Risi e risotti alla moda di Venezia
di Giampiero Rorato
Come
si fa il risotto a Venezia? Semplice e lo vedremo presto, ma intanto ricordiamo
che questo piatto, che caratterizza la cucina veneziana e veneta, più di quanto
si pensi, è il risultato di alcuni eventi avvenuti nel corso del ‘500, con una lenta
e quasi inevidente evoluzione nei secoli successivi. Dunque, per dirla tutta, c’è una bella storia
alle spalle dell’attuale modo di preparare il risotto alla veneziana
(meglio: i risotti alla veneziana, perché i classici sono numerosi e si
cuociono tutti alla stessa maniera) e credo sia utile conoscerla, accennando
solo fugacemente agli usi trecenteschi ben documentati dal veneziano Libro
per cuoco, di ascendenza federiciana e angioina, che, oltre a far conoscere
ai veneziani i Biancomagiari, di origine araba o, più probabilmente,
nati o affinati nella reggia dei califfi abbasidi di Bagdad (o nella cucina del
cuoco Muhammad Al Baghdadi), molto in
voga tra Medioevo e Rinascimento, presenta una ricetta in uso nel mondo
contadino veneto, e non solo, fino a tempi molto recenti, i risi col latte.
La
storia del riso in terra veneta inizia, come è risaputo, nel 1474 quando il
duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza dona al duca di Ferrara Ercole I d’Este
12 preziosi e costosi sacchi di riso appena prodotto nelle sue terre. Come quel
riso arriva a Ferrara, accompagnato da una lettera dello Sforza che insegna a
coltivarlo e poi a cuocerlo, Ercole dà ordine che una buona parte sia subito
seminato nelle terre più adatte che si trovano nella vasta ara acquitrinosa del
delta del Po.
Le
autorità della Serenissima non impiegano molto a comprendere il valore del
nuovo cereale, coltivato vicino al suo territorio, prezioso e molto utile sia
per arricchire l’alimentazione degli abitanti della Serenissima, patrizi,
popolani e contadini, soprattutto questi ultimi e i poveri dei paesi, sia per
possibili lucrosi commerci con il vicino Patriarcato del Friuli e le terre
degli Asburgo. Convinti di ciò, i magistrati della Repubblica e, in primis, il
Consiglio dei Dieci, invitano i proprietari terrieri a realizzare delle risaie,
come nelle vicine terre dei duchi di Ferrara che s’estendevano sull’intero delta
del Po e in Polesine, in destra del fiume Adige e sollecitano i patrizi, aventi
proprietà in quelle aree e in altre parimenti umide, a realizzare delle opere
di bonifica e dei canali di irrigazione e di scolo delle acque.
Tuttavia, mentre le risaie sono
fiorenti nelle terre del duca di Ferrara, nella terraferma veneziana faticano a
diffondersi e allora le massime autorità della Repubblica iniziano una importante
campagna per convincere i patrizi a realizzarne nelle loro proprietà, invitando
poi gli abitanti al consumo del riso. Interviene ancora il Consiglio dei Dieci,
con delibera del 12 ottobre 1527, in cui afferma che “mosso dalla volontà di
diffonderne la coltivazione, fa sapere che esso supplisce molto bene i legumi”,
che erano allora un alimento molto diffuso nel mondo contadino e sollecita la
coltivazione del nuovo cereale, utilissimo quale cibo per le popolazioni povere
della terraferma.
Ancora una volta sono pochi i
proprietari terrieri, per lo più qualche illuminato patrizio veneziani e alcuni
monasteri benedettini, anche femminili (ad esempio a Grumolo delle Abbadesse), disposti
a realizzare delle risaie, perché dedicarsi alla produzione di riso comportava
una nuova mentalità, una vera e propria rivoluzione nelle campagne e delle
spese per realizzare le necessarie condotte e scoli per l’acqua fondamentale
per produrre il riso. Allora il Consiglio dei Dieci interviene di nuovo nel
1533 con un decreto molto allettante, nel quale dichiara che la coltivazione e
il commercio del riso sono totalmente liberi da ogni tipo di tasse. Questo nuovo intervento, che tocca le tasche
dei proprietari terrieri e dei commercianti, funziona. infatti, dopo quell’anno
le risaie si diffondono su tutta la
terraferma veneta, tanto che ancor oggi ci nono in moltissimi comuni delle vie
che ricordano la presenza di “risaie” e “risere” e, in pochi anni, il riso
diventerà un alimento comune e diffuso ovunque in territorio veneto.
In breve tempo il riso verrà
addirittura considerato una specie di alimento-simbolo
della cucina della Serenissima e diventerà vero e proprio piatto nazionale veneziano, quando
il Doge lo pretenderà sulla sua tavola in occasione della festa del patrono San
Marco e nei ricevimenti più importanti in una preparazione divenuta
celeberrima: i risi e bisi.
