martedì 30 gennaio 2024

 

TradizioniI cjarsons, il piatto che racconta la Carnia

Storia e geografia della tipica pasta ripiena friulana dei giorni di festa, a base di erbe spontanee, patate, uvetta e cannella. Ogni vallata ha la sua versione, diversa per dimensioni e ingredienti

Al turista curioso che segue itinerari mai prima percorsi, può capitare di trovarsi in luoghi del tutto sconosciuti, dove gli abitanti del posto parlano fra loro una lingua di difficile comprensione. La Carnia, comparto montano del Friuli, è uno di questi luoghi, bellissimo eppure poco conosciuto dagli italiani che fino a poco tempo fa, cioè fino al diffondersi della pandemia non ancora debellata, sognavano per le loro vacanze i Caraibi, Copacabana, l’isola di Bali, le Seychelles, la Thailandia o, più recentemente Dubai, invece di una qualche località italiana. La Carnia si trova all’estremo nord dell’Italia, confina con l’Austria ed è più conosciuta da austriaci e tedeschi che dagli italiani. Questa mini regione dolomitica appartenente al Friuli Venezia Giulia, dove si trovano ristoranti meritatamente famosi con il Laite a Sappada, aziende agroalimentari come il Prosciuttificio Wolf a Sauris, artigiani d’alta qualità come la Carnica Arte Tessile a Villa Santina, borghi pittoreschi come Pesarijs, montagne conosciute nel mondo come lo Zoncolan, caro agli amanti del ciclismo d’ogni continente. E chi arriva per caso o, più spesso, per scelta e si ferma in qualche ristorante, trattoria o rifugio montano, trova ovunque un piatto che c’è solo in questi luoghi: i cjarsons (si pronuncia anche chiarsons e la pronuncia varia da valle a valle).
In questo territorio geografico che ha come capoluogo Tolmezzo, oltre alla Val Tagliamento, formata dal tratto iniziale dell’omonimo fiume che l’attraversa tutta da ovest ad est, ci sono altre tre grandi valli: Valle del But, o Canale di San Pietro; Val Degano o Canale del Gorto; Val Chiarsò o Canale di Incarojo o Val di Paularo. Poi ci sono quattro valli minori: Val Calda, Val Pesarina, Val Lumiei e Val Pontalba. Ho citato con diligenza certosina tutte le valli della Carnia, ciascuna delle quali è caratterizzata da un fiume – il Tagliamento e i suoi sette affluenti – e sono valli i cui abitanti parlano dialetti fra loro diversi, poiché per secoli e sicuramente fino a tutto l’Ottocento, con i lunghi inverni freddi e nevosi, i rapporti tra valle e valle e anche con Tolmezzo e il capoluogo del Friuli, Udine, erano molto difficili e quindi rari, solo se obbligati. Per secoli i matrimoni avvenivano fra persone della stessa valle e così le tradizioni anche gastronomiche si sono conservate intatte fin quasi ai nostri giorni, come si vede visitando il museo delle Arti popolari di Tolmezzo. La storia di questa terra inizia con la presenza umana nel Paleolitico, documentata a partire del 400 a.C. quando vi arrivarono i Celti, detti poi Gallocarni, che nel 186 a.C., in circa 12 mila tra uomini armati, donne e bambini, scesero verso le zone pianeggianti che utilizzavano per svernare e fondarono su un colle un insediamento fortificato stabile, Akileja, costringendo i Romani a dedurre cinque anni dopo la colonia di Aquileia.

