giovedì 13 novembre 2014

Lo Spiedo

Storia e cultura di una tecnica di cottura antichissima, ancora presente e molto apprezzata nella fascia prealpina dalla Venezia Giulia alla Lombardia e in altre regioni d’Italia


Intervento di Giampiero Rorato in occasione del 6° Corso per Menarosti
Pieve di Soligo (Treviso), 10 novembre 2014




Tema affascinante, quello dello spiedo, strumento antico e mai superato, quindi moderno, strettamente legato alla storia dell’alimentazione umana, ma non solo – poiché usato in passato anche come arma bellica - e legato soprattutto a una tipologia di cottura che ha riguardato e continua a riguardare principalmente la carne.
I primi documenti conosciuti che ci confermano l’esistenza e l’uso dello spiedo per cuocere le carni sono i poemi omerici, composti in Grecia tra il IX e il VII secolo a. C. da un qualche geniale poeta, conosciuto fin dall’antichità col nome di Omero, il quale ha raccolto le storie e le leggende tramandate da generazioni e raccontate per le strade della Grecia da cantastorie girovaghi e ha composto due poemi – il secondo forse da attribuirsi a un altro aedo – e sono poemi che hanno attraversato i millenni.

Ad Omero sono dunque attribuite due opere poetiche, dei veri e propri romanzi in versi, che restano dei punti fondamentali nella storia della cultura umana: l’Iliade, da Ilio, antico nome della città di Troia, sorta all’imbocco dei Dardanelli verso l’antica Bisanzio, poi Costantinopoli e ora Istambul, di cui racconta le ultime vicende e la sua distruzione nella guerra combattuta contro la città dai Greci; l’altro poema è l’Odissea, da Ulisse, il re di Itaca, di cui racconta le tante peripezie nel suo lungo viaggio per mare  nel ritorno a casa dopo la vittoria greca nella guerra contro la città di Troia.

Già nel primo libro dell’Iliade, Omero descrive la preparazione d’un banchetto, con la cottura delle carni allo spiedo, soffermandosi pure sull’aspetto religioso precedente il sacrificio dell’animale e ricordando che l’esame delle sue viscere consentiva di predire il futuro. Scrive dunque Omero, che qui presento nella traduzione di Vincenzo Monti, in uso nelle scuole fino a qualche decennio fa.

Quindi fin posto alle preghiere, e sparso
il salso farro, alzar fêr suso in prima
alle vittime il collo, e le sgozzaro.
Tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce
di doppio omento, e le coprîr di crudi
brani. Il buon vecchio su l’accese schegge
le abbrustolava, e di purpureo vino
spruzzando le venìa. Scelti garzoni
al suo fianco tenean gli spiedi in pugno
di cinque punte armati: e come fûro
rosolate le coste, e fatto il saggio
delle viscere sacre, il resto in pezzi
negli schidoni infissero, con molto
avvedimento l’arrostiro, e poscia
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell’opra,
poste le mense, a banchettar si diero,
e del cibo egualmente ripartito
sbramârsi tutti.

Sempre Omero ci ricorda che il pasto ordinario degli eroi – così l’antico poeta denominava i combattenti troiani e quelli greci che combatterono sotto le mura di Troia – si componeva di pane, vino e carne arrostita, e le carni preferite erano quelle di bue e di maiale. 
A quei tempi lo spiedo, che ritroviamo anche in altri banchetti raccontati nell’Iliade (per esempio nel IX libro) e nell’Odissea, non era certo tecnologicamente raffinato come quello attuale, comunque risulta in uso anche prima alla guerra di Troia, che fu combattuta attorno al XII° sec. a.C.  
La metodica descritta da Omero nei passi citati e altrove – vale a dire: lo spiedo va posto sopra o accanto alle braci dopo che le fiamme si sono completamente estinte - rimarrà sostanzialmente invariata fino ai nostri giorni, ammettendosi tutt’al più di procedere anche col fuoco di fiamme, sempre però per irradiazione e mai per contatto.

Nei tempi preistorici, quando gli uomini erano nomadi e vivevano di caccia e di pesca, la carne e anche il pesce erano cotti su pietre arroventate o in fosse sul cui fondo erano poste delle braci ardenti, poiché allora non esistevano ancora recipienti adatti alla cottura, che sarebbero arrivati più tardi, in uno stadio molto più evoluto di civiltà, quindi in epoche abbastanza recenti, né si conosceva lo spiedo.

Ma ecco che un bel giorno – nessun documento ci attesta quando e dove ciò sia avvenuto - arriva il tocco di genio di qualcuno, il quale infila la carne in un bastone appuntito e la fa cuocere gradualmente, rigirandola sopra delle braci, senza che le tocchi.