E qui si apre una storia importante intorno al riso,
divenuto sempre più elemento fondamentale dell’alimentazione veneta, sia in
brodo (famosi i “risi in brodo coi fegatini”, piatto per il
pranzo delle feste più solenni e per i banchetti matrimoniali), ma attualmente
soprattutto asciutto o quasi (a Venezia si dice “all’onda”), uno dei prodotti
che caratterizzano l’attuale cucina veneziana.
È interessante notare che sulla scortai del
ricordato piatto dogale, in terra veneta il riso non si presenta mai solo, ma
sempre accompagnato da un altro ingrediente (uno solo), ugualmente
fondamentale. Si tratti, come nel caso già visto, dei piselli, oppure di pesce,
molluschi o crostacei, di un’erba spontanea di primavera, di funghi, di
radicchio o di altri ortaggi. come zucchine e cavoli, di luganega, di rane, di
un vino o di qualsivoglia altro ingrediente, il riso ha sempre bisogno di un
compagno per esaltare sé stesso e dare al piatto convincenti caratteristiche gastronomiche-
in una straordinaria varietà che solo la cucina veneziana e veneta conosce e
realizza.
In questo Venezia è ancor oggi maestra. Il suo gran
numero di prodotti d’acqua, di terra e di cielo, sia di laguna che di
terraferma oppure importati, come le spezie dall’Oriente e poi come tanti
ortaggi dalle Americhe appena scoperte, nella continuità della sua antica
tradizione mercantile, la sua attenzione per le esigenze di ogni singolo
prodotto, la sua predilezione per la buona tavola e la diffusa competenza nelle
cose di cucina, consentono di avere nel veneziano – come del resto un po’ in
tutto il Veneto - una vastissima gamma di piatti di riso, in brodo e asciutti,
almeno uno per ogni giorno dell’anno, cosa che è davvero difficile, se non
impossibile, trovare in altre parti d’Italia. Molti di questi piatti sono ormai
diventati dei classici, punti fermi della gastronomia, gustati e apprezzati nel
mondo intero, ma soprattutto è apprezzata e seguita la tecnica elaborata dai
veneziani di città e terraferma, i cui risotti sono giustamente considerati
espressione di altissima cucina.
Il piatto veneziano per eccellenza, l’abbiamo detto,
è quello dei risi e bisi e il
nobiluomo Elio Zorzi (1892-1955), autore del celebre “Osterie veneziane” (1928),
scrive: «Preparata a dovere, con pesto di prezzemolo, pancetta e qualche
fogliolina di finocchio, cotta nel brodo di carne, e portata a giusto grado di
densità, la minestra di riso e piselli freschi e dolci, gentile, vellutata,
aromatica, semplice, appetitosissima, costituisce il vanto di ogni buona
massaia (veneziana) e la base classica del desinare di ogni onesta famiglia,
nelle stagioni, nelle quali gli orti dell’Estuario danno i piselli freschi. Ai
tempi della Serenissima, la minestra di risi e bisi era la minestra del Doge.
La si serviva nei banchetti solenni, e in occasione delle più grandi festività
nazionali.»
E ci sono altre informazioni preziose che prendiamo
dallo stesso autore. «In genere – scrive ancora Elio Zorzi quasi un secolo fa –
le minestre in brodo si usano fare dense (fisse),
ed i risotti invece piuttosto fluidi, cosicché il divario di densità tra le due
specie di minestre non è molto grande. Naturalmente, questa regola va intesa cum grano salis, e il riso non deve mai
arrivare a quello stato di disfacimento, che si suol chiamare venezianamente i risi longhi. Non dev’essere quindi
seguita la massima che l’avarizia e l’abituale scontrosità suggerivano al
goldoniano Sior Todaro Brontolon:
-
Voggio disnar all’ora solita. Ma i risi i se mette suso a bonora, acciò
che i cressa, che i fazza fazion. Son sta a Fiorenza, e ho imparà là come se
cusina i risi. I li fa boger tre ore; e mezza lira de risi basta per otto o
nove persone.
-
Benissimo, la sarà servida – risponde il servo Gregorio. Ma, a parte,
soggiunge: “Ma per mi me ne farò una pignatella a modo mio…”.
Tra i più pregevoli risotti – scrive sempre Elio
Zorzi - vi è il risotto de cape [telline, vongole e simili] o di peoci [mitili eduli,
cozze]; l’uno e l’altro creati dall’unione del bianco cereale con
abbondanti molluschi di numerose specie. Ma non hanno minori diritti alla
considerazione dei buongustai il risotto
de bisato, e cioè alleato alla tenera e grassa carne delle floride anguille
delle valli venete; né il risotto de
scampi, dovuto ai deliziosi crostacei del Quarnaro; e tutti li supera, per
l’originalità del sapore e dell’aspetto, il nero risotto de sepoline, che si ottiene mescolando al riso le piccole
seppie, alle quali non dev’essere tolta la vescichetta dell’inchiostro.»
