mercoledì 19 ottobre 2011

La frutta in cucina

(Appunti per la Conversazione di Giampiero Rorato alla Cena ecumenica dell’Accademia Italiana della Cucina di Cortina d’Ampezzo – 20 ottobre 2011)

Banchetto romano
Questo è un tema gastronomico di sicuro interesse culturale che meriterebbe una ben più accurata e analitica esposizione, dal momento che, per chi ama la cucina, è importante conoscere se, quando ed eventualmente perché nella cucina italiana, che si rifà innanzi tutto a quella romana, con successivi importantissimi apporti esterni – bizantini, arabo-persiani, nordeuropei, nordafricani e, dal ‘500, americani – sia entrata la frutta.
È possibile affermare che la frutta è sempre stata presente nella cucina mediterranea, anche se, inizialmente, in modo sporadico, trovando maggior interesse nella cucina orientale e norafricana che, come appena accennato, ha notevolmente influenzato a cominciare dall’Alto Medioevo la cucina italiana, a partire dall’arrivo degli Arabi in Sicilia nell’VIII secolo (ufficialmente dall’827) e, a Venezia, dopo la spedizione di Pietro Orseolo II dell’anno 999 o 1000, aumentando la sua influenza dopo l’ottenimento di Venezia della Bolla d’Oro del 1126 da parte dell’imperatore bizantino e, soprattutto, con le Crociate, che hanno messo in contatto prolungato Venezia e il Vicino Oriente.
Tuttavia, i primi trattai che mostrano la presenza della frutta in cucina sono quelli romani – e gli autori più importanti sono Catone (234-149 a.C.), Petronio Arbitro (27-66 d.C.), Columella (4-70 d.C.), Plinio il Vecchio (23-79), Marziale (40-104), Apicio (vissuto nel I° sec. ma il ricettario è del IV sec.), Giovenale (55-127), ecc. – e aggiungo subito che allora la frutta in cucina non era particolarmente abbondante e, per di più, era frammista ai tantissimi ingredienti dei piatti serviti nelle case dei ricchi, piatti non sempre funzionali alla salute, ma espressione caratteristica del loro stato sociale..
"malum armeniacum", ovvero l'albicocca
A quel tempio era molto diffusa nelle salse l’accoppiata “uvetta e pinoli” e, ancora, le bacche di mirto, di ginepro, di lauro, le mandorle tostate, i datteri sia freschi che secchi, le prugne di Damasco, le noci, le nocciole, i limoni, i cedri. Altri tipi di frutta sono abbinati anche ad altre preparazioni: i meloni (come antipasto), le pesche, le olive, le mele (es.: maiale alle mele), le mele cotogne,  le pesche. E a proposito di queste ultime, originarie della Cina e trovate dai Romani in Persia nel II sec. a.C, all’epoca vennero confuse con il malum armeniacum, citato da Plinio, che è l’albicocca, anche questa proveniente dalla Cina e trovato dai Romani in Armenia e c’erano anche le ciliegie, introdotte a Roma da Lucullo nel 74 a.C. dopo la sua vittoria su Mitridate, re del Ponto.
Apicio, nel suo ricettario, apparso nella tarda romanità, con ricette del I secolo e dei secoli immediatamente successivi, impiega tutti i tipi di frutta sopra ricordati, meno le ciliegie.
A sua volta Petronio “Arbiter elegantiarum”, il celebre autore del Satiricon, nella Cena di Trimalcione impiega nei tanti piatti portati in tavola: noci, mele appie, mele cotogne, uva passa, semi di papavero, salse a base di prugne secche di Siria, chicchi di melograno, cedri, datteri freschi e datteri secchi, uva, nespole, pesche e altro ancora.
“Piatto di datteri” – Bartolomeo Bimbi (1648-1730)
Marziale, nei suoi epigrammi, scrivendo di piatti, cita l’uva da tavola e l’uva duràcina, e ancora mele cotogne, melegrane, fichi,  fichi di Libia, fichi di Siria e fichi di Chio, mostrando la grande attenzione e la spasmodica ricerca di prodotti unici da parte dei ricchi romani. Ed anche Giovenale cita fichi di Siria e prugne
Quelli che precedono sono solo dei brevi accenni, per mostrare come gli autori latini ,interessati, anche indirettamente, ai temi alimentari e gastronomici, conoscessero la frutta e i suoi usi in cucina.
