racconto
di Giampiero Rorato
I cavalli correvano a branchi per l’ampia distesa,
fermandosi di quando in quando a bere e
a rispecchiarsi agli acquitrini fiancheggianti l’Eridano. Erano cavalli di
media statura, forse poco eleganti ma velocissimi, i più veloci di tutto il
Mediterraneo. La loro fama correva di bocca in bocca in tutta la grande pianura
e giù per la penisola, oltrepassando i monti e i mari, tanto da incantare
Omero, il vate dei tempi antichi. E il cantore di Ettore e Ulisse non fu il
solo a celebrarli; anche Alcmane, Pindaro ed Euripide conoscevano la fama che
accompagnava questa razza tutta speciale di quadrupedi arrivata secoli prima
dalla Paflagonia con Antenore e i Veneti in fuga da Troia in fiamme, una razza
che si conservò inalterata per secoli, importata poi perfino in Sicilia da
Dionisio e ricordata anche da Strabone, pure lui ammirato della loro straordinaria
velocità. Ce n’erano dappertutto, da Adria ad Altino, da Opitergio a Este, da
Equilio a Padova: tutta la pianura sentiva il rombo frenetico del loro
galoppare quando, criniere e code al vento, correvano per le radure o lungo le
sponde dei fiumi.
Vicino all’Eridano, il grande fiume che cingeva a sud
la terra dei Veneti, numerosi branchi vivevano bradi nella piana disboscata e
diversi esemplari erano stati anche domesticati. Un giorno, dal villaggio
lambito dal fiume ove abili artigiani lavoravano da tempi immemorabili l’ambra
che arrivava dai paesi settentrionali, un giovane cavaliere volle seguire la
corrente del fiume per scoprire cosa c’era più in là.
Dove finisce il fiume c’è il grande mare dal quale
provengono le navi dei Greci, gli dicevano gli anziani, ma lui voleva vederlo
quel mare, così come voleva sapere
quello che c’era fra il suo villaggio e il mare. Il giovane aveva ascoltato tante
volte le storie raccontate dai vecchi del suo villaggio e soprattutto quella,
spesso ripetuta, del lungo viaggio compiuto dai suoi antenati partiti da una
città che un esercito nemico aveva bruciato e raso al suolo e che dopo mille
avventure erano sbarcati alle foci del Timavo. Da lì comincia la nostra storia
in questa terra pacifica, dicevano gli anziani, e lui voleva conoscerla, non
pago della vita del suo villaggio sperso nella pianura.
Un mattino partì in groppa al suo piccolo e veloce
destriero guardando il sole che usciva allora dalla selva, correndo nell’aria
fresca che gli accarezzava il volto. Non ci volle molto perché incontrasse un
paesaggio diverso. Il fiume s’era fatto ancora più largo, il bosco si
allontanava dalle rive, i cavalli correvano liberi nell’erba umida della piana,
confondendosi poi con gli arbusti presso la selva. All’improvviso scorse un
vecchio fermo ai piedi d’una lunga fila di pioppi che ombreggiavano il fiume.
Fermati, pareva dire quell’uomo dalla lunga barba, mostrando alto il palmo
d’una mano tremula, fermati e ascolta. E il giovane si fermò.
«Ascolta - disse allora il vecchio alzando la voce. -
Qui non passa mai nessuno, ma ho giurato a questi alberi prima che Giove li
facesse tali che avrei fatto conoscere al mondo la loro triste ventura.»
«Ti ascolto, vecchio», rispose il giovane incuriosito.
Scese allora da cavallo e si accucciò ai piedi del vegliardo, lasciando il
destriero libero di pascolare ai margini del fiume.
E quegli cominciò un storia che andava prendendo
sempre più l’interesse del giovane: era un racconto ricco di nomi sconosciuti,
di fatti mai prima sentiti, di vicende che riguardavano più gli dei che gli
umani.