La tecnica di cottura per mezzo dello spiedo, inventata in qualche sperduta pianura del vasto oriente o su qualcuna delle tante colline sub caucasiche - in quei lontani millenni una delle zone più evolute della “mezzaluna fertile” - s’era poi gradatamente diffusa, almeno dall’ottavo millennio a.C, nell’area  allora più civilizzata, quindi in Egitto, Grecia, Anatolia,  Siria, Armenia, Georgia e fino nell’intera Mesopotamia, l’attuale Iraq, tutti luoghi nei quali le popolazioni cominciano a fermarsi e a coltivare la terra.
Poi, dalla Grecia a Roma il passaggio è stato veloce, soprattutto dopo che i Greci, attorno al 750 a.C., costituirono nell’Italia meridionale - conosciuta poi come “Magna Grecia” - numerose colonie dove importarono, oltre alla loro cultura, anche i loro usi e costumi alimentari e le testimonianze dell’impiego dello spiedo nella cultura romana  fin dal periodo dei sette re e della repubblica sono numerose.
Già Virgilio, nel IV° libro dell’Eneide, raccontando una battuta di caccia, ci dice che un gruppo di scelti giovani uscirono dalla città alle prime luci dell’alba impugnando “ferrei spiedi”, chiamati venabula e questo termine ha un duplice significato: spiedo e lancia, come se lo stesso strumento avesse un doppio uso.
It portis iubare exorto delecta iuventus :
Retia rara, plagae, lato venabula ferro,
Massilique ruun equites et odora canum vis.

E se la cosa non fosse del tutto chiara, ci sono Cicerone e, ancor meglio Plinio il Giovane a spiegarci che il venabulum, usato per cuocere la carne delle prede di caccia, era la lancia: “Erat in proximo non venabulum, non lancea, sed stylus et pugillares”.
La letteratura romana è ricca di riferimenti allo spiedo, che non era ancora come l’intendiamo oggi, trattandosi in quel tempo di lunghi ferri appuntiti, praticamente dei giavellotti, sulle cui punte veniva infilzato un pezzo di carne, posta sopra le braci per una cottura più o meno sommaria.

Prima ancora che la cultura e le tradizioni della Grecia giungessero nell’Italia centro-meridionale con la nascita di numerose colonie greche, la cultura mediorientale era arrivata già prima del 1000 a.C. alle sponde del Lazio con Enea e in Veneto con Antenore, entrambi fuggiti dalla loro città, Troia, conquistata dai Greci. Ed è quindi possibile pensare che lo spiedo omerico sia arrivato nel Lazio e nel Veneto direttamente dall’Anatolia occidentale oltre tremila anni fa.

Negli stessi anni in cui veniva combattuta la guerra di Troia ci furono nel Vicino Oriente grandi migrazioni di popoli; gli stessi Ebrei in quegli anni uscirono dalla schiavitù dei faraoni mettendosi in viaggio verso la Terra Promessa. Durante quel viaggio Mosè, ricevute sul Sinai le Tavole della Legge, trasmise al suo popolo numerose regole alimentari, dettategli da Dio, fra cui, come si legge nel Deuteronomio, quella di preparare gli spiedi solo con legno di melograno, confermando quindi che l’uso dello spiedo era allora molto diffuso nel Vicino Oriente.

La grande evoluzione di questo strumento di cottura, che diventa di uso comune, lo si ha tuttavia con le popolazioni che vivevano a nord dei confini dell’impero romano.

Caduta Roma, si scopre che i grandi gruppi di stranieri – conosciuti nei libri di scuola come “orde barbariche” - avevano l’abitudine di cuocere le carni come gli antichi Greci accampati alle porte della città di Troia e che a diffondere l’arte dello spiedo in Italia, privilegiandolo su ogni altra tipologia di cottura, sono stati principalmente i Longobardi.

L’antico termine per designare lo spiedo, il venabulum dei romani, viene sostituito nel Medioevo dal termine spetus, parola originariamente franca – speot -  ulteriormente modificato dai Longobardi (in tedesco Spiess, in longobardo spiede) e tale termine entra nel linguaggio medioevale un po’ in tutta la Penisola, dove comunque s’erano insediati i Longobardi.

Questo popolo era sceso in Italia forte di circa centocinquantamila persone, trentamila delle quali erano guerrieri, mentre le altre persone erano i loro familiari e non ovunque dimorarono a lungo. Ma nella pedemontana veneto-friulana-lombarda, da Cividale a Ceneda a Soligo, a Breganze, alla Lessinia e fino a Brescia e poi a Pavia essi s’insediarono dall’anno del loro ingresso in Italia, avvenuto attraverso le Alpi Giulie nel 568, guidati da Alboino e vi rimasero da padroni fino al 774, anno in cui il loro ultimo re, Desiderio, fu sconfitto dai Franchi di Carlo Magno. 

