, in Siria, in Palestina e in Egitto.
Egli fu sempre un uomo assetato di verità e la trovò quando si converti dal
paganesimo alla religione del Cristo-Logos.
Ad Alessandria, poi, nel vivace contesto culturale di quella
città, scoprì l’ambiente più congeniale per sviluppare la propria ricerca, per
cui decise di fermarsi ed è per questo che gli fu dato l’appellativo di
Alessandrino.
La città alle foci del Nilo era allora la metropoli
cosmopolita e intellettuale più importante del mondo antico, punto d’incontro
della cultura proveniente dall’Oriente e dall’Occidente, dotata della più ricca
biblioteca contenente le opere degli autori greci e romani e delle altre
nazioni mediorientali e qui Clemente divenne maestro spirituale nel Didaskaleion (190-202) e qui compose le sue opere
più importanti, fra le quali “Il Pedagogo”.
I Ghiottoni
Nella storia della gastronomia Clemente entra da protagonista
con i due primi capitoli del Pedagogo
(II, 1,2).dove descrive la figura dei ghiottoni del tempo, tutti presi dalla
smania di un esasperato gusto culinario, cui segue un attento e approfondito
commento con delle indicazioni per una sana e piacevole alimentazione.
Una sua pagina, conosciuta anche da Ateneo (bibliotecario ad Alessandria), l’autore de I Deipnosofisti (I ghiottoni a
banchetto), è un pezzo di bravura che fa pensare a Trimalcione, il liberto arricchito
immortalato nel Satyricon da Petronio Arbitro (27-66 d.C.).
Clemente biasima i ghiottoni (che oggi vengono spesso
erroneamente confusi con i buongustai), i quali «si affannano a procurarsi le murene dello stretto di Messina e le
anguille del Meandro e i capretti di Melo e i muggini dello Sciato e le
conchiglie del Peloro e le ostriche di Abido, senza dimenticare le menole delle
Lipari o le rape di Mantinea, ma nemmeno le bietole di Ascra, e ricercano pesci
di Metimna e i rombi dell’Attica e i tordi di Dafne, e i fichi secchi
chelidonii (...) E ancora: fanno incetta di fagiani del Fasi, di francolini
dell’Egitto, di pavoni della Media. E ne mutano i sapori con salse quegli
ingordi e ingozzano avidamente le leccornie che sono nutrite dalla terra e dagli
abissi marini e dagli spazi immensi dell’aria, per procacciarli alla loro
ingordigia. E questi avidi trafficoni sembrano rastrellare in senso vero e
proprio l’universo per il loro piacere, lo “friggono in padella” facendo
chiasso e passano tutto il loro tempo tra mortaio e pestello questi onnivori,
attaccandosi alla legna come il fuoco. Ma anche il cibo semplice, il pane, lo
rendono effeminato, vagliando bene la parte nutritiva del grano, così che
quello che è alimento necessario diventi un piacere da vergognarsi» (II, 3).
Clemente
è consapevole del valore del cibo per gli esseri animati, e sa che
l’acquisizione del cibo rappresenta per la maggior parte degli uomini, specie
ai suoi tempi, la cura principale (II, 1, 5).
Era
altresì nota alle classi abbienti e a quelle colte di Alessandria, città,
culturalmente raffinata, l’importanza antropologica del mangiare e, da
cristiano, non condannava il banchetto, già positivamente presentato dal
Vangelo in diversi episodi (Nozze di Cana, Ultima Cena, ecc.)
La modernità di Clemente
Scrive
l’illustre accademico Luigi: F. Pizzolato dell’Università Cattolica di Milano
in uno saggio apparso ne “L’Osservatore Romano” (31.5.15): “In due capitoli del
«Pedagogo» il teologo alessandrino mette alla berlina una città opulenta antica
e la smania di un esasperato lusso culinario Criticando chi si affanna a
procurarsi le murene dello stretto di Messina le ostriche di Abido e le rape di
Mantinea”.
Seguendo
il pensiero di Clemente, anche in ordine al pensiero cristiano, Pizzolato
afferma che “il cibo è sostanzialmente un mezzo non un fine, anche se la sua
correlazione stretta all’esistenza e al segno della grazia lo rende, in un
certo senso, partecipe del fine. Il cibo facilita l’incontro relazionale, solo
se è attraversato dalla carità. E «opera di essa è la distribuzione» (II, 1,
7), perché «l’abbondanza non è fatta per goderne da soli, ma per parteciparla
agli altri» (II, 1, 14). Si tratta pur sempre dell’abbondanza di un «cibo
semplice e non ricercato, corrispondente a ciò che è vero» (II, 1, 2).
Riecheggiando
il libro dei Proverbi (15, 17), Clemente preferisce «una porzione di verdura
con amore piuttosto che un capretto con inganno» (II, 1, 15). In questa
dimensione l’uomo trova non solo verità, ma anche vantaggio: «quelli che fanno
uso dei nutrimenti più modesti sono più vigorosi, più sani e più valenti, come
i servi lo sono dei padroni e i contadini dei proprietari» (II, 1, 5).
Clemente
dà il giusto rilievo, anche finale non solo strumentale, al cibo perché sa che
ci sono «cibi creati per la gioia dell’anima e del cuore» (cfr. Siracide, 31,
27-28; II, 2, 23). Egli gradisce quella, elementare, forma di ricercatezza
culinaria che va sotto il nome di “varietà del cibo”, sempre, diremmo,
all’interno d’una semplicità gustosa.”
Non
c’è dubbio che, con ancora negli occhi la grande immagine dell’Expo di Milano
con le sue proposte per garantire cibo sufficiente a tutta l’umanità, rileggere il secondo capitolo del Pedagogo di
Clemente d’Alessandria, vero maestro di vita, ci si rende conto che il
patrimonio culturale lasciatoci in eredità dai grandi del passato rappresenta
sempre e comunque uno strumento di civiltà, capace di aiutare gli uomini a
capire, affrontare e a risolvere i problemi del proprio tempo, anche quello
della fame che colpisce ancor oggi un miliardo di esseri umani.
Clemente,
lo sottolineiamo, non è contro il buon mangiare, contro i banchetti festosi,
limitandosi a biasimare lo sperpero, il porre il cibo come massimo dei valori
della vita, senza badare che sia buono, sano, nutriente, interessando
soprattutto che sia raro e costoso, come voleva Trimalcione per la sua celebre
cena e, soprattutto, pensando egoisticamente solo a se stessi, ignorando coloro
che ne sono privi.
La
sapienza degli antichi ancora una volta può rivelarsi utile agli uomini d’oggi
in un settore fondamentale per la vita, com’è appunto l’alimentazione.