«Narrano antiche storie, tanto care a Esiodo, a
Euripide, a Omero, a Parmenide che ce le tramandarono perché non venissero
inghiottite dall’oblio del tempo - cominciò a dire il vecchio con una solennità
e una lentezza che quasi impaurirono il ragazzo - che un giorno di molti anni
fa Epafo, incontrando per le strade della Grecia il giovane Fetonte, sentì un
improvviso rossore avvampargli il volto, mosso da grande invidia per la
bellezza dell’amico e più ancora per le fantastiche storie che si raccontavano
di lui. E, spinto da un insano desiderio di umiliarlo, mise pubblicamente in
dubbio la sua paternità solare. Fetonte era orgoglioso dei suoi genitori, Elio
e Merope, e non poteva accettare simile offesa. Conosceva le sue origini
divine, doveva per forza essere figlio del Sole, altrimenti anni prima
Afrodite, quando regnava su Pafo, non l’avrebbe rapito per averlo vicino, col
pretesto di farlo guardiano notturno dei suoi santuari. Di Afrodite aveva un
dolcissimo ricordo: nelle lunghe notti di veglia trascorse a Pafo, quella
splendida dea aveva avuto con lui teneri atteggiamenti materni e, allo stesso
tempo, congiungendosi a lui nelle notti illuni, gli era andata rivelando il
mondo ultraterreno, introducendolo ai misteri della vita. Afrodite, pur sposa
di Efesto e amante di Ares, aveva vissuto intensamente l’avventura col giovane
figlio di Elio, invaghita di quel corpo perfetto, degno di posare per Fidia. E
quando un giorno la dea era stata richiamata dal marito, anche Fetonte era
tornato fra i suoi, portando con sé l’incanto di quelle notti che si prolungava
nella languida luce dei suoi occhi cerulei. E non era più lui, come se sentisse
di continuo la calda voce di Afrodite ch’era un richiamo verso i mondi
misteriosi che sono al di là della vita. No, la meschina offesa di Epafo non
l’accettava proprio. La madre gli suggerì allora il modo di mostrare a tutti
quale fosse la sua progenie, chiedendo a Elio la grazia che più gli piaceva:
essendo egli davvero suo padre non gliel’avrebbe infatti rifiutata.
Fetonte covava da molto un segreto desiderio e colse
al volo l’opportunità che gli veniva offerta e domandò al padre di poter salire
sul carro solare. Pur titubante per una richiesta così azzardata, Elio non poté
rifiutare: Fetonte era suo figlio, avrebbe di certo seguito i suoi consigli e
sarebbe riuscito a governare con perizia i cavalli alati. Il viaggio fu
preparato con la collaborazione delle sorelle Eliadi che si prodigarono in
mille raccomandazioni, ma quando un mattino il giovane salì sul carro di fuoco,
i cavalli sentirono subito d’essere guidati da mani inesperte e si
imbizzarrirono, precipitandosi in folli corse per le strade del cielo, finché
il carro si rovesciò e Fetonte cadde nell’Eridano, inghiottito dai flutti del
grande fiume. Le Eliadi subito accorse invano lo cercarono per giorni: il suo
corpo era stretto nell’abbraccio d’Eridano e allora piansero disperate la morte
dell’amato fratello. Zeus, mosso a compassione da quel pianto che saliva fino
al cielo, trasformò le Eliadi in alti pioppi rimasti a vegliare il fratello
affogato nelle acque del Po e le loro lacrime divennero luminosi chicchi
d’ambra. Questi pioppi - diceva il vecchio mentre li indicava con la mano -
hanno resistito millenni alla furia dei venti, alle esondazioni del fiume e del
mare, agli sconvolgimenti della terra e ancor oggi li vedi svettare alti e
solenni lungo le sponde dell’Eridano, in questo luogo chiamato Crespino, a
perenne ricordo delle onde increspate del grande fiume, testimoni e
protagoniste di quell’antica tragedia.»
Il racconto s’interruppe e il giovane cavaliere alzò
lo sguardo su quella lunga fila di pioppi, con gli occhi umidi di pianto.
«Ma la storia non termina qui - riprese il vecchio
dopo una sosta - perché le lacrime delle Eliadi, trasformate dagli dei in gocce
d’ambra, fecero accorrere alle foci del Po, dalle cui acque spesso melmose sono
sorte fra le braccia frastagliate del delta le isole Elettridi, innumeri navi
greche a caricare l’élekton, proprio queste gocce che la gente d’un villaggio
non lontano da qui lavora con grande bravura, per farle diventare ornamenti
delle donne di Atene e ancor più delle dee dell’Olimpo.»
Il vecchio s’acquietò un istante ma riprese ben presto
il suo dire per ricordare al giovane straniero che gli stava di fronte come in
tutto il Mediterraneo e soprattutto in Grecia, da Corinto ad Alicarnasso, si
pianse allora la morte del figlio del Sole, aggiungendo che essa è
d’ammonimento a tutti i mortali, perché non dimentichino che la vita è breve e
fragile come un soffio di vento e neppure i figli degli dei vi si possono
sottrarre.
