mercoledì 27 agosto 2014

Il pesce nella cucina veneziana storica

Una nota di Giampiero Rorato



Il lungo e interessante rapporto dei Veneti con il pesce altoadriatico iniziò quando Antenore, verso la metà del tredicesimo secolo prima di Cristo, arrivò con un manipolo di Troiani e con gli Heneti, già loro alleati nella guerra contro i Greci, nella regione compresa tra i fiumi Livenza e Po, occupando le terre abitate da sparsi insediamenti di Euganei. Una parte dei nuovi arrivati dalla lontana Anatolia si insediò lungo la fascia costiera e la gronda lagunare, da Equilium (poi Jesolo e Cavallino) ad Adria, trovando nei doni del mare il proprio principale alimento. Poi, circa millecinquecento anni dopo, quando nelle Venezie s’abbatté la furia dei barbari invasori, gli abitanti delle città e dei villaggi di terraferma trovarono rifugio nelle deserte isole della laguna, ponendo le basi della futura città di Venezia. Quei fuggiaschi, finalmente al sicuro nel vasto silenzio della laguna, trovarono ampia disponibilità di pesce e questo fu, per lungo tempo, quasi l’unico cibo di poveri e ricchi. Lo ricorda anche Cassiodoro, il grande ministro di Teodorico e Vitige a Ravenna, in una lettera inviata attorno al 537 ai tribuni marittimi della Venezia, nella quale si accenna per la prima volta al cibo dei veneziani.

Circa 600 anni dopo, Venezia è città ricca e potente con una rete commerciale che spazia per tutto il Mediterraneo e anche oltre e già compaiono i primi monopoli, con mercanti che impongono a loro piacimento il costo degli alimenti, costringendo l’autorità dogale a intervenire per fissare un calmiere ed evitare le speculazioni a danno del popolo veneziano.

Calamaretti con radicchio di Treviso



Nell’anno 1173, infatti, il doge Sebastiano Ziani firma la prima legge annonaria (De edulis vendendis, et de ponderibus, et mensuriis), grazie alla quale abbiamo anche precise informazioni sulla varietà e sul costo degli alimenti allora disponibili a Venezia. Sappiamo così, per esempio, che in quell’anno il vino d’ogni tipo, tranne quello di Romània (era così chiamato l’Impero Romano d’Oriente), costava 20 soldi il barile (il barile corrispondeva a litri 64,3859); la carne bovina 2 soldi per libbra (una libbra era g 301,2297); storioni, trote e rombi costavano 3 soldi e mezzo la libbra; tinche grandi e lucci seccati valevano 3 libbre; i pesci di mare – go, meglia, barbone, scarpena, lucerna, variolo (branzino), orata, passera, cavedano, sogliola, anguilla - considerati meno pregiati dei precedenti, costavano 2 soldi e mezzo la libbra. Il frumento valeva 16-17 soldi lo staio (corrispondente a 83,3172 litri) e 20 uova costavano 1 soldo.


Frittura di pesce del ristorante Vecio Fritolin di Venezia


«Il vitto dei primi Veneziani  - scrive Pompeo Gherardo Molmenti in La storia di Venezia nella vita privata, riferendosi agli anni fino al Mille – oltre che di carne di bove, di capretto, di maiale, era composto anche di quanto offrivano in gran copia la caccia e la pesca, che sappiamo quanto fossero attive. Sulle lagune, numerosi gli uccelli palustri, come le anitre selvatiche (osèle), i maggioringhi (masorini) o germani reali, le folaghe, i chiurli, le cercedule, le arzagole; di variate specie i pesci dell’Adriatico e dei fiumi; abbondante la selvaggina nelle selve dell’Estuario. Erbaggi e frutta si ritraevano dalle campagne dell’Estuario. S’intende che, pur non dipartendosi la città in sul principio da un modesto tenore di vita, le mense dei ricchi e dei poveri erano variamente fornite.»

Grancegole


Sul vitto di quegli antichi Veneziani c’è un’acuta osservazione di Massimo Alberini, uno dei più attenti studiosi di storia alimentare. Gli abitanti delle isole, prima di dividersi in patrizi e popolo comune, assumendo nuovi costumi e nuove regole di vita, nella città e nei villaggi di terraferma da cui provenivano erano gli eredi d’una storia antica e della cultura diffusa anche nelle Venezie dalla civiltà di Roma, che aveva ulteriormente arricchito e affinato quella dei Veneti primi. Tenendo dunque conto di questa eredità e delle molteplici esperienze maturate nei primi tempi di vita nel deserto lagunare Alberini scrive che «nulla ci impedisce di supporre che … siano stati quei progenitori della cucina veneziana a preparare le seppie in técia con il loro nero, l’anguilla arrostita sulla pietra (bisato su l’ara) e le zuppe di molluschi, dalle cape sante alle cape longhe o da deo». Sono questi i piatti basilari d’una tradizione che ha subito nel corso del tempo alterne vicende, pur restando sempre una cucina strettamente legata al territorio, alla stagionalità e a un invidiabile buon gusto che ha fatto scuola in tutto l’Occidente.

