Affascinante storia di un gioiello enologico italiano
di Giampiero Rorato
(pubblicato
nella rivista QUOTIDIE MAGAZINE, luglio 2016)
Grandi botti per l'invecchiamento del Marsala |
Tutti
coloro che in Italia come all’estero conoscono il vino sanno che il Marsala è
uno dei più raffinati e preziosi gioielli dell’enologia italiana e
internazionale, uno dei vini più stimati al mondo, unico per la sua lunga
storia, per le splendide caratteristiche organolettiche, per le tante emozioni
che regala e per la sua straordinaria versatilità anche in cucina.
Non
è un vino come gli altri, frutto dell’uva trasformata in mosto fermentato,
essendo non solo il risultato di un’evoluzione naturale del succo d’uva, poiché
interviene in modo deciso anche l’uomo con dei sapienti apporti tecnici,
affinatisi nel corso del tempo, che ne hanno determinato la natura e le
caratteristiche che oggi conosciamo.
Il porto di Marsala verso il 1850 |
Le origini
Per
conoscere la storia del vino Marsala dobbiamo andare indietro di quasi due
secoli e mezzo, al fortuito cambiamento di rotta del bastimento d’un
commerciante di Liverpool, John
Woodhouse, che scendeva in Sicilia per acquistare ceneri di soda, impiegate
in Inghilterra sia per preparare sapone e vetro che per usi farmacologici.
Correva
l’anno 1773 e poco prima di giungere alla meta, il porto di Mazara del Vallo,
la sua nave, l’Elisabeth, incappò in una brutta tempesta di mare, costringendo
il signor Woodhouse a trovare velocemente rifugio nel porto di Marsala.
In
attesa di poter riprendere il mare, trovò ospitalità in una taverna cittadina,
dove ordinò qualcosa da mangiare e qualche bicchiere del vino migliore e gli fu
versato il “perpetuum”, che
affascinò il mercante inglese.
Woodhouse,
che già conosceva il Madera e il Porto, considerò quel vino ottimo per le mense
e i salotti più esclusivi del suo Paese e decise di acquistarne 50 pipe (botti
inglesi di diversa capacità: 384, 412 e 573,6 litri ) e mandarle
in Inghilterra, dopo aver arricchito quel vino con dell’acquavite perché non si
rovinasse durante il viaggio, come già si faceva con il vino del Portogallo.
Il busto di John Woodhouse |
Una
volta giunto in Inghilterra, il vino di Marsala fu accolto con grande interesse
dalla ricca borghesia dell’isola, tanto che John Woodhouse pensò di stabilirsi
a Marsala e continuare ad acquistarne e a mandalo a Londra e a Liverpool.
Comprese
poi subito che per realizzare questo ambizioso progetto commerciale doveva
compiere idonei investimenti, acquistare il vino appena prodotto dai contadini
delle campagne attorno alla città e costruire propri stabilimenti dove
elaborarlo, impiegando inoltre ingenti capitali per rendere il porto di Marsala
idoneo ad ospitare e caricare le navi.
Ed
è così che, a seguito di una tempesta di mare, nel 1773 nacque il vino Marsala,
molto apprezzato anche dall’ammiraglio Nelson che lo volle sempre nella cambusa
delle sue navi considerandolo “degno della mensa di qualsiasi gentiluomo”.
“A
quel tempo – scrive Tommaso Giacalone Monaco ne La politica del vino Marsala,
Venezia, 1938 – la coltivazione della vite era poco estesa, i contadini erano
molto poveri e preferivano curare gli ulivi e il sommaco. Woodhouse non si
impressionò per questo: anticipò capitali e favorì in ogni modo lo sviluppo
dell’impianto dei vigneti, ma al contempo chiese ai contadini di riservargli
tutto il raccolto.”
E, da allora l’Elisabeth, il bastimento
di Woodhouse, fece per lunghi anni la spola fra Marsala, Malta, Londra e Liverpool e finalmente concluse la propria
onorata carriera ormeggiato nel porto di Marsala, come fosse un monumento ai rapporti enoici
tra Marsala e l’Inghilterra.
Il veliero Elisabeth |
Visto
il successo dell’impresa e, soprattutto, l’alto gradimento degli inglesi, altri
imprenditori scesero in Sicilia decisi a realizzare delle cantine per produrre
il Marsala e poi diffonderlo nel mondo e la storia ricorda, fra gli altri. Corlett, Wood,
Payne, Hoppes.e, soprattutto, Benjamin Ingham che giunse a Marsala
nel 1806 e, assieme al nipote Joseph
Whitaker, si impegno ad ammodernare le tecniche di produzione al fine di
ottenere un vino da esportare con successo in ogni parte del mondo.
