Una nota di Giampiero Rorato
Il lungo e interessante rapporto dei Veneti con il
pesce altoadriatico iniziò quando Antenore, verso la metà del tredicesimo
secolo prima di Cristo, arrivò con un manipolo di Troiani e con gli Heneti, già
loro alleati nella guerra contro i Greci, nella regione compresa tra i fiumi
Livenza e Po, occupando le terre abitate da sparsi insediamenti di Euganei. Una
parte dei nuovi arrivati dalla lontana Anatolia si insediò lungo la fascia costiera
e la gronda lagunare, da Equilium (poi Jesolo e Cavallino) ad Adria, trovando
nei doni del mare il proprio principale alimento. Poi, circa millecinquecento
anni dopo, quando nelle Venezie s’abbatté la furia dei barbari invasori, gli
abitanti delle città e dei villaggi di terraferma trovarono rifugio nelle
deserte isole della laguna, ponendo le basi della futura città di Venezia. Quei
fuggiaschi, finalmente al sicuro nel vasto silenzio della laguna, trovarono
ampia disponibilità di pesce e questo fu, per lungo tempo, quasi l’unico cibo
di poveri e ricchi. Lo ricorda anche Cassiodoro, il grande ministro di
Teodorico e Vitige a Ravenna, in una lettera inviata attorno al 537 ai tribuni
marittimi della Venezia, nella quale si accenna per la prima volta al cibo dei
veneziani.
Circa 600 anni dopo, Venezia è città ricca e potente
con una rete commerciale che spazia per tutto il Mediterraneo e anche oltre e
già compaiono i primi monopoli, con mercanti che impongono a loro piacimento il
costo degli alimenti, costringendo l’autorità dogale a intervenire per fissare
un calmiere ed evitare le speculazioni a danno del popolo veneziano.
Calamaretti con radicchio di Treviso |
Frittura di pesce del ristorante Vecio Fritolin di Venezia |
«Il vitto dei primi Veneziani - scrive Pompeo Gherardo
Molmenti in La storia di Venezia nella
vita privata, riferendosi agli anni fino al Mille – oltre che di carne di
bove, di capretto, di maiale, era composto anche di quanto offrivano in gran
copia la caccia e la pesca, che sappiamo quanto fossero attive. Sulle lagune,
numerosi gli uccelli palustri, come le anitre selvatiche (osèle), i maggioringhi (masorini)
o germani reali, le folaghe, i chiurli, le cercedule, le arzagole; di variate
specie i pesci dell’Adriatico e dei fiumi; abbondante la selvaggina nelle selve
dell’Estuario. Erbaggi e frutta si ritraevano dalle campagne dell’Estuario.
S’intende che, pur non dipartendosi la città in sul principio da un modesto
tenore di vita, le mense dei ricchi e dei poveri erano variamente fornite.»
Grancegole |
Sul vitto di quegli antichi Veneziani c’è un’acuta
osservazione di Massimo Alberini, uno dei più attenti studiosi di storia
alimentare. Gli abitanti delle isole, prima di dividersi in patrizi e popolo
comune, assumendo nuovi costumi e nuove regole di vita, nella città e nei
villaggi di terraferma da cui provenivano erano gli eredi d’una storia antica e
della cultura diffusa anche nelle Venezie dalla civiltà di Roma, che aveva
ulteriormente arricchito e affinato quella dei Veneti primi. Tenendo dunque
conto di questa eredità e delle molteplici esperienze maturate nei primi tempi
di vita nel deserto lagunare Alberini scrive che «nulla ci impedisce di
supporre che … siano stati quei progenitori della cucina veneziana a preparare
le seppie in técia con il loro nero,
l’anguilla arrostita sulla pietra (bisato
su l’ara) e le zuppe di molluschi, dalle cape sante alle cape longhe o da deo». Sono questi i piatti basilari
d’una tradizione che ha subito nel corso del tempo alterne vicende, pur
restando sempre una cucina strettamente legata al territorio, alla stagionalità
e a un invidiabile buon gusto che ha fatto scuola in tutto l’Occidente.
