Don Giampietro De Domini Arciprete di Motta, fulgido esempio di impegno sacerdotale e di grande amore di patria
Il Risorgimento italiano ebbe fra i propri protagonisti numerosi sacerdoti, anche nella diocesi di Ceneda e, fra questi, uno dei più illustri e impegnati, è stato l’Arciprete del Duomo di Motta, don Giampietro De Domini.
Nato a Sequals (allora in provincia di Udine, oggi Pordenone) in una famiglia nobile il 2 gennaio 1811 nel Regno italico di Napoleone, si trasferisce presto con la famiglia a Orcenico inferiore e qui riceve l’istruzione elementare da un maestro privato, poi frequenta il Ginnasio vescovile di Portogruaro e termina gli studi al Ginnasio Santo Stefano di Padova. Si iscrive al biennio di Umanità e Filosofia come alunno esterno del Seminario di Padova e a 17 anni, avuta la dispensa per la giovane età, si iscrive alla Facoltà di Teologia dell’Università di Padova, studiando anche le lingue ebraica, araba, caldea e siriaca. Nel 1833, a 22 anni, viene ordinato sacerdote dal vescovo di Padova mons. Modesto Farina, che la polizia austriaca teneva sotto controllo perché ritenuto “liberale”, cioè patriota.
Divenuto sacerdote, torna a Portogruaro chiamato a insegnare nel locale Ginnasio, nominato insegnante di filosofia teoretico-pratica, dopo aver sostenuto un rigoroso esame abilitante all’Università di Padova e tiene la cattedra fino al 1841, contribuendo a formare culturalmente diversi sacerdoti concordiese del tempo.
Nel 1841 la Deputazione comunale di Motta (in pratica il Consiglio Comunale del tempo), in base a un antico privilegio, lo sceglie come parroco del Duomo e, incoraggiato dal Vescovo di Concordia, accetta, dopo aver superato i prescritti esami canonici e il 2 febbraio 1842, a 31 anni, fa il suo ingresso nella parrocchia di Motta. Ha scritto don Nilo Faldon che “apparve subito a tutti un sacerdote degnissimo ed esemplare sotto ogni profilo. La sua preparazione e la sua cultura emergevano in ogni momento. Si dimostrò anche attivo. La gioventù ne era entusiasta.”
Il 17 marzo 1848, Venezia insorge e, qualche giorno dopo, a Motta si forma una Guardia Civica formata da tutti gli uomini validi, ben 450 e l’arciprede De Domini il 23 marzo tiene in Duomo un vibrante discorso patriottico, inneggiante alla libertà e all’amore per la patria italiana, poi stampato in 500 esemplari, con l’aggiunta di un Salmo patriottico e distribuito alle famiglie mottensi. “De domini, scrive ancora don Faldon, divenne così l’animatore, il poeta, il cantore del nuovo corso e, per spontanea coerenza, sentì il dovere di guidare concretamente questa crociata. Accompagnò allora i combattenti, come cappellano militare, prima verso il Tagliamento ed Udine; poi verso Cornuda, Treviso, Vicenza e, infine, Venezia.”
Fece parte della Legione Trevigiana, gruppo combattente patriottico formatosi spontaneamente, poi chiamato Cacciatori del Sile, che divenne il nerbo forte della Quinta Legione Veneta, formata quasi tutta da trevigiani, e parecchi erano mottensi. De Domini partecipò alle battaglie della Cavanella, del Cavallino, di Fusina, di Forte Marghera, del Piazzale e del Ponte della laguna. In queste occasioni incontrò numerosi altri sacerdoti patrioti: il barnabita Ugo Bassi fucilato a Bologna, J. Bernardi, G. Moretti, N. Talamini, A. Collovati. Conobbe e fu in corrispondenza con Daniele Manin.
Caduta Venezia, tornò a Motta, ma l’Austria gli impedì di riprendere il suo ministero, nonostante le pressanti e ripetute intercessioni del vescovo di Ceneda mons. Bellati e dei patriarchi di Venezia Monico e Mutti. Lo stesso maresciallo Radetsky che si era riservato il caso De Domini, fu irremovibile.
Don Giampietro De Domini trascorse il resto della sua vita in povertà, nello studio e in attività educative. Ritiratosi ad Orcenico vi rimase fino al 1881, poi si trasferì ad Udine dove morì il 15 settembre 1886, dopo aver visto raggiunti i traguardi patriottici da lui sognati e propugnati, mancando ancora Trento e Trieste. Fu uomo di vasta e solida cultura, filosofo raffinato, seguace del Rosmini, futuro beato, di cui divulgò il pensiero e le opere e, come il Rosmini “egli ebbe, scrive don Faldon, anche una preoccupazione amorosa, un santo desiderio: purificare alcune strutture della chiesa dalle macchie, dalle rughe, dalle incrostazioni deposte su di lei dalla lunga vicenda dei secoli”.
Scrisse anche pagine importanti riguardanti la famiglia e l’amore degli sposi, oltre a sudi di filosofia. Nel 1841, in occasione del suo ingresso nella parrocchia mottense, gli studenti e i colleghi docenti del Seminario di Portogruaro pubblicarono due suoi studi: Nuovo saggio attorno all’origine delle idee dell’ab. Antonio Rosmini Serbati e Su d’una prova della religione cattolica. Dissertazione.
Fu un prete esemplare, fedele alla Chiesa e al gregge a lui affidato; fu patriota nobilissimo con le parole e con i fatti, vero protagonista della storia risorgimentale mottense, le cui figure più fulgide, accanto alla sua, furono Pilade Tagliapietra e Giuseppe Lippi, che furono tra i Mille di Garibaldi, Carlo della Frattina, pure lui garibaldino, morto in combattimento a Bezzeca il 21 luglio 1866, il capitano della Guardia Civica Cesare Simeoni, Michele Carretta, capitano della IV Compagnia dei Cacciatori del Sile e le signore Marianna Loro-Zannoner e Annetta Stroili-Sartori, che nelle loro case riunivano la sera i giovani mottensi, insegnando l’amor di patria e indicando la meta da raggiungere: l’unità dell’Italia, dalle Alpi alla Sicilia.
Giampiero Rorato