con note sugli altri
radicchi veneti
a cura di Giampiero Rorato
La varietà di radicchio che conosciamo e che sono
ampiamente coltivate nel Veneto, non esistono in natura allo stato selvatico e
derivano dalla cicoria selvatica, selezionate nel corso del tempo per la
produzione di foglie e germogli commestibili. Naturalmente, esiste ancora la
cicoria selvatica che cresce lungo i fossi e negli incolti e la si nota subito
per i suoi bei fiori d’un colore sull’azzurro, ma attualmente non trova più
utilizzazione come alimento umano, amato comunque dagli animali erbivori, come
bovini, ovini e caprini.
È comunque possibile che, come erba selvatica, abbia avuto
un impiego fin dall’antichità, mentre è noto che la selezione delle forme
modernamente coltivate nel Veneto è avvenuta in tempi abbastanza recenti. In
verità sappiamo pochissimo come la cicoria fosse utilizzata nelle epoche
antiche, essendo da sempre molto diffusa negli incolti ed è presumibile che in
quei tempi trovasse utilizzazione alimentare presso le classi meno abbienti.
Nel Medioevo, grazie alla Regola di San Benedetto che
richiedeva ai suoi monaci un’alimentazione moderata, soprattutto a base di
vegetali, ci fu, a cominciare dai monasteri, un crescente consumo di cicoria,
anche se all’esterno dei monasteri tale consumo rimase limitato quasi solo alle
classi povere, che rappresentavano comunque la maggioranza della popolazione.
È interessante notare che gli autori latini e medioevali,
quando citavano la cicoria, la presentavano come un cibo rustico e sano, da
contrapporre alle corrotte mollezze dei cibi raffinati che erano consumati
nelle corti reali o nobiliari.
E a proposito di imbianchimento c’è un importante autore
rinascimentale che merita conoscere: Pier Andrea Mattioli (1501-1578), il
quale, nei Discorsi sull’opera di Dioscoride (la
prima edizione è del 1544), individua una cicoria selvatica (picra)
e una coltivata, che suddivide ulteriormente in due varietà, l'una simile alla
lattuga, l'altra a foglie più strette e amare. Quello che qui ci interessa è
l’accenno del celebre studioso a tecniche di imbianchimento, ottenuto mediante
coperture di sabbia e terra e che testimoniano come questa tecnica si fosse
mantenuta quasi immutata fin dai tempi di Roma antica.
Quasi vent’ani dopo, nel 1561, il primo direttore dell’Orto
Botanico di Padova, Luigi Squalerno, detto l’Anguillara (1512-1570),
probabilmente il più importante botanico del Rinascimento italiano, nella sua
opera, I Semplici, scrive di una cicoria invernale coltivata nel
Veneto, anch'essa da imbianchire. L'origine del radicchio rosso di Treviso può
forse essere fatta risalire a varietà simili a questa, da lui descritta come "a
foglie più larghe della selvatica per la coltura. Questa sorte non è altro che
li radicchi che si seminano negli horti, la selvatica invece è quella che nasce
in campagna... La seconda è la nostra cicoria in bianca, che si mangia al tempo
dell'invernata".
L’interesse dei botanici per le tecniche di conservazione e
imbianchimento delle cicorie continua dunque nel tempo ed anche un canonico
bellunese, Giovan Battista Barpo (1584-1649), autore di un interessante
trattato, intitolato Le delizie dell'Agricoltura e della Villa,
(stampato a Venezia nel 1634), racconta come avveniva ai suoi tempi la
forzatura e l'imbianchimento: "alcuni la trapiantano per averla più
tenera, altri la legano come la lattuga o endivia, per farla bianchissima e
tenera ... col lasciarla sotto la sabbia, o coperta con terra, canne, foglie,
paglia di sarafino, o legata stretta; ma ancora meglio diventerà se verranno
coperti i suoi piedi con piattelli o scodelle fatte apposta poiché, non
respirando e non essendo toccata dall'aria, verrà come neve bianca, e questo
viene stimato per bellissimo segreto".