L’uva passa e i pinoli, prima citati, ci raccontano una storia molto interessante. Erano fondamentali in tanti piatti della cucina romana, ma arrivavano dall’Oriente, come diverse preparazioni culinarie del patriziato e questo avvenne dopo i contatti non sempre pacifici avuti da Roma con la Grecia. Orazio, in una sua Epistola (II, 1, 156), scrive: Graecia capta ferum victorem cepit, cioè la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il feroce vincitore e la locuzione prosegue con et artes intulit agresti Latio: e introdusse le arti nell’agreste Lazio, fra cui l’arte della gastronomia, molto trattata da diversi autori greci dei secoli precedenti, come il grande Ateneo, che scrisse i Deipnosofisti, cioè i Dotti a banchetto.
Poi, quando Costantino nel 330 fonda la nuova capitale dell’impero romano d’Oriente, Costantinopoli, porta con la sua corte nel Bosforo anche la cucina romana che nella nuova città, sorta sul quel che rimaneva della greca Bisanzio, si arricchisce di contributi persiani e di altre popoli orientali.
Molti secoli dopo, questa abbinata – uvetta e pinoli - arriva a Venezia (es.: sarde in saor)  grazie ai commerci dei veneziani; arriva in Sicilia (es.: sarde alla beccafico) grazie agli Arabi e in Ungheria è portata dai Turchi, a partire dal 1526, e la troviamo nell’evoluzione ungherese del baclava divenuto strudel.  
Ma ci sono altri frutti che meritano un breve cenno.
I fichi, ad esempio, nella cucina antica, ma anche attuale, non hanno impieghi significativi, salvo la proposta moderna di fichi e prosciutto, introdotta recentemente, con i fichi che hanno sostituito il classico melone. Nel Medioevo il fico era impiegato soprattutto per concorrere, con la propria dolcezza, a bilanciare l’intonazione amara di erbe o di legumi, ma più che altro entrò a far parte di composti passati al mortaio per preparare salse o farcire torte. Nei testi medioevali (Anonimo Toscano) è impiegato come dessert, realizzato con i frutti farciti e poi fritti. E anche Maestro Martino da Como dà una ricetta di “frictelle di fichi piene”
mele cotogne
Le mele hanno tradizione gastronomica più antica rispetto ai fichi. Apicio, per citare una sua ricetta, racconta la cottura di una spalla di maiale soffritta con i porri e finita di cuocere con dadini di mela. Nel Trecento l’Anonimo veneziano, nel “Libro per cuoco” dà la ricetta delle “fritelle de pome”, rimaste fino ai nostri giorni. Johannes Bockeneym , nel “Registrum coquina”, databile attorno al 1430 (probabilmente nella Francia del Sud) riporta una ricetta di “tortas de pomis”. L’Anonimo Lucano nel ‘500 ripropone la “turta de mela” a base di cotogne, pestate con caciocavallo, tuorli d’uova, acqua rosata e cannella. Sempre nell’Italia meridionale, c’è una quattrocentesca “salsa de pome” che è una vera e propria minestra di mele. In questa ricetta le mele sono messe a macerare nel vino vecchio, quindi scolate e messe sul fuoco con latte di mandorle passato con brodo grasso finché si disfanno, quindi rifinite con cannella, zucchero, garofani, pepe, zenzero e succo di melagrana acida, addensate alla fine con tuorli d’uova.
Anche la mela cotogna aveva un suo ruolo, oltre alle cotognate diffuse soprattutto a Venezia, poiché, sempre nel Medioevo, accompagnava gli arrosti e i fritti e l’Anonimo Toscano le consiglia lessate “per li ‘nfermi”.
