martedì 2 agosto 2016

Il vino Marsala

Affascinante storia di un gioiello enologico italiano
di Giampiero Rorato
(pubblicato nella rivista QUOTIDIE MAGAZINE, luglio 2016)

Grandi botti per l'invecchiamento del Marsala




Tutti coloro che in Italia come all’estero conoscono il vino sanno che il Marsala è uno dei più raffinati e preziosi gioielli dell’enologia italiana e internazionale, uno dei vini più stimati al mondo, unico per la sua lunga storia, per le splendide caratteristiche organolettiche, per le tante emozioni che regala e per la sua straordinaria versatilità anche in cucina.
Non è un vino come gli altri, frutto dell’uva trasformata in mosto fermentato, essendo non solo il risultato di un’evoluzione naturale del succo d’uva, poiché interviene in modo deciso anche l’uomo con dei sapienti apporti tecnici, affinatisi nel corso del tempo, che ne hanno determinato la natura e le caratteristiche che oggi conosciamo.


Il porto di Marsala verso il 1850
Le origini

Per conoscere la storia del vino Marsala dobbiamo andare indietro di quasi due secoli e mezzo, al fortuito cambiamento di rotta del bastimento d’un commerciante di Liverpool, John Woodhouse, che scendeva in Sicilia per acquistare ceneri di soda, impiegate in Inghilterra sia per preparare sapone e vetro che per usi farmacologici.

Correva l’anno 1773 e poco prima di giungere alla meta, il porto di Mazara del Vallo, la sua nave, l’Elisabeth, incappò in una brutta tempesta di mare, costringendo il signor Woodhouse a trovare velocemente rifugio nel porto di Marsala.

In attesa di poter riprendere il mare, trovò ospitalità in una taverna cittadina, dove ordinò qualcosa da mangiare e qualche bicchiere del vino migliore e gli fu versato il “perpetuum”, che affascinò il mercante inglese.

Woodhouse, che già conosceva il Madera e il Porto, considerò quel vino ottimo per le mense e i salotti più esclusivi del suo Paese e decise di acquistarne 50 pipe (botti inglesi di diversa capacità: 384, 412 e 573,6 litri) e mandarle in Inghilterra, dopo aver arricchito quel vino con dell’acquavite perché non si rovinasse durante il viaggio, come già si faceva con il vino del Portogallo.

Il busto di John Woodhouse


Una volta giunto in Inghilterra, il vino di Marsala fu accolto con grande interesse dalla ricca borghesia dell’isola, tanto che John Woodhouse pensò di stabilirsi a Marsala e continuare ad acquistarne e a mandalo a Londra e a Liverpool.

Comprese poi subito che per realizzare questo ambizioso progetto commerciale doveva compiere idonei investimenti, acquistare il vino appena prodotto dai contadini delle campagne attorno alla città e costruire propri stabilimenti dove elaborarlo, impiegando inoltre ingenti capitali per rendere il porto di Marsala idoneo ad ospitare e caricare le navi.

Ed è così che, a seguito di una tempesta di mare, nel 1773 nacque il vino Marsala, molto apprezzato anche dall’ammiraglio Nelson che lo volle sempre nella cambusa delle sue navi considerandolo “degno della mensa di qualsiasi gentiluomo”.

“A quel tempo – scrive Tommaso Giacalone Monaco ne La politica del vino Marsala, Venezia, 1938 – la coltivazione della vite era poco estesa, i contadini erano molto poveri e preferivano curare gli ulivi e il sommaco. Woodhouse non si impressionò per questo: anticipò capitali e favorì in ogni modo lo sviluppo dell’impianto dei vigneti, ma al contempo chiese ai contadini di riservargli tutto il raccolto.”

 E, da allora l’Elisabeth, il bastimento di Woodhouse, fece per lunghi anni la spola fra Marsala, Malta, Londra e Liverpool e finalmente concluse la propria onorata carriera ormeggiato nel porto di Marsala,  come fosse un monumento ai rapporti enoici tra Marsala e l’Inghilterra.