Il radicchio nel Veneto
Se la cicoria, come erba selvatica, era ed è diffusa in
tutta Europa, è nel Veneto che ha conosciuto la sua esaltazione, diventando una
gloria gastronomica di questa regione, tanto che il radicchio prodotto nel
Veneto ha superato quella che era, in altri tempi, la sua coltivazione ad uso
della famiglia, per assumere nell’ultimo secolo alte caratteristiche
gastronomiche e un notevole valore commerciale.
L’introito economico derivante dal mercati dei centri
urbani in sviluppo ha anche consentito, a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento, una seria sperimentazione sia per le varietà, sia per le
tecniche colturali, che hanno raggiunto l'apice nel Radicchio
rosso tardivo di Treviso, che viene imbianchito con l'uso delle acque
di risorgiva del Sile e di altre risorgive della zona dei fontanili.
La varietà tardiva trevigiana è la più antica tra quelle oggi coltivate e la prima notizia certa risale al1862,
in un articolo apparso ne L'Agricolo, Almanacco
pel 1862 con indicazioni sull'andamento dei bachi e solforazione delle viti
(Anno I, Treviso), in cui si illustrò l'imbianchimento del radicchio. Già
nel 1870 la varietà era nota in tutta Italia e veniva diffusamente
commercializzata; le prime esportazioni verso i mercati esteri si ebbero nel
1884 e la prima mostra-mercato a Treviso, in Piazza dei Signori sotto la Loggia , fu inaugurata nel
1900.
La varietà tardiva trevigiana è la più antica tra quelle oggi coltivate e la prima notizia certa risale al
Secondo una tradizione ormai consolidata e storicamente
documentata, la patria di origine del radicchio rosso e delle relative tecniche
di imbianchimento con l'uso di acqua sorgiva fu Dosson in comune di Casier
(TV).
Il tecnico che più si è adoperato per trasformare il
radicchio del passato nello splendido “fiore che si mangia” è stato l’agronomo
lombardo Giuseppe Benzi, arrivato nel Trevigiano nel 1876 come insegnante
di agraria, poi nominato direttore dell’Associazione Agraria Trevigiana. Grazie
a questo incarico il Benzi diede avvio a numerosi sperimenti in campo per
migliorare questa cicoria di cui si era innamorato. E fu lui a organizzare il 20
dicembre del 1900. sotto la
Loggia in Piazza dei Signori, la Prima Mostra del
Radicchio rosso di Treviso. Un giornale dell’epoca così descrisse il
radicchio rosso trevigiano: “… modesto dapprima, quasi pauroso di cattiva
accoglienza, non usciva dalla provincia se non per ricordare a qualche lontano
amico i dì felici e il patrio nido… e il giovin core: esce oggi a quintali, a
carri, a vagoni interi, penetra in tutte le regioni italiane, supera il mare
arrivando in America; valica l’Alpe giungendo nel cuore dell’Europa.”
Già allora il radicchio rosso era l'ortaggio più importante
del Trevigiano. Come riportano le cronache del tempo, solo a Dosson ne venivano
prodotti oltre 400 quintali l'anno, per l’enorme valore di circa 10.000 lire
dell'epoca; molte famiglie ne traevano redditi di 3-400 lire l'anno, giungendo
a 1500-2000 lire nelle annate eccezionali. I prezzi variavano da 15 a 30 lire al quintale per
la merce comune, fino a 80 lire e più per la migliore. Dopo questo periodo
felicissimo per la produzione e il commercio del radicchio rosso di Treviso ne
seguì un altro meno fortunato e precisamente tra la fine del secondo decennio e
il quarto decennio del ‘900. In quei lunghi anni nei quali aumentò in Italia
anche la povertà, la coltura del radicchio subì un rallentamento e allo scoppio
della seconda guerra mondiale i produttori si erano ridotti a soli 55, per una
produzione complessiva inferiore a 2700 quintali.
Nel corso degli anni 50-60 del secolo scorso la produzione
è decisamente riprese, fino all'attuale produzione di più di 40.000 q l'anno su
una superficie di 550 ha
in continua crescita. L'area di produzione tipica comprende i comuni di
Carbonera, Casale sul Sile, Casier, Istrana, Mogliano Veneto, Morgano, Paese,
Ponzano Veneto, Preganziol, Quinto di Treviso, Silea, Spresiano, Trevignano,
Treviso, Vedelago, Villorba, Zero Branco (TV); Piombino Dese, Trebaseleghe (PD;
Martellago, Mirano, Noale, Salzano, Scorzè (VE).