Questi brevi cenni per far capire che la Carnia ha storia lunga, complessa e interessante e gli abitanti, rimasti poi rinchiusi nelle loro valli, dapprima dai Romani, poi dai Longobardi e da altri invasori, quindi anche dalla difficoltà di scendere in pianura e dall’abitudine di vivere in tranquillo isolamento, elaborarono in ogni valle un proprio stile di vita, un proprio linguaggio e una propria cucina, basata soprattutto sugli scarsi prodotti del territorio elaborati nel corso del tempo fino agli ultimi decenni del secolo scorso quando emerse uno dei grandi chef italiani, Gianni Cosetti, ammirato dai più noti gourmet e gastronomi italiani ed esteri che andavano a trovarlo nel suo ristorante, il Roma di Tolmezzo, nel quale serviva sia la vecchia cucina del territorio che le sapienti innovazioni dettate dal suo genio gastronomico. E dagli inizi di questo secolo a imporsi come moderna interprete di questa cucina è stata una giovane donna, Fabrizia Meroi, chef-patron del Laite di Sappada, considerata dalla critica una delle migliori e più interessanti cuoche italiane.

Ed è lungo questo percorso storico che sono nati i cjarsons, che, lo diciamo subito, sono dei fagottini formati da una pasta, di farina o di farina e patate, contenente uno straordinario ripieno. Il nome, cjalzons o cjalsons o cjarsons, nelle diverse varianti, come ha scritto Silvia Marcolini, attenta studiosa della cucina carnica, rimanda al latino medievale calzone e risulta presente in Friuli già alla fine del 1300 nella variante çhalçons, già allora correlata al sapore dolce che contraddistingue ancora oggi una delle due varianti (l’altra è quella con le verdure).

L’inquadramento temporale consente di stabilire innanzitutto una gerarchia cronologica fra le due tipologie di pasta e consente di posticipare la variante con patate rispetto a quella con pasta matta (la patata avrà infatti diffusione in regione solo dall’Ottocento). Altri elementi sono desumibili dal cuore, vale a dire dalla farcia. Fra gli ingredienti del pistùm esistono alcuni “fossili gastronomici guida”, ossia degli elementi che servono a datare una consuetudine, fra questi alcune spezie, in particolare la cannella. In epoca medievale questa merce veniva considerata un lusso e l’arrivo di questo prodotto profumato, giunto dal vicino Oriente e destinato all’uso dei re, nel territorio della Carnia è sicuramente da attestarsi a una fase successiva. Bisogna arrivare all’epoca moderna caratterizzata dalla presenza dei cramârs, i mercanti ambulanti che facevano la spola tra Venezia e Augusta, l’Augusta Vindelicorum dei latini, l’attuale Augsburg in Baviera, e che si dedicavano, fra l’altro, allo smercio di questi profumi. Il secolo d’oro di questi viaggiatori d’Europa è il Settecento, epoca in cui è probabile si sia diffuso l’utilizzo della cannella non come acquisto ma come recupero di rimanenze, per aromatizzare mele o pere (ma anche polenta), in sintonia con i territori di lingua tedesca vicini, altra meta frequente degli ambulanti e dei numerosi emigranti che nei loro trasferimenti importavano usanze e innovazioni. Lo stesso vale per l’uva passa e ancora di più per il cioccolato, entrato nella disponibilità in una fase ancora successiva.

Sempre all’area tedesca attiene il gusto agrodolce che caratterizza alcune elaborazioni, così come l’uso della frutta per i ripieni di pietanze salate. Per quanto riguarda la variante con verdure, spesso spontanee ma anche coltivate e composte in un’armonia di sapori davvero affascinante nella sua essenzialità, esiste un’affinità che lega le comunità montane di Friuli, Veneto e Trentino, tutte accomunate da un destino di migrazione stagionale verso la città di Venezia, crocevia di prodotti e riferimento di modelli non solo culturali. Sicuramente nel passato la percezione di unità nazionale non aveva la dimensione della condizione odierna ed era basata invece su affinità di abitudini e condizioni capaci di superare i confini politici stabiliti. Si può parlare di area montana, o area dolomitica, per scoprire che casunziei, casonziei, csanzöi, Krofin, cjarsons, cjalsons identificano tutti un primo piatto tipico e tradizionale sostanzioso e saporito (privo di carne) e che di tutti questi casi esistono varianti domestiche innumerevoli, che attestano un’appropriazione personalizzata di una pietanza, nella sua eccezionalità, comune.