Oltre 200 anni, quanto basta perché la tecnica quotidiana di cottura delle carni, caratteristica dei Longobardi, diventasse anche la tecnica di cottura dei residenti, che, soprattutto nella Pedemontana trevigiana in Sinistra Piave, nell’alto vicentino e nel bresciano l’hanno trasmessa da una generazione all’altra fino ai nostri giorni. Quel che avvenne dopo, soprattutto nel Basso Medioevo e nel primo Rinascimento, interessò principalmente i costruttori di spiedi, producendone diverse tipologie, mossi sia a mano – dal menarosto – o da animali o, come nello “spiedo di Leonardo da Vinci”, azionati dal calore e dal fumo, o, infine, da meccanismi mossi dall’acqua corrente, come avveniva nei mulini.

Lo spiede longobardo era una verga di ferro o di legno forte, appuntita ad una estremità, in modo da poter trafiggere i pezzi che veniva infilati ed era appoggiata da una parte a una forcella, mentre dall’altra parte era sostenuta e nel contempo fatta ruotare da una persona addetta a questo compito.
Col passare del tempo, il sostegno a forcella si duplica, fissandosi al fusto verticale degli alari del camino e dispensando così il rosticciere dalla fatica di reggere l’asta, che, oltretutto, diventa più agevole da girare quando l’estremità non appuntita comincia ad essere modellata a collo d’oca.
L’iconografia medioevale mostra spesso i servitori che manovrano gli spiedi nell’atto di sollevare la mano libera per proteggersi dalla vampa del fuoco, e li raffigura talvolta al riparo di schermi simili a paraventi.

Sull’uso dello spiedo nel Medioevo è doveroso un’ulteriore riflessione poiché una vasta letteratura italiana ce ne conferma non solo l’esistenza, ma si sofferma molto sulle caratteristiche delle carni cotte allo spiedo.

Scrive in suo trattato il senese Ugi Benzi, vissuto tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400: “le carni rustite sono de megliore e magiore nutrimento e più conveniente a li corpi robusti”  e aggiunge: “Et imperò el è più de nutrimento in le carni rustite che in le allixate”, ripetendo quanto si legge in un trattato toscano della fine del ‘300. “Carne arostita  è più savorita che la lessa, perché è cotta nel suo humido, e quella nell’altro”, poiché le carni lesse sono cotte nell’acqua.

Ha scritto recentemente lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari: “La maggior sapidità dell’arrosto, la sua maggiore robustezza di gusto, non poteva non essere più confacente a una società come quella altomedioevale – cioè prima dell’anno 1000 – che anche sul piano dei comportamenti alimentari si caratterizzava – almeno ai suoi livelli superiori – come fortemente impulsiva e violenta”.

L’arrosto apparteneva anche culturalmente alla nobiltà guerriera, poi c’era un legame strettissimo, almeno nella convinzione del tempo, tra consumo di carne e forza fisica.
Nei castelli dell’alto Medioevo, come ci ricorda il biografo di Carlo Magno, Eginardo (770-840), il cronista franco più accreditato del suo tempo, lo spiedo era, infatti, sempre in movimento vicino al fuoco perché grandi pezzi di carne dovevano ogni giorno essere portati in tavola per soddisfare la fame dei guerrieri e soprattutto di Carlo Magno e dei suoi comites (compagni, poi “conti”).
La carne allo spiedo, lombi e cosciotti di grandi animali, aveva anche un valore simbolico, poiché solo chi comandava, solo i potenti, potevano nutrirsi ogni giorno di carne.
Si deve dunque riconoscere l’indiscussa rilevanza dello spiedo e, quindi, della carne arrostita, nella regìa del banchetto medioevale.

Se poi dall’alto Medioevo arriviamo al tardo Medioevo, quindi dopo il Mille, vediamo che nei castelli continuano ad esserci spiedi sempre in attività, ma, come notano alcuni storici, ciò potrebbe avere un carattere “tralatizio” cioè di continuità inconsapevole con le abitudini della precedente nobiltà feudale, abitudini di cui i nuovi signori hanno conservato solo il risultato finale, vale a dire l’imbandigione volutamente spettacolare del pezzo arrostito allo spiedo, portato in tavola nel momento centrale del banchetto, e ciò è il ricordo degli antichi trionfi di caccia e dell’allestimento di estemporanei spuntini sul luogo stesso della cattura, con un cerimoniale che imponeva la scelta di procedure essenziali anche nei preparativi di cucina e non c’è dubbio che la cottura allo spiedo presentasse tutti i requisiti di semplicità richiesti in simili circostanze. È in virtù di un rapporto in un certo senso culturale e mai interrotto tra nobiltà feudale altomedioevale e nuova nobiltà che prende forma lo stretto rapporto tra i nobili e lo spiedo e, quindi, con la carne arrosta.