Poi abbassò il capo sulle ginocchia, come esausto dal
lungo racconto e il giovane rimase a guardarlo attonito, mentre alle sue spalle
quegli alti pioppi si cullavano maestosi alla brezza del mattino. Dopo un po’
risalì a cavallo ma non si diresse al mare, preferendo tornare al suo
villaggio.
Vengono davvero quelle navi e il mio villaggio ne è
testimone; è da noi che si lavora l’ambra, diceva fra sé, cercando di collegare
il lavoro della sua gente alla lontana caduta di Fetonte.
Il tempo, nel suo lento incedere, ha pian piano
ricoperto di terra quell’antico villaggio, tornato alla luce tremila anni dopo
presso Fratta Polesine, dove gli antenati dei Veneti lavoravano e commerciavano
ambra e metalli provenienti dalle fredde terre settentrionali e ancora pasta
vitrea dai vivissimi colori, di origine mediterranea. Dalle viscere della terra
sono emersi i frutti di quel lavoro artigianale già finissimo; ceramica e avori
testimoniano gli stretti rapporti con le lontane popolazioni micenee, che qui
venivano ad acquistare i tanti oggetti che uscivano dalle abili mani degli
artigiani.
Il villaggio sorgeva sulle sponde del grande fiume,
facilmente raggiungibile dal mare e dalla vasta pianura del Po. Poi, come il
delta si andava spingendo via via nell’Adriatico, il centro dei commerci passò
ad Adria che, a partire dal VI secolo, divenne porto frequentatissimo da navi
greche ed etrusche e dai viaggiatori che percorrevano da una parte all’altra il
continente europeo. Adria fu allora città cosmopolita, crocevia dei grande percorsi
europei e mediterranei, luogo di incontri, di scambi e di integrazione fra
genti diverse. Le navi correvano veloci dall’Adriatico all’Egeo, fra Adria ed
Egina e proprio ad Adria i mercanti greci costituirono uno dei loro fondachi
più importanti, collegato sia ad Altino che, più tardi, a Spira.
Tremila anni dopo, sciami di turisti passano veloci
per quelle terre piatte dall’orizzonte lontano, interrotto solo da lunghe file
di pioppi venerandi, e alcuni si dirigono oltre i monti di sabbia verso le sacche
e gli scanni in fondo al delta, lì dove le acque del Po si confondono con
quelle dell’Adriatico. Se ne vanno nelle quasi invisibili e minuscole lame si
sabbia, lontane dal mondo abitato, nelle nascoste insenature che accolgono le
barche dei turisti e nelle isole golenali e lagunari, a Boccasette, a
Barricata, a Bastimento, intorno alla Sacca di Scardovari, guardando le
palafitte dei pescatori e i tanti allevamenti di mitili che affondano
nell’acqua tepida le loro calze ripiene. A volte si spingono in mare puntando al largo con le
loro veloci barche da pesca, ritornando magari con uno dei grossi tonni che
indugiano in branco a metà del golfo adriatico, fra il delta del grande fiume e
il Quarnaro. Oppure, mentre il sole estivo abbronza la loro pelle, guardano in
lontananza il faro di Pila e le navi che salgono l’Adriatico verso Venezia,
verso Trieste. Alcuni di loro sanno delle antiche navi greche che risalivano il
fiume e sono stati a vedere la bella piazza che Crespino ha dedicato al giovane
eroe che aveva perso la sfida con i cavalli del Sole. Storie antiche e nuove
s’intrecciano lievi in quella terra silente e quelle antiche sono più ricche e
affascinanti delle moderne, raccontando di uomini coraggiosi che correvano
impavidi sui loro fragili vascelli per le rotte adriatiche e mediterranee e non
temevano di misurarsi con gli dei e le forze avverse d’una natura spesso
nemica, mossi dalla voglia di conoscere e conquistare il mondo.
Altri tempi, altre vicende, ma sempre in quella terra
meravigliosa che s’insinua e quasi corrode l’alto golfo adriatico, dove si sono
incrociati i destini degli uomini e degli dei, una terra dagli orizzonti
sconfinati, da sempre legata all’Adriatico, al Mediterraneo e all’Oriente,
scrigno prezioso e discreto di civiltà, immersa e quasi inghiottita nei vasti
acquitrini del Delta, ove la gente, come canta Giovanna Modonesi, continua a
fermarsi incantata
A vardar el
sole
alvarse su da
Po bonora
lu, ostia del
Signore
su ’n’altare
d’acqua corentiva
a in sul
calar dla sira
dosfarse in
spala a la risara sfogonà.