cjarsons contengono nel loro cuore tutta la disgiunta unità dei carnici e, come abbiamo ricordato, tutta la curiosa stratificazione di abitudini e disponibilità, che ha reso queste preparazioni isole specifiche di una più vasta cucina mitteleuropea e mediorientale, capace di radicarsi qui in modo del tutto autonomo, nonostante lo scorrere del tempo e degli avvenimenti. «La ricchezza del ripieno, chiamato pistùm o pastùm – ha scritto Silvia Marcolini – è composto da un numero spesso disparato di ingredienti (mele, pere, prugne, uvetta, marmellata, cioccolato, erbe odorose, canditi, pane grattugiato, biscotti tritati, cipolla, spinaci, limone, chiodi di garofano, cannella…) e questo spingeva a connotare l’eccezionalità di questa preparazione rispetto al tempo quotidiano. Nel passato infatti i cjarsons caratterizzavano le ricorrenze della festa (Natale, Pasqua, Ascensione, ma anche cresime o matrimoni) distinguendo anche da un punto di vista gustativo la qualità dello scorrere dei giorni. La preziosità degli ingredienti, così fortemente caratterizzanti, seppur nella loro natura di recupero, trovava una correlazione con la cura prestata alla preparazione dell’impasto, che costituiva il cuore e che necessitava e necessita ancora di un tempo di attesa (si lascia riposare una notte perché gli umori si compongano e si esaltino vicendevolmente) e la disponibilità di tempo non era frequente nelle preparazioni del vivere comune. I cjarsons carnici sono dunque pasta ripiena, ma è un qui rispetto a un altrove, perché nelle diverse valli della Carnia è declinata in un variegato numero di varianti, secondo ricette gelosamente custodite e singolarmente difese come prototipi di riferimento ed è indubbiamente riconoscibile come piatto tradizionale: la forma, la consistenza, il condimento e l’inusuale sapore che va dal dolciastro all’agrodolce fino al penetrante, sono infatti capaci di evocare immediatamente una corrispondenza territoriale ben definibile e circoscrivibile, come dire che ogni valle, quasi ogni casa, ha la sua tipica ricetta dei cjarsons. Ecco, sono una pasta ripiena in cui la sfoglia è ottenuta da farina e acqua calda (a volte mista a latte) o da acqua farina e uova, spesso con aggiunta di patate, composta in forma di mezzaluna più o meno definita e più o meno grande (il cerchio di base si otteneva da un bicchiere o da una tazza), i cui bordi risultano a volte pizzicati».

Già nella pasta si hanno delle varianti, farina ma anche patate, acqua ma anche latte, con o senza uova, per cui già nell’involucro dei cjarsons ci sono delle interessanti diversità da luogo a luogo, così come anche l’impasto del ripieno è estremamente variabile, anche se caratterizzato frequentemente dalla costante della ricotta, sostanzialmente è suddivisibile, come abbiamo visto, in due tipologie: impasto di erbe o impasto di frutta, entrambi presenti in un numero elevato di combinazioni. La cottura avviene in acqua calda e il condimento è dato da burro fuso e ricotta affumicata, con aggiunta anche di polvere di cannella e, in alcuni casi, di zucchero. Questa lunga storia del piatto carnico la concludiamo con la ricetta dei cjalsòns della Val Dal But, codificata dal grande Gianni Cosetti.

Ingredienti
Per la pasta: 800 g di patate, 200 g di farina 00, 1 uovo, 1 pizzico di sale e di pepe. Per il ripieno: 3 patate, 50 g di ricotta affumicata, 50 g di uva sultanina, 30 g di cacao, 30 g di zucchero, 30 g di marmellata, 2 savoiardi grattugiati, mezza pera grattugiata, mezza mela grattugiata, la buccia di 1 limone, 1 cucchiaino di cannella in polvere, sale, 1 ciuffo di prezzemolo, 1 ciuffo di mentuccia, 1 ciuffo di melissa, 1 ciuffo di maggiorana, 1 ciuffo di geranio profumato, 1 ciuffo di erba cipollina, 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di finocchio. Per il condimento: 150 g di burro, 150 g di ricotta affumicata, 1 pizzico di cannella in polvere.