È ormai assodato che il Radicchio rosso di
Treviso è alla base di tutte
le altre varietà di radicchio coltivate nel Veneto. Attualmente, le produzioni
venete tutelate dall'Indicazione geografica protetta comprendono il Radicchio rosso di
Treviso, il Radicchio
variegato di Castelfranco,
il Radicchio rosso di
Chioggia, il Radicchio rosso di
Verona mentre sono
classificati come Prodotti agroalimentari tradizionali il Radicchio
bianco Fior di Maserà, il Radicchio bianco o variegato di Lusia,
e il Radicchio variegato bianco di Bassano, oltre alla Catalogna
gigante di Chioggia.
Il Radicchio variegato di Castelfranco deriva probabilmente dall'ibridazione tra il Rosso di Treviso e l'indivia scarola a foglie di lattuga (Cichorium endivia) e la sua area di coltivazione ricalca in buona parte quella del Radicchio rosso di Treviso, comprendendo anche zone al di fuori della fascia delle risorgive come il comune di Mira (VE). L'imbianchimento è obbligatorio, ma si attua con tecniche leggermente diverse rispetto al più nobile cugino. Il Radicchio rosso di Chioggia (foto sotto) deriva dal Variegato di Castelfranco. Venne selezionato tra gli anni '30 e i '50 del Novecento per ottenere un arrossamento più marcato e una più facile coltivazione nei comuni lagunari. È attualmente la varietà di radicchio più coltivata e consumata in Italia, anche se il disciplinare I.G.P. ne prescrive la coltivazione nei soli comuni di Chioggia, Cona e Cavarzere (VE).
Il Radicchio variegato di Castelfranco deriva probabilmente dall'ibridazione tra il Rosso di Treviso e l'indivia scarola a foglie di lattuga (Cichorium endivia) e la sua area di coltivazione ricalca in buona parte quella del Radicchio rosso di Treviso, comprendendo anche zone al di fuori della fascia delle risorgive come il comune di Mira (VE). L'imbianchimento è obbligatorio, ma si attua con tecniche leggermente diverse rispetto al più nobile cugino. Il Radicchio rosso di Chioggia (foto sotto) deriva dal Variegato di Castelfranco. Venne selezionato tra gli anni '30 e i '50 del Novecento per ottenere un arrossamento più marcato e una più facile coltivazione nei comuni lagunari. È attualmente la varietà di radicchio più coltivata e consumata in Italia, anche se il disciplinare I.G.P. ne prescrive la coltivazione nei soli comuni di Chioggia, Cona e Cavarzere (VE).
Il Radicchio rosso di Verona è stato selezionato alla fine degli anni '50 del secolo scorso, direttamente dal Radicchio rosso di Treviso ed è coltivato in molti comuni della provincia scaligera, con alcune zone limitrofe del Vicentino e del Padovano.
Due altre varietà derivano da selezioni locali del Radicchio
variegato di Castelfranco; il Radicchio variegato di Maserà,
coltivato nei Comuni di Borgoricco, Camposampiero, Loreggia, Maserà,
Massanzago, Piombino Dese e Trebaseleghe (PD), e il Radicchio
variegato di Lusia, coltivato nei dintorni del comune polesano.
Tornando nel Trevigiano (Roncade e aree limitrofe) c’è un
radicchio primaverile di straordinario interesse, il Radicio verdon da
cortel, dall’aspetto di rosellina di un bel color verde carico, gustosa
e croccante. È ottimo col celebre piatto veneto dei “radici e fasjoi”.
Concludo questa ampia presentazione del radicchio coltivato
con i due gioielli goriziani: il Rosa di Gorizia e il Canarino,
entrambi ecotipi di Cichorium intybus. Il primo deve il suo nome
alla peculiare forma a bocciolo di rosa del cespo, il secondo al colore giallo
chiaro delle foglie. Si tratta di ecotipi selezionati nel corso del tempo dai
contadini di Gorizia e si presume che derivino dal radicchio importato dal
Veneto e più precisamente dal Trevigiano agli inizi dell’Ottocento e
successivamente adattato alle condizioni ed esigenze locali.