Leggendo i primi documenti sulla vita dei Veneziani si ha tuttavia l’impressione che, dopo gli anni dell’arrivo dalla terraferma e dell’adattamento alle nuove condizioni di vita, il pesce sia progressivamente diventato, soprattutto per il patriziato, cioè per le casate più ricche e potenti, un alimento secondario, a vantaggio della selvaggina e della carne degli animali allevati nelle isole. Questi, tuttavia, non bastavano per cui ogni giorno dalla terraferma arrivavano file di barche cariche di bovini, ovini, suini e animali da cortile d’ogni specie, mentre il pesce veniva riservato soprattutto al popolo minuto e, per tutti, ai giorni di magro decretati dalla Chiesa.

Granciporri


Il consumo del pesce era dunque diminuito sulle tavole dei Veneziani, ma non scomparso e le cotture allora in uso erano talmente semplici che il primo ricettario che ci è pervenuto – il Libro per cuoco di un anonimo autore veneziano – risalente alla fine del XIV secolo, ci dà le salse adatte per il pesce bollito e per quello fritto, mentre per quanto riguarda le ricette vere e proprie ce ne dà quasi solo per il pesce d’acqua dolce, in particolare per l’anguilla. Intanto sappiamo che i Veneziani lessavano i pesci di grandi dimensioni e friggevano quelli piccoli, anche se potevano esistere altri modi di preparare il pesce di mare, fra cui quello “in saòr”, che è l’unica ricetta di pesce di mare presente nel ricettario trecentesco: «Se tu voy fare pesse a savore che se chiama sabeto, frizelli in bono olio, toy uva passa e maxenala con l’agresta e con aceto e toy cepola e lessala e batila con cotello poy frigilla con quello savore e mitige specie che non habia zafarano e mitigi galanga asai e fai che seano acetoxi non tropo.»




Una domanda arrovella da sempre gli studiosi: ma che senso aveva a Venezia conservare il pesce quando quello freschissimo era ogni giorno disponibile in grande quantità? Interrogativo certamente giustificato, che tuttavia non deve dimenticare il ruolo marinaro di Venezia e quindi i viaggi per mare dei Veneziani. Era infatti fondamentale avere nelle cambuse disponibilità di alimenti sani e durevoli ed ecco che, assieme alla celebre castradina (la carne di castrato salata ed essiccata, tipica della Dalmazia e dell’Albania, ancor oggi gustata a Venezia nella festa della Madonna della Salute, il 21 novembre), poteva starci benissimo anche il pesce in saòr. Questa tecnica di conservazione va fatta risalire alla tradizione romana del garum, una salsa prodotta allora in quantità industriale nella Dalmazia meridionale e soprattutto attorno a Spalato, città nella quale l’imperatore Diocleziano aveva fissato la sua residenza, e in altre località del Mediterraneo anche occidentale, ed è verosimile che il saòr veneziano derivi proprio dalle stesse aree dove le navi veneziane si rifornivano della castradina.

Ed è sempre dalla costa orientale dell’Adriatico che arriva a Venezia, diffondendosi poi anche in terraferma, un altro piatto divenuto celebre, la bùsera, parola che il Boerio non riporta nel suo Dizionario del dialetto veneziano edito nel 1856, eppure la preparazione è ben conosciuta da tempo a Venezia e nel Veneto orientale. Il termine appartiene al dialetto dei pescatori della costa orientale dell’Adriatico ed ha ascendenze assai antiche, ma, avendo diffusione molto limitata, non è riportato nei dizionari né veneti né croati. Il piatto degli scampi in busera o alla busera è comunque una specialità ancor oggi proposta in molti ristoranti di pesce, specialmente assieme agli spaghetti, conditi con la stessa salsa. La ricetta è semplice e interessante e prevede l’impiego di un buon numero di scampi interi piuttosto grossi (ottimi quelli catturati nel Quarnaro e nelle insenature dalmate) fatti soffriggere in una adatta padella (la bùsera degli Istriani e dei Dalmati) su una base di olio d’oliva e un trito d’aglio e cipolla. Gli scampi ben lavati vanno distesi sul soffritto integri (o, come si usa in terra veneta, col carapace tagliato longitudinalmente nella parte inferiore) e subito bagnati con abbondante vino bianco, quindi cosparsi con un pizzicotto di paprica o peperoncino sbriciolato (in passato aglio e non peperoncino). 