Preparazione
Per preparare la pasta lessate le patate, sbucciatele e passatele al setaccio, unite la farina e l’uovo, salate e pepate. Stendete la pasta su una spianatoia infarinata e ricavatene dei dischi dal diametro di 7 cm.
Per fare il ripieno lessate le patate, passatele al setaccio e aggiungete la ricotta affumicata grattugiata e tritate e soffriggete tutte le erbe aromatiche in un tegame con un fiocco di burro per cinque minuti e unitele al ripieno mescolando fino a ottenere un composto omogeneo detto pistum. Ora ponete un cucchiaino di ripieno al centro di ogni disco di pasta, ripiegate e chiudete bene premendo sui bordi.
Cuocete i cjalsons in acqua bollente salata finché verranno a galla, raccoglieteli con un mestolo forato, poneteli in una pirofila e conditeli con il burro fuso, la ricotta grattugiata e una spolverata di cannella in polvere.

 

Risi e risotti alla moda di Venezia

di Giampiero Rorato

 

 

Come si fa il risotto a Venezia? Semplice e lo vedremo presto, ma intanto ricordiamo che questo piatto, che caratterizza la cucina veneziana e veneta, più di quanto si pensi, è il risultato di alcuni eventi avvenuti nel corso del ‘500, con una lenta e quasi inevidente evoluzione nei secoli successivi.  Dunque, per dirla tutta, c’è una bella storia alle spalle dell’attuale modo di preparare il risotto alla veneziana (meglio: i risotti alla veneziana, perché i classici sono numerosi e si cuociono tutti alla stessa maniera) e credo sia utile conoscerla, accennando solo fugacemente agli usi trecenteschi ben documentati dal veneziano Libro per cuoco, di ascendenza federiciana e angioina, che, oltre a far conoscere ai veneziani i Biancomagiari, di origine araba o, più probabilmente, nati o affinati nella reggia dei califfi abbasidi di Bagdad (o nella cucina del cuoco Muhammad Al Baghdadi), molto in voga tra Medioevo e Rinascimento, presenta una ricetta in uso nel mondo contadino veneto, e non solo, fino a tempi molto recenti, i risi col latte.

La storia del riso in terra veneta inizia, come è risaputo, nel 1474 quando il duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza dona al duca di Ferrara Ercole I d’Este 12 preziosi e costosi sacchi di riso appena prodotto nelle sue terre. Come quel riso arriva a Ferrara, accompagnato da una lettera dello Sforza che insegna a coltivarlo e poi a cuocerlo, Ercole dà ordine che una buona parte sia subito seminato nelle terre più adatte che si trovano nella vasta ara acquitrinosa del delta del Po.

Le autorità della Serenissima non impiegano molto a comprendere il valore del nuovo cereale, coltivato vicino al suo territorio, prezioso e molto utile sia per arricchire l’alimentazione degli abitanti della Serenissima, patrizi, popolani e contadini, soprattutto questi ultimi e i poveri dei paesi, sia per possibili lucrosi commerci con il vicino Patriarcato del Friuli e le terre degli Asburgo. Convinti di ciò, i magistrati della Repubblica e, in primis, il Consiglio dei Dieci, invitano i proprietari terrieri a realizzare delle risaie, come nelle vicine terre dei duchi di Ferrara che s’estendevano sull’intero delta del Po e in Polesine, in destra del fiume Adige e sollecitano i patrizi, aventi proprietà in quelle aree e in altre parimenti umide, a realizzare delle opere di bonifica e dei canali di irrigazione e di scolo delle acque.