Prugne fresche e secche
Molto interessanti sono le prugne che erano sporadicamente presenti nella cucina romana ed entrano nella cucina italiana medioevale attraverso piatti orientali, come l’ambrogino, dell’Anonimo Veneziano (capponi magri, tante spezie – zenzero bianco, noce moscata, cannella e chiodi di garofano – e frutta intera – mandorle, datteri, brognole, cioè prugne, uva passa – e, a fine cottura, mandorle pestate stemperate con aceto e zafferano); il brodo saracinesco (capponi, vino e succhi agri, datteri, mandorle, uva passa e prugne secche), di origine crociata (sembra una ricetta rubata ai Saraceni, che erano musulmani del Nord Africa); lo Schilbecce o scapece – il saòr veneziano - di origine mesopotamica e persiana, presente in tutto il Mediterraneo e diversificatosi nel corso del tempo in più ricette, ma avente quasi sempre come base l’aceto e la cipolla, con, a seconda delle ricette,  spezie, mandorle, uva passa, pinoli e frutta, fra cui le prugne. Il Codice Urbinate presenta una salsa di prugne secche (“sapore con brugni sechi”), ma, come si vede, l’uso non è molto diffuso. E qui c’è un altro forte aggancio della cucina veneziana con quella orientale, che, come la romana antica, amava i contrasti fra il dolce e l’amaro o l’acido e la frutta era il dolcificante d’uso comune dopo il miele e la sapa.
E qui è interessante notare come le prugne si trovino in un piatto boemo, gli gnocchi con le prugne, presente da secoli nella cucina mitteleuropea, anche a Trieste e Gorizia e questo piatto apre una finestra interessante sull’impiego della frutta nella Mitteleuropa, in particolare nelle salse, come quella ai mirtilli o ai frutti di bosco che accompagna diversi tipi di carne, soprattutto di selvaggina.
Le pere le troviamo nel medioevale Anonimo Toscano, cotte e speziate e servite come dolce; ma anche come minestra in latte di mandorle con zucchero e poco sale e non serve qui ricordare il diffusissimo adagio del “formaggio con le pere”.
L’Anonimo Toscano, più volte citato, elaborazione di un ricettario di origine meridionale, quindi di ispirazione araba, ci dà la ricetta del “paparo con succhi d’aranci o di limoncelli” che ci fa pensare a quell’anatra all’arancia che molti credono francese, ma che in realtà è italianissime, elaborata in Toscana su base siciliana, con radice araba o saracena.
A parte gli esempi riportati, nel Medioevo la frutta non entrava nella composizione dei piatti con lo scopo di apportarvi sapori nuovi e identificabili, era comunque molto consumata e a tutti i livelli sociali, servita in vari modi: fresca, essiccata o conservata. Se si trovava in tante cucine, un motivo sicuramente c’era e l’abbiamo prima ricordato: lo zucchero e il miele erano alimenti costosi, per cui si usava aggiungere la frutta a molte pietanze per addolcirle o modificarne il sapore in qualche modo.
Dalla romanità a tutto il medioevo, nel sud dell'Europa si consumavano prevalentemente limoni, cedri, arance amare (la varietà dolce venne scoperta solo secoli dopo), melograni, mele cotogne e, naturalmente, uva. Più a nord invece erano più diffuse mele, pere, prugne e fragole, naturalmente di bosco. Fichi e datteri venivano mangiati in tutta Europa, ma nel nord erano comunque costosi prodotti d'importazione.
In questa rapidissima carrellata ho accennato a come nella storia della cucina mediterranea – quindi del Sud Europa, del Vicino Oriente, del Nordafrica – la frutta non sia mai mancata, ma una cosa va sottolineata: la frutta veniva impiegata, quando lo si faceva, soprattutto per equilibrare sapori o, in rari casi, per regalare gusti nuovi (l’anatra all’arancia). Mai veniva introdotta nei piatti a caso, mai per sorprendere, se non in Petronio e nella cena da lui raccontata nel Satiricon e in alcuni piatti rinascimentali.
Come affermavano già gli antichi, ancor prima di Dioscoride (40-90) e di Galeno (129-216), la frutta contiene principi nutritivi molto utili all’organismo e alle sue funzioni e ne veniva consigliato il consumo, ma per assolvere a tale utilità era per lo più consumata da sola, cruda, cotta o conservata.