E a proposito del risotto di scampi merita ricordare
che era il piatto preferito da Ernest
Hemingway, personaggio davvero unico dell’alta società internazionale del
secondo dopoguerra e Venezia soddisfò le sue passioni per la caccia e la pesca,
la buona cucina, il buon vino e gli ambienti lussuosi e ben frequentati. «Come
si può vivere a New York quando ci sono Venezia e Parigi?» affermava
candidamente.
Hemingway
arrivò in laguna per la prima volta nel 1948 con la sua quarta moglie Mary e la
città dogale fu anche teatro di significativi incontri per lo scrittore, come
la diciottenne nobildonna Adriana Ivancich (1930-1983), raffinata disegnatrice
e scrittrice, con la quale intrattenne una particolare amicizia, riconoscibile
nel suo romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi”.
Ma
torniamo al risotto di scampi. A Venezia Hemingway era ospite dell’hotel Gritti
e fu lo chef di questo storico albergo a perfezionare questa ricetta ascoltando
i suggerimenti dello scrittore che considerava il Gritti la sua “seconda casa”
e lo accompagnò sempre con il vino da lui più amato, il Valpolicella, anche se
a Venezia a questo ottimo risotto, sempre attuale e presente, viene accostato
un grande vino bianco del veneto, il Soave o il Lugana o anche il Prosecco
spumante.
In questi ultimi tempi si preparano a Venezia risotti
con le seppioline anche senza il nero, per cui si hanno entrambe le versioni e
tutte due godono di molti estimatori e c’è anche, lo ricordiamo velocemente, il
risotto al nero di seppia e argento di Gualtiero Marchesi, ma questa è tutta un’altra
storia.
Elio Zorzi cita poi altri piatti di riso, in uso a
Venezia all’inizio del Novecento e presenti da molto prima, tutti naturalmente
con un solo ingrediente oltre al riso, alcuni dei quali divenuti attualmente delle
ricercate rarità: i risi in cavroman (con un intingolo di carne di castrato o di
capretto cotta in umido), i risi
con la castradina (una specie di
zuppa di carne di castrato e verze preparata per il pranzo del 21 novembre,
festa solenne della Madonna della Salute, a ricordo di un voto fatto in occasione
della peste del 1631), il risotto
a la bechera (riso condito con un
particolare sguazzetto di varie carni, midollo di bue freschissimo, olio,
burro, sedano, carota, sale e pepe, antica preparazione veneziana), il risoto de zuca, ecc.
Nella seconda metà del Novecento e, soprattutto, nei
primi due decenni di questo secolo, per il moltiplicarsi dei ristoranti di
qualità, dovuto anche all’aumento del turismo a Venezia e per lo sviluppo
economico che ha interessato tutto il territorio, i piatti di riso hanno
conosciuto un enorme successo, grazie all’apprezzamento dei buongustai italiani
e internazionali, nonostante la massiccia invasione della pasta, più veloce e
più facile da preparare, specie nelle numerose “trattorie per turisti” e così,
accanto alle preparazioni storiche e più tradizionali, sono state create nuove
ricette, valide e interessanti, tanto che girando per i ristoranti e le
trattorie della provincia di Venezia e nelle province finitime, si possono
gustare decine e decine di piatti di riso, tutti diversi fra loro e, spesso,
gastronomicamente molto validi, anche e il più delle volte scompaiono in breve
tempo.
Dai risotti di pesce, molluschi e crostacei, a
quelli di carne e ancora a quelli con erbe spontanee e ortaggi, la cucina
veneziana offre tal varietà di piatti di riso che già sbalordì i grandi
buongustai del passato che arrivavano numerosi a Venezia, specie nel periodo di
carnevale, anche per godere la cucina servita nelle locande, nelle osterie e
preparata nei palazzi dei patrizi. Ce lo ricordano anche i numerosi piatti
citati da Carlo Goldoni nelle sue commedie, fra cui i “Cento riso cola so meola
de manzo e la so luganega par torno via” di cui si parla ne L’uomo di mondo, poi i ricordati “Risi
co la castradina” citati ne Il campiello
e, ancora, i “Cento riso cola quaieta” (Minestra e, successivamente, risotto
con le quaglie) ricordata in Chi la fa
l’aspetti.