Tuttavia, mentre le risaie sono fiorenti nelle terre del duca di Ferrara, nella terraferma veneziana faticano a diffondersi e allora le massime autorità della Repubblica iniziano una importante campagna per convincere i patrizi a realizzarne nelle loro proprietà, invitando poi gli abitanti al consumo del riso. Interviene ancora il Consiglio dei Dieci, con delibera del 12 ottobre 1527, in cui afferma che “mosso dalla volontà di diffonderne la coltivazione, fa sapere che esso supplisce molto bene i legumi”, che erano allora un alimento molto diffuso nel mondo contadino e sollecita la coltivazione del nuovo cereale, utilissimo quale cibo per le popolazioni povere della terraferma.

Ancora una volta sono pochi i proprietari terrieri, per lo più qualche illuminato patrizio veneziani e alcuni monasteri benedettini, anche femminili (ad esempio a Grumolo delle Abbadesse), disposti a realizzare delle risaie, perché dedicarsi alla produzione di riso comportava una nuova mentalità, una vera e propria rivoluzione nelle campagne e delle spese per realizzare le necessarie condotte e scoli per l’acqua fondamentale per produrre il riso. Allora il Consiglio dei Dieci interviene di nuovo nel 1533 con un decreto molto allettante, nel quale dichiara che la coltivazione e il commercio del riso sono totalmente liberi da ogni tipo di tasse.  Questo nuovo intervento, che tocca le tasche dei proprietari terrieri e dei commercianti, funziona. infatti, dopo quell’anno  le risaie si diffondono su tutta la terraferma veneta, tanto che ancor oggi ci nono in moltissimi comuni delle vie che ricordano la presenza di “risaie” e “risere” e, in pochi anni, il riso diventerà un alimento comune e diffuso ovunque in territorio veneto.

In breve tempo il riso verrà addirittura considerato una specie di alimento-simbolo della cucina della Serenissima e diventerà vero e proprio piatto nazionale veneziano, quando il Doge lo pretenderà sulla sua tavola in occasione della festa del patrono San Marco e nei ricevimenti più importanti in una preparazione divenuta celeberrima: i risi e bisi.

E qui si apre una storia importante intorno al riso, divenuto sempre più elemento fondamentale dell’alimentazione veneta, sia in brodo (famosi i “risi in brodo coi fegatini”, piatto per il pranzo delle feste più solenni e per i banchetti matrimoniali), ma attualmente soprattutto asciutto o quasi (a Venezia si dice “all’onda”), uno dei prodotti che caratterizzano l’attuale cucina veneziana.

È interessante notare che sulla scortai del ricordato piatto dogale, in terra veneta il riso non si presenta mai solo, ma sempre accompagnato da un altro ingrediente (uno solo), ugualmente fondamentale. Si tratti, come nel caso già visto, dei piselli, oppure di pesce, molluschi o crostacei, di un’erba spontanea di primavera, di funghi, di radicchio o di altri ortaggi. come zucchine e cavoli, di luganega, di rane, di un vino o di qualsivoglia altro ingrediente, il riso ha sempre bisogno di un compagno per esaltare sé stesso e dare al piatto convincenti caratteristiche gastronomiche- in una straordinaria varietà che solo la cucina veneziana e veneta conosce e realizza.

In questo Venezia è ancor oggi maestra. Il suo gran numero di prodotti d’acqua, di terra e di cielo, sia di laguna che di terraferma oppure importati, come le spezie dall’Oriente e poi come tanti ortaggi dalle Americhe appena scoperte, nella continuità della sua antica tradizione mercantile, la sua attenzione per le esigenze di ogni singolo prodotto, la sua predilezione per la buona tavola e la diffusa competenza nelle cose di cucina, consentono di avere nel veneziano – come del resto un po’ in tutto il Veneto - una vastissima gamma di piatti di riso, in brodo e asciutti, almeno uno per ogni giorno dell’anno, cosa che è davvero difficile, se non impossibile, trovare in altre parti d’Italia. Molti di questi piatti sono ormai diventati dei classici, punti fermi della gastronomia, gustati e apprezzati nel mondo intero, ma soprattutto è apprezzata e seguita la tecnica elaborata dai veneziani di città e terraferma, i cui risotti sono giustamente considerati espressione di altissima cucina.