Leggendo i primi documenti sulla vita dei Veneziani
si ha tuttavia l’impressione che, dopo gli anni dell’arrivo dalla terraferma e
dell’adattamento alle nuove condizioni di vita, il pesce sia progressivamente
diventato, soprattutto per il patriziato, cioè per le casate più ricche e
potenti, un alimento secondario, a vantaggio della selvaggina e della carne
degli animali allevati nelle isole. Questi, tuttavia, non bastavano per cui
ogni giorno dalla terraferma arrivavano file di barche cariche di bovini,
ovini, suini e animali da cortile d’ogni specie, mentre il pesce veniva
riservato soprattutto al popolo minuto e, per tutti, ai giorni di magro
decretati dalla Chiesa.
Granciporri |
Il consumo del pesce era dunque diminuito sulle
tavole dei Veneziani, ma non scomparso e le cotture allora in uso erano
talmente semplici che il primo ricettario che ci è pervenuto – il Libro per cuoco di un anonimo autore
veneziano – risalente alla fine del XIV secolo, ci dà le salse adatte per il
pesce bollito e per quello fritto, mentre per quanto riguarda le ricette vere e
proprie ce ne dà quasi solo per il pesce d’acqua dolce, in particolare per
l’anguilla. Intanto sappiamo che i Veneziani lessavano i pesci di grandi
dimensioni e friggevano quelli piccoli, anche se potevano esistere altri modi
di preparare il pesce di mare, fra cui quello “in saòr”, che è l’unica ricetta
di pesce di mare presente nel ricettario trecentesco: «Se tu voy fare pesse a
savore che se chiama sabeto, frizelli in bono olio, toy uva passa e maxenala
con l’agresta e con aceto e toy cepola e lessala e batila con cotello poy
frigilla con quello savore e mitige specie che non habia zafarano e mitigi
galanga asai e fai che seano acetoxi non tropo.»
Una domanda arrovella da sempre gli studiosi: ma che
senso aveva a Venezia conservare il pesce quando quello freschissimo era ogni
giorno disponibile in grande quantità? Interrogativo certamente giustificato,
che tuttavia non deve dimenticare il ruolo marinaro di Venezia e quindi i
viaggi per mare dei Veneziani. Era infatti fondamentale avere nelle cambuse
disponibilità di alimenti sani e durevoli ed ecco che, assieme alla celebre castradina (la carne di castrato salata
ed essiccata, tipica della Dalmazia e dell’Albania, ancor oggi gustata a
Venezia nella festa della Madonna della Salute, il 21 novembre), poteva starci
benissimo anche il pesce in saòr.
Questa tecnica di conservazione va fatta risalire alla tradizione romana del garum, una salsa prodotta allora in
quantità industriale nella Dalmazia meridionale e soprattutto attorno a
Spalato, città nella quale l’imperatore Diocleziano aveva fissato la sua
residenza, e in altre località del Mediterraneo anche occidentale, ed è
verosimile che il saòr veneziano
derivi proprio dalle stesse aree dove le navi veneziane si rifornivano della castradina.
Ed è sempre dalla costa orientale dell’Adriatico che
arriva a Venezia, diffondendosi poi anche in terraferma, un altro piatto
divenuto celebre, la bùsera, parola
che il Boerio non riporta nel suo Dizionario del dialetto veneziano edito nel
1856, eppure la preparazione è ben conosciuta da tempo a Venezia e nel Veneto
orientale. Il termine appartiene al dialetto dei pescatori della costa
orientale dell’Adriatico ed ha ascendenze assai antiche, ma, avendo diffusione
molto limitata, non è riportato nei dizionari né veneti né croati. Il piatto
degli scampi in busera o alla busera è comunque una specialità
ancor oggi proposta in molti ristoranti di pesce, specialmente assieme agli
spaghetti, conditi con la stessa salsa. La ricetta è semplice e interessante e
prevede l’impiego di un buon numero di scampi interi piuttosto grossi (ottimi
quelli catturati nel Quarnaro e nelle insenature dalmate) fatti soffriggere in
una adatta padella (la bùsera degli
Istriani e dei Dalmati) su una base di olio d’oliva e un trito d’aglio e
cipolla. Gli scampi ben lavati vanno distesi sul soffritto integri (o, come si
usa in terra veneta, col carapace tagliato longitudinalmente nella parte
inferiore) e subito bagnati con abbondante vino bianco, quindi cosparsi con un
pizzicotto di paprica o peperoncino sbriciolato (in passato aglio e non
peperoncino).