Il veliero Elisabeth


Visto il successo dell’impresa e, soprattutto, l’alto gradimento degli inglesi, altri imprenditori scesero in Sicilia decisi a realizzare delle cantine per produrre il Marsala e poi diffonderlo nel mondo e la storia ricorda, fra gli altri. Corlett, Wood, Payne, Hoppes.e, soprattutto, Benjamin Ingham che giunse a Marsala nel 1806 e, assieme al nipote Joseph Whitaker, si impegno ad ammodernare le tecniche di produzione al fine di ottenere un vino da esportare con successo in ogni parte del mondo.

Bisogna attendere il 1832 perché anche un italiano si inserisca da protagonista nel mercato di questo straordinario vino: è Vincenzo Florio, rampollo d’una ricca famiglia di Palermo con origini calabresi.

Innanzi tutto il Florio costruì uno stabilimento tra quelli dei Woodhouse, che avevano pressoché l’esclusiva del mercato inglese e nordeuropeo e degli Ingham che dominavano il mercato americano, scegliendo di rivolgersi soprattutto al mercato italiano.

Vincenzo Florio e il figlio Ignazio dedicarono ogni loro energia alla nuova attività che divenne sempre più florida e nella seconda metà dell’800 ammodernarono la loro azienda e realizzarono il primo impianto di imbottigliamento, ancor prima degli  imprenditori inglesi, conquistando in tal modo nuovi mercati.

Grazie alle innovazioni apportate da Vincenzo e Ignazio Florio il mercato del Marsala fece gola ad altri imprenditori e così nacquero altre aziende produttrici. Tra le più antiche ricordiamo quella di Don Diego Rallo (1860), di Vito Curatolo Arini (1875) e la Carlo Pellegrino (1880). Nel 1900 se ne contavano circa 40. Molte di esse sono ancora attive e delle altre rimangono le tracce negli edifici e nei bagli sparsi per la città.

Nel vecchio baglio Carlo Alberto Anselmi ha attualmente sede il Museo Archeologico mentre gli stabilimenti dei Woodhouse, degli Ingham e dei Florio sono tutt’ora visibili percorrendo il lungomare Boeo, appena fuori dal centro storico.

La rivoluzione di Benjamin Ingham

John Woodhouse s’era limitato a estendere fin nel Palermitano, a Mazara del Vallo e ad Alcamo la produzione delle uve locali, dai vitigni Catarratti, Grillo, Inzolia (Anzonica), Damaschino (bianchi) e Pignatello (Perricone), Calabrese (Nero d’Avola), Nerello mascalese (rossi), aggiungendo poi al vino dello spirito (acquavite) per alzarne la gradazione, senza tuttavia modificarne le tecniche produttive.

Fu Benjamin Ingham che, per primo, dopo aver conosciuto i vitigni, le uve e le tecniche tradizionali di allevamento delle viti e di produzione del vino ritenne fondamentale un loro profondo rinnovamento per valorizzare al meglio lo splendido vino tanto amato dagli inglesi.

Operai addetti ad un antico torchio Marsala


E dettò allora un decalogo ancor oggi di piena attualità, nel quale affermava che le uve dovevano essere vendemmiate quando erano perfettamente mature, che i grappoli devono essere ripuliti dagli acini non perfetti, liberandoli da stele e foglie; di separare la pigiature delle uve bianche da quella delle uve nere; il mosto non doveva assolutamente fermentare nei palmenti; la fermentazione di un mosto nei diversi contenitori doveva essere omogenea ed uguale e non troppo violenta, ma regolare e tutto gli acini dovevano risultare pestati; non si doveva  mescolare il mosco con il ricavato dal torchiato; tutti gli attrezzi dovevano essere ben lavati ogni sera e, infine, si doveva badare a che non uscisse la schiuma in fase di fermentazione del mosto.


Fu grazie alle regole dettate da Benjamin Ingham che fin dalla metà dell’Ottocento il vino Marsala venne considerato il miglior vino d’Italia e uno dei migliori del mondo, ulteriormente migliorato e affinato dai grandi produttori italiani, fra i quali Florio, Rallo e Pellegrino che hanno notevolmente contribuito a consolidarne la produzione secondo regole ottimali e a lanciarlo nel mondo come uno dei più splendidi prodotti dell’enologia internazionale.
(segue un secondo articolo sulle varie tipologie del Marsala)


Ringrazio per la preziosa collaborazione la prof.ssa Antonella Benventre Cassata, Delegata dell’Accademia Italiana della Cucina di Marsala e il prof. Nicola Trapani dell’Università di Palermo