Il piatto veneziano per eccellenza, l’abbiamo detto, è quello dei risi e bisi e il nobiluomo Elio Zorzi (1892-1955), autore del celebre “Osterie veneziane” (1928), scrive: «Preparata a dovere, con pesto di prezzemolo, pancetta e qualche fogliolina di finocchio, cotta nel brodo di carne, e portata a giusto grado di densità, la minestra di riso e piselli freschi e dolci, gentile, vellutata, aromatica, semplice, appetitosissima, costituisce il vanto di ogni buona massaia (veneziana) e la base classica del desinare di ogni onesta famiglia, nelle stagioni, nelle quali gli orti dell’Estuario danno i piselli freschi. Ai tempi della Serenissima, la minestra di risi e bisi era la minestra del Doge. La si serviva nei banchetti solenni, e in occasione delle più grandi festività nazionali.»

E ci sono altre informazioni preziose che prendiamo dallo stesso autore. «In genere – scrive ancora Elio Zorzi quasi un secolo fa – le minestre in brodo si usano fare dense (fisse), ed i risotti invece piuttosto fluidi, cosicché il divario di densità tra le due specie di minestre non è molto grande. Naturalmente, questa regola va intesa cum grano salis, e il riso non deve mai arrivare a quello stato di disfacimento, che si suol chiamare venezianamente i risi longhi. Non dev’essere quindi seguita la massima che l’avarizia e l’abituale scontrosità suggerivano al goldoniano Sior Todaro Brontolon:

-          Voggio disnar all’ora solita. Ma i risi i se mette suso a bonora, acciò che i cressa, che i fazza fazion. Son sta a Fiorenza, e ho imparà là come se cusina i risi. I li fa boger tre ore; e mezza lira de risi basta per otto o nove persone.

-          Benissimo, la sarà servida – risponde il servo Gregorio. Ma, a parte, soggiunge: “Ma per mi me ne farò una pignatella a modo mio…”.

Tra i più pregevoli risotti – scrive sempre Elio Zorzi - vi è il risotto de cape [telline, vongole e simili] o di peoci [mitili eduli, cozze]; l’uno e l’altro creati dall’unione del bianco cereale con abbondanti molluschi di numerose specie. Ma non hanno minori diritti alla considerazione dei buongustai il risotto de bisato, e cioè alleato alla tenera e grassa carne delle floride anguille delle valli venete; né il risotto de scampi, dovuto ai deliziosi crostacei del Quarnaro; e tutti li supera, per l’originalità del sapore e dell’aspetto, il nero risotto de sepoline, che si ottiene mescolando al riso le piccole seppie, alle quali non dev’essere tolta la vescichetta dell’inchiostro.»

 

E a proposito del risotto di scampi merita ricordare che era il piatto preferito da Ernest Hemingway, personaggio davvero unico dell’alta società internazionale del secondo dopoguerra e Venezia soddisfò le sue passioni per la caccia e la pesca, la buona cucina, il buon vino e gli ambienti lussuosi e ben frequentati. «Come si può vivere a New York quando ci sono Venezia e Parigi?» affermava candidamente.

Hemingway arrivò in laguna per la prima volta nel 1948 con la sua quarta moglie Mary e la città dogale fu anche teatro di significativi incontri per lo scrittore, come la diciottenne nobildonna Adriana Ivancich (1930-1983), raffinata disegnatrice e scrittrice, con la quale intrattenne una particolare amicizia, riconoscibile nel suo romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi”.