Pesce Sampiero |
In Dalmazia, da molti decenni si aggiungeva della polpa di
pomodoro e, a piacere, del prezzemolo tritato. Dopo alcuni minuti gli scampi
vanno rigirati quindi cosparsi di pangrattato per meglio legare la salsina che si
forma. Occorre qui precisare che sia in Istria che in Dalmazia la busera altro non è che una padellata di
pesce, di una o più varietà, o anche di pesce misto, crostacei e molluschi, ed
è piatto tipico dei pescatori, preparato in barca durante la pesca.
Una
preparazione simile, ma più ricca della busera,
la preparano da sempre anche i pescatori della costa veneta (ed ora anche
numerosi ristoranti), da Grado al delta del Po, ed è il brodetto di pesce, ottenuto anche qui con una base di olio e
cipolla tritata (a Caorle anche aglio) sulla quale vanno disposti i pesci e i
molluschi (in genere scarpene, anguille, seppioline, code di rospo, cappesante
o ancora, specialmente a Chioggia, varagni, scorfani, calamari, pesci San
Pietro, canoce), si insaporiscono di sale, si irrorano poi di abbondante vino
bianco e, verso fine cottura, si aggiunge dell’aceto e, recentemente, anche
della polpa di pomodoro, che tuttavia non si trova a Grado, che segue
scrupolosamente l’antica ricetta dei pescatori altoadriatici.
Ristorante Vecio Fritolin di Venezia |
Le differenze fra le busare e i brodetti non
sono molte, segno che il grande “golfo adriatico” ha unito nel corso del tempo
le diverse tradizioni dei pescatori, che hanno quindi alimentato lungo entrambe
le coste adriatiche analoghe tradizioni cucinarie. Questo rapporto tra le
cucine (ma non solo), consolidatosi nel corso del tempo grazie anche alla
spesso vivificante presenza nelle comunità dell’Istria e della Dalmazia della
cultura veneziana, è patrimonio ancor oggi vivo, nonostante le vicende della
storia che, per l’insipienza degli uomini, in questi ultimi due secoli ha
spesso messo gli uni contro gli altri gli abitanti delle terre bagnate
dall’alto golfo Adriatico. Ma i tempi nuovi, che vedono sventolare anche in
diversi Paesi della vicina Balcania il vessillo azzurro con la corona delle
dodici stelle d’oro, potranno rimarginare le dolorose vicende che ancora
feriscono la memoria storica, facendo riemergere anche quanto di buono e di
valido queste cucine hanno saputo assieme produrre nel corso dei secoli.
Scorfani |
Volendo indagare con più attenzione sulle vicende
alimentari dei Veneti, si trova che la vita nella laguna ha suggerito diverse
altre preparazioni e, fra queste, di particolare interesse è quella nata
attorno ai forni da vetro dell’isola di Murano. Da qui, infatti, deriva il bisato su l’ara, cioè la cottura
dell’anguilla sulle caldissime pietre alla bocca del forno. Mondate ed
eviscerate, le anguille si cuociono intere, se piccole, e a rocchi non
disgiunti, se grandi, sopra delle foglie di verza o foglie d’alloro.
Se sono
grasse non hanno bisogno che di un pizzico di sale e la loro carne risulta
tenerissima e quasi dolce. Poi, come ricordavamo all’inizio, c’è il piatto
delle seppie in técia con il loro
nero, impiegate anche per la preparazione d’uno dei tanti risotti veneziani e
veneti. In tegame si cuociono anche dei pesci di mare, ma questa cottura è
riservata principalmente al pesce d’acqua dolce, l’anguilla, la tinca, la
carpa, il pesce persico.
A Venezia dunque il pesce – le tante varietà
catturate in laguna e in mare dai pescatori - andava preparato nel passato
esclusivamente nei modi indicati: bollito quello grosso; fritto il piccolo; in
saòr le sardelle, le sogliole (celeberrimo il piatto preparato dai pescatori
veneziani per la festa di santa Marta il 29 luglio: gli sfogéti in saòr) e altro pesce minuto; in broéto nelle barche dei pescatori di Caorle, Cortellazzo, Venezia e
Chioggia; sull’ara a Murano, e
successivamente anche a Venezia e in terraferma, sostituendo la bocca del forno
con le braci ardenti di un focolare ed ancora, ma più raramente, in tegame. - gr -