Pesce Sampiero


In Dalmazia, da molti decenni si aggiungeva della polpa di pomodoro e, a piacere, del prezzemolo tritato. Dopo alcuni minuti gli scampi vanno rigirati quindi cosparsi di pangrattato per meglio legare la salsina che si forma. Occorre qui precisare che sia in Istria che in Dalmazia la busera altro non è che una padellata di pesce, di una o più varietà, o anche di pesce misto, crostacei e molluschi, ed è piatto tipico dei pescatori, preparato in barca durante la pesca. 

Una preparazione simile, ma più ricca della busera, la preparano da sempre anche i pescatori della costa veneta (ed ora anche numerosi ristoranti), da Grado al delta del Po, ed è il brodetto di pesce, ottenuto anche qui con una base di olio e cipolla tritata (a Caorle anche aglio) sulla quale vanno disposti i pesci e i molluschi (in genere scarpene, anguille, seppioline, code di rospo, cappesante o ancora, specialmente a Chioggia, varagni, scorfani, calamari, pesci San Pietro, canoce), si insaporiscono di sale, si irrorano poi di abbondante vino bianco e, verso fine cottura, si aggiunge dell’aceto e, recentemente, anche della polpa di pomodoro, che tuttavia non si trova a Grado, che segue scrupolosamente l’antica ricetta dei pescatori altoadriatici.


Ristorante Vecio Fritolin di Venezia


Le differenze fra le busare e i brodetti non sono molte, segno che il grande “golfo adriatico” ha unito nel corso del tempo le diverse tradizioni dei pescatori, che hanno quindi alimentato lungo entrambe le coste adriatiche analoghe tradizioni cucinarie. Questo rapporto tra le cucine (ma non solo), consolidatosi nel corso del tempo grazie anche alla spesso vivificante presenza nelle comunità dell’Istria e della Dalmazia della cultura veneziana, è patrimonio ancor oggi vivo, nonostante le vicende della storia che, per l’insipienza degli uomini, in questi ultimi due secoli ha spesso messo gli uni contro gli altri gli abitanti delle terre bagnate dall’alto golfo Adriatico. Ma i tempi nuovi, che vedono sventolare anche in diversi Paesi della vicina Balcania il vessillo azzurro con la corona delle dodici stelle d’oro, potranno rimarginare le dolorose vicende che ancora feriscono la memoria storica, facendo riemergere anche quanto di buono e di valido queste cucine hanno saputo assieme produrre nel corso dei secoli.


Scorfani


Volendo indagare con più attenzione sulle vicende alimentari dei Veneti, si trova che la vita nella laguna ha suggerito diverse altre preparazioni e, fra queste, di particolare interesse è quella nata attorno ai forni da vetro dell’isola di Murano. Da qui, infatti, deriva il bisato su l’ara, cioè la cottura dell’anguilla sulle caldissime pietre alla bocca del forno. Mondate ed eviscerate, le anguille si cuociono intere, se piccole, e a rocchi non disgiunti, se grandi, sopra delle foglie di verza o foglie d’alloro. 


Se sono grasse non hanno bisogno che di un pizzico di sale e la loro carne risulta tenerissima e quasi dolce. Poi, come ricordavamo all’inizio, c’è il piatto delle seppie in técia con il loro nero, impiegate anche per la preparazione d’uno dei tanti risotti veneziani e veneti. In tegame si cuociono anche dei pesci di mare, ma questa cottura è riservata principalmente al pesce d’acqua dolce, l’anguilla, la tinca, la carpa, il pesce persico.


A Venezia dunque il pesce – le tante varietà catturate in laguna e in mare dai pescatori - andava preparato nel passato esclusivamente nei modi indicati: bollito quello grosso; fritto il piccolo; in saòr le sardelle, le sogliole (celeberrimo il piatto preparato dai pescatori veneziani per la festa di santa Marta il 29 luglio: gli sfogéti in saòr) e altro pesce minuto; in broéto nelle barche dei pescatori di Caorle, Cortellazzo, Venezia e Chioggia; sull’ara a Murano, e successivamente anche a Venezia e in terraferma, sostituendo la bocca del forno con le braci ardenti di un focolare ed ancora, ma più raramente, in tegame.   - gr -