Ma torniamo al risotto di scampi. A Venezia Hemingway era ospite dell’hotel Gritti e fu lo chef di questo storico albergo a perfezionare questa ricetta ascoltando i suggerimenti dello scrittore che considerava il Gritti la sua “seconda casa” e lo accompagnò sempre con il vino da lui più amato, il Valpolicella, anche se a Venezia a questo ottimo risotto, sempre attuale e presente, viene accostato un grande vino bianco del veneto, il Soave o il Lugana o anche il Prosecco spumante.

In questi ultimi tempi si preparano a Venezia risotti con le seppioline anche senza il nero, per cui si hanno entrambe le versioni e tutte due godono di molti estimatori e c’è anche, lo ricordiamo velocemente, il risotto al nero di seppia e argento di Gualtiero Marchesi, ma questa è tutta un’altra storia.

Elio Zorzi cita poi altri piatti di riso, in uso a Venezia all’inizio del Novecento e presenti da molto prima, tutti naturalmente con un solo ingrediente oltre al riso, alcuni dei quali divenuti attualmente delle ricercate rarità: i risi in cavroman (con un intingolo di carne di castrato o di capretto cotta in umido), i risi con la castradina (una specie di zuppa di carne di castrato e verze preparata per il pranzo del 21 novembre, festa solenne della Madonna della Salute, a ricordo di un voto fatto in occasione della peste del 1631), il risotto a la bechera (riso condito con un particolare sguazzetto di varie carni, midollo di bue freschissimo, olio, burro, sedano, carota, sale e pepe, antica preparazione veneziana), il risoto de zuca, ecc.

Nella seconda metà del Novecento e, soprattutto, nei primi due decenni di questo secolo, per il moltiplicarsi dei ristoranti di qualità, dovuto anche all’aumento del turismo a Venezia e per lo sviluppo economico che ha interessato tutto il territorio, i piatti di riso hanno conosciuto un enorme successo, grazie all’apprezzamento dei buongustai italiani e internazionali, nonostante la massiccia invasione della pasta, più veloce e più facile da preparare, specie nelle numerose “trattorie per turisti” e così, accanto alle preparazioni storiche e più tradizionali, sono state create nuove ricette, valide e interessanti, tanto che girando per i ristoranti e le trattorie della provincia di Venezia e nelle province finitime, si possono gustare decine e decine di piatti di riso, tutti diversi fra loro e, spesso, gastronomicamente molto validi, anche e il più delle volte scompaiono in breve tempo.

Dai risotti di pesce, molluschi e crostacei, a quelli di carne e ancora a quelli con erbe spontanee e ortaggi, la cucina veneziana offre tal varietà di piatti di riso che già sbalordì i grandi buongustai del passato che arrivavano numerosi a Venezia, specie nel periodo di carnevale, anche per godere la cucina servita nelle locande, nelle osterie e preparata nei palazzi dei patrizi. Ce lo ricordano anche i numerosi piatti citati da Carlo Goldoni nelle sue commedie, fra cui i “Cento riso cola so meola de manzo e la so luganega par torno via” di cui si parla ne L’uomo di mondo, poi i ricordati “Risi co la castradina” citati ne Il campiello e, ancora, i “Cento riso cola quaieta” (Minestra e, successivamente, risotto con le quaglie) ricordata in Chi la fa l’aspetti.

Ma come si fa il risotto a Venezia? Pe rispondere è necessario lasciare la storia ed entrare in cucina per conoscere la tecnica dei vecchi cuochi operanti nella città dogale che è diversa da quella dei cuochi milanesi. Storicamente, a Venezia il riso – e questo vale per ogni tipo di risotto - come viene calato nella casseruola che già contiene il soffritto ben caldo e, spesso, anche il secondo ingrediente, non va tostato ma immediatamente bagnato di brodo (o acqua) bollente e portato a cottura, tenendolo sempre molto morbido, lasciando che faccia lentamente uscire dai chicchi una parte del proprio amido, che aiuterà in fase di mantecatura. Il secondo ingrediente può essere messo nella casseruola prima del riso, se si tratta di prodotti che hanno bisogno di una cottura più lunga del riso o anche durante la cottura del riso se hanno bisogno di una cottura più breve o se si vuole che restino abbastanza integri (es. le punte di asparago bianco).