Bisogna attendere il 1832 perché anche un italiano si inserisca da
protagonista nel mercato di questo straordinario vino: è Vincenzo Florio, rampollo d’una ricca famiglia di Palermo con
origini calabresi.
Innanzi tutto il Florio costruì uno stabilimento tra quelli dei Woodhouse, che avevano pressoché l’esclusiva del
mercato inglese e nordeuropeo e degli Ingham che dominavano il mercato
americano, scegliendo di rivolgersi soprattutto al mercato italiano.
Vincenzo
Florio e il figlio Ignazio
dedicarono ogni loro energia alla nuova attività che divenne sempre più florida
e nella seconda metà dell’800 ammodernarono la loro azienda e realizzarono il
primo impianto di imbottigliamento, ancor prima degli imprenditori inglesi, conquistando in tal
modo nuovi mercati.
Grazie
alle innovazioni apportate da Vincenzo e
Ignazio Florio il mercato del Marsala fece gola ad altri imprenditori e
così nacquero altre aziende produttrici. Tra le più antiche ricordiamo quella
di Don Diego Rallo (1860), di Vito Curatolo Arini (1875) e la Carlo Pellegrino (1880). Nel 1900 se ne contavano
circa 40. Molte di esse sono ancora attive e delle altre rimangono le tracce
negli edifici e nei bagli sparsi per la città.
Nel
vecchio baglio Carlo Alberto Anselmi ha attualmente sede il Museo Archeologico mentre gli
stabilimenti dei Woodhouse, degli Ingham e dei Florio sono tutt’ora visibili
percorrendo il lungomare Boeo, appena fuori dal centro storico.
La rivoluzione di Benjamin
Ingham
John Woodhouse s’era limitato a estendere fin nel Palermitano, a
Mazara del Vallo e ad Alcamo la produzione delle uve locali, dai vitigni Catarratti, Grillo, Inzolia (Anzonica),
Damaschino (bianchi) e Pignatello
(Perricone), Calabrese (Nero d’Avola), Nerello mascalese (rossi),
aggiungendo poi al vino dello spirito (acquavite) per alzarne la gradazione,
senza tuttavia modificarne le tecniche produttive.
Fu
Benjamin Ingham che, per primo, dopo
aver conosciuto i vitigni, le uve e le tecniche tradizionali di allevamento
delle viti e di produzione del vino ritenne fondamentale un loro profondo
rinnovamento per valorizzare al meglio lo splendido vino tanto amato dagli
inglesi.
Operai addetti ad un antico torchio Marsala |
E
dettò allora un decalogo ancor oggi di piena attualità, nel quale affermava che
le uve dovevano essere vendemmiate quando erano perfettamente mature, che i
grappoli devono essere ripuliti dagli acini non perfetti, liberandoli da stele
e foglie; di separare la pigiature delle uve bianche da quella delle uve nere;
il mosto non doveva assolutamente fermentare nei palmenti; la fermentazione di
un mosto nei diversi contenitori doveva essere omogenea ed uguale e non troppo
violenta, ma regolare e tutto gli acini dovevano risultare pestati; non si
doveva mescolare il mosco con il
ricavato dal torchiato; tutti gli attrezzi dovevano essere ben lavati ogni sera
e, infine, si doveva badare a che non uscisse la schiuma in fase di
fermentazione del mosto.
Fu
grazie alle regole dettate da Benjamin Ingham che fin dalla metà dell’Ottocento
il vino Marsala venne considerato il miglior vino d’Italia e uno dei
migliori del mondo, ulteriormente migliorato e affinato dai grandi produttori
italiani, fra i quali Florio, Rallo e
Pellegrino che hanno notevolmente contribuito a consolidarne la produzione
secondo regole ottimali e a lanciarlo nel mondo come uno dei più splendidi
prodotti dell’enologia internazionale.
(segue un secondo articolo
sulle varie tipologie del Marsala)
Ringrazio per la preziosa collaborazione la
prof.ssa Antonella Benventre Cassata, Delegata dell’Accademia Italiana della
Cucina di Marsala e il prof. Nicola Trapani dell’Università di Palermo