Ma come si fa il risotto a Venezia? Pe rispondere è
necessario lasciare la storia ed entrare in cucina per conoscere la tecnica dei
vecchi cuochi operanti nella città dogale che è diversa da quella dei cuochi
milanesi. Storicamente, a Venezia il riso – e questo vale per ogni tipo di
risotto - come viene calato nella casseruola che già contiene il soffritto ben
caldo e, spesso, anche il secondo ingrediente, non va tostato ma immediatamente
bagnato di brodo (o acqua) bollente e portato a cottura, tenendolo sempre molto
morbido, lasciando che faccia lentamente uscire dai chicchi una parte del
proprio amido, che aiuterà in fase di mantecatura. Il secondo ingrediente può
essere messo nella casseruola prima del riso, se si tratta di prodotti che
hanno bisogno di una cottura più lunga del riso o anche durante la cottura del
riso se hanno bisogno di una cottura più breve o se si vuole che restino
abbastanza integri (es. le punte di asparago bianco).
Per doverosa informazione aggiungo che a molti
cuochi moderni, purtroppo sradicati dalla tradizione veneziana, quasi sempre
per mancanza della sua conoscenza (cosa che capita anche ai docenti degli
Istituti e delle Scuole turistico-alberghiere), piace, per comodità, far
tostare il riso, così, dicono, si conserva più a lungo dopo la cottura e si
cuoce senza problemi anche se si bada ad altre pentole sul fuoco. I cuochi del
passato avevano più tempo, sia nelle case signorili che nelle numerose, calde e
vivaci osterie che aprivano i battenti in ogni sestiere e in ogni parrocchia
veneziana, poi, avevano diversi aiutanti (che costavano poco) e non c’era la
frenesia attuale ed era per loro più semplice seguire una tecnica di cottura
che, grazie all’amido fuoriuscito dai chicchi, permetteva di amalgamare (mantecare)
il riso con meno burro e meno formaggio, aggiunto quest’ultimo, ma non sempre,
per insaporire il piatto.
E a completamento ecco la ricetta moderna dei “Risi
e bisi”.
Per 4-5 persone: 400 g di piselli sgranati,
200 g di riso, 50 g di pancetta magra, 3 cucchiai di olio evo, mezza cipolla,
una piccola noce di burro, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, brodo, una
manciata di formaggio grana grattugiato, sale e pepe.
Fa
soffriggere in una casseruola la cipolla e la pancetta tritate, l’olio e un po’
di burro, unisci i piselli e falli cuocere a fuoco moderato per una quindicina
di minuti. Cala poi il riso, non farlo tostare, quini rimesta con delicatezza
per non rompere i piselli, insaporisci di sale e pepe e porta a cottura tenendo
sempre rimestato e generosamente bagnato con mestolini di brodo bollente,
badando di conservare una consistenza molto morbida e ricca di brodo. Verso
fine cottura controlla l’insaporimento, spegni il fuoco, incorpora il formaggio
e il prezzemolo e manda in tavola in piatti fondi o in adatte ciotole, badando
che sia molto morbido, ma non minestra né risotto, da dover essere comunque mangiato
con il cucchiaio.
Variante: fa bollire in un
pentolino i baccelli dei piselli e porta poi a cottura il riso col brodo dei baccelli
che hai ottenuto, dando al piatto un colore sulle tonalità del verde
E,
avendolo prima ampiamente citato, ecco il “Risotto di scampi” amato da
Ernest Hemingway.
Per 2 persone:
140 di riso Vialone nano; 50 g di scalogno tritato; 300 g di fumetto di pesce; 300 g di ristretto di
scampi; 8 scampi freschi grandi; 8 g di prezzemolo; mezza carota, 1 costa di
sedano, 30 g di vino bianco; mezzo bicchierino di cognac; mezzo cucchiaio di
concentrato, 2 rametti di erba cipollina, 1 rametto di timo, aglio, olio
d’oliva, burro, sale e pepe.
Sguscia
gli scampi e rimuovi il filetto nero, spezzettatene 6 e lasciatene 2 interi.
Tieni da parte i carapaci. Fa rosolare 1 scalogno tritato, mezza carota e una
costa di sedano, versa i carapaci, spaccali con l’aiuto di un mestolo di legno,
poi sfuma il cognac, copri con del brodo di pesce, aggiungi il concentrato, la
cipollina, il timo, fa restringere di due terzi, poi passa tutto con un colino.
Fa
saltare la polpa di scampi con olio d’oliva e aglio schiacciato e tieni da
parte. Versa nella pentola un cucchiaio di scalogno tritato, cala il riso poi
sfuma con poco vino bianco, quindi bagna con il ristretto di scampi e poi con
un fumetto di pesce. Verso fine cottura aggiungi gli scampi precedentemente
saltati, manteca con una noce di burro e due cucchiai di olio evo del Garda,
prezzemolo, sale, pepe e decora ogni piatto con la coda di scampo.
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