Per doverosa informazione aggiungo che a molti cuochi moderni, purtroppo sradicati dalla tradizione veneziana, quasi sempre per mancanza della sua conoscenza (cosa che capita anche ai docenti degli Istituti e delle Scuole turistico-alberghiere), piace, per comodità, far tostare il riso, così, dicono, si conserva più a lungo dopo la cottura e si cuoce senza problemi anche se si bada ad altre pentole sul fuoco. I cuochi del passato avevano più tempo, sia nelle case signorili che nelle numerose, calde e vivaci osterie che aprivano i battenti in ogni sestiere e in ogni parrocchia veneziana, poi, avevano diversi aiutanti (che costavano poco) e non c’era la frenesia attuale ed era per loro più semplice seguire una tecnica di cottura che, grazie all’amido fuoriuscito dai chicchi, permetteva di amalgamare (mantecare) il riso con meno burro e meno formaggio, aggiunto quest’ultimo, ma non sempre, per insaporire il piatto.

 

E a completamento ecco la ricetta moderna dei “Risi e bisi”.

Per 4-5 persone: 400 g di piselli sgranati, 200 g di riso, 50 g di pancetta magra, 3 cucchiai di olio evo, mezza cipolla, una piccola noce di burro, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, brodo, una manciata di formaggio grana grattugiato, sale e pepe.

Fa soffriggere in una casseruola la cipolla e la pancetta tritate, l’olio e un po’ di burro, unisci i piselli e falli cuocere a fuoco moderato per una quindicina di minuti. Cala poi il riso, non farlo tostare, quini rimesta con delicatezza per non rompere i piselli, insaporisci di sale e pepe e porta a cottura tenendo sempre rimestato e generosamente bagnato con mestolini di brodo bollente, badando di conservare una consistenza molto morbida e ricca di brodo. Verso fine cottura controlla l’insaporimento, spegni il fuoco, incorpora il formaggio e il prezzemolo e manda in tavola in piatti fondi o in adatte ciotole, badando che sia molto morbido, ma non minestra né risotto, da dover essere comunque mangiato con il cucchiaio.

Variante: fa bollire in un pentolino i baccelli dei piselli e porta poi a cottura il riso col brodo dei baccelli che hai ottenuto, dando al piatto un colore sulle tonalità del verde

 

E, avendolo prima ampiamente citato, ecco il “Risotto di scampi” amato da Ernest Hemingway.

Per 2 persone: 140 di riso Vialone nano; 50 g di scalogno tritato; 300 g di  fumetto di pesce; 300 g di ristretto di scampi; 8 scampi freschi grandi; 8 g di prezzemolo; mezza carota, 1 costa di sedano, 30 g di vino bianco; mezzo bicchierino di cognac; mezzo cucchiaio di concentrato, 2 rametti di erba cipollina, 1 rametto di timo, aglio, olio d’oliva, burro, sale e pepe.

Sguscia gli scampi e rimuovi il filetto nero, spezzettatene 6 e lasciatene 2 interi. Tieni da parte i carapaci. Fa rosolare 1 scalogno tritato, mezza carota e una costa di sedano, versa i carapaci, spaccali con l’aiuto di un mestolo di legno, poi sfuma il cognac, copri con del brodo di pesce, aggiungi il concentrato, la cipollina, il timo, fa restringere di due terzi, poi passa tutto con un colino.

Fa saltare la polpa di scampi con olio d’oliva e aglio schiacciato e tieni da parte. Versa nella pentola un cucchiaio di scalogno tritato, cala il riso poi sfuma con poco vino bianco, quindi bagna con il ristretto di scampi e poi con un fumetto di pesce. Verso fine cottura aggiungi gli scampi precedentemente saltati, manteca con una noce di burro e due cucchiai di olio evo del Garda, prezzemolo, sale, pepe e decora ogni piatto con la coda di scampo.

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