I nobili praticavano la caccia – allora e fin quasi ai tempi moderni - anzitutto per dovere sociale, come dimostrazione di coraggio e insieme di dispotismo. Divorare la preda appena uccisa aveva per loro il significato di antidoto contro la viltà e la maniera più spedita di cucinare la cacciagione sul posto di cattura era quella di arrostirla: i soli utensili indispensabili erano un acciarino per accendere il fuoco e un coltello per tagliare la carne. Tutto il resto lo forniva la foresta, compreso lo spiedo facilmente adattabile da un giovane arbusto scortecciato.

Quando nei tempi antichi, nel medioevo e anche dopo si parla di carne arrosto si intende sempre la carne cotta allo spiedo mediante irradiazione cioè in assenza totale di mediazione tra la carne e la fonte di calore.

Ma vediamo quello che scrivono importanti autori tra Medioevo e Rinascimento.

Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, autore del “De honesta voluptate et valetudine” (Del piacere onesto e della buona salute)  redatto nel 1475, sulla base del trattato di cucina composto in precedenza da Maestro Martino da Como, scrive che l’arrosto è la cottura che meglio si addice alle carni grasse (“Pinguis caro melior assa quam elixa est”) e precisa: “le carne grase è meglio de rustirle che alexarle”

La tecnica di cottura allo spiedo l’aveva indicata il medico bizantino Anthimo, vissuto nel VI secolo, nel suo trattato “De natura ciborum” raccomandando di tenere le carni da arrostire ad una certa distanza dal fuoco e girarle lentamente (delonge a foco et diutius) perché se la fonte di calore è troppo vicina e perciò più volenta,”ardet caro deforis et deintus devenit cruda, et potius nocet quam iuvat”  (troppo vicina al fuoco) la carne si cuoce all’esterno e all’interno rimane cruda e fa più male che bene.

Il ben noto fenomeno di una crosta esterna abbrustolita, che, già nel terzo secolo prima di Cristo aveva attirato l’attenzione del grande filosofo greco Aristotile (384-322 a.C.), rappresenta una sorta di incubo per i cuochi medioevali: le carni da arrostire – e per arrostirle la tecnica è sempre quella dello spiedo – non si devono incontinente aproximar a le braxe e gran focho, perché fano la crosta intempestiva, e sì è impedita la penetrazione del calore a le parte intrinsece e la decoctione de le parte centrale” affermava all’inizio del ‘400 il Benzi.

Il celebre medico catalano Arnaldo da Villanova, uomo di straordinaria cultura, vissuto nel corso del ‘200, raccomanda che nel preparare qualsiasi arrosto occorre fare attenzione che non si rinsecchi eccessivamente e, in ogni caso, la crosta secca che può formarsi in superficie va scrupolosamente eliminata, e lo stesso dicasi della cotenna del maiale.

Il padovano Michele Savonarola (1384-1468), professore a Padova e poi medico dei duchi di Ferrara, autore di importanti opere di medicina, si dice convinto che l’elevato consumo di salsa di senape a Ferrara, è una conseguenza dell’incapacità dei rosticcieri locali che propinano arrosti magri e rinsecchiti. L’abilità di un cuoco veniva allora giudicata – ci conferma il Savonarola – dalle sue doti di rosticciere, perché l’arrostire allo spiedo richiede un’abilità indiscussa, “imperò disse Aristotile che era più artificiosa cosa lo rostire che lo alixare”, come ricorda il senese Benzi.

In conclusione le ripetute raccomandazioni degli esperti dei secoli passati concordano con la collaudata esperienza dei maestri rosticcieri d’oggi: le carni da arrostire si mettono al fuoco quando le fiamme si sono placate e si sia steso un buon letto di braci. Come si legge in un trattato manoscritto redatto in Italia all’inizio del ‘500 occorre fare grande attenzione quando si arrostiscono i volatili che devono essere avvicinati al fuoco soltanto gradualmente. Riferendosi, com’era allora costume cacciare, alla gru, si legge: “quando la poni al fuocho, ponlavi di lungie, sì ch’ella si schaldi bene dentro chon pocho fuocho, acciò ch’ella non si abbronzi di fuori e dentro sia rossa e cruda.”

Sotto gli spiedi, insegnavano gli esperti fin dai tempi antichi, si pongano dei recipienti destinati a raccogliere i succhi che stillano durante la cottura, che servono sia per tenere umide le carni, che per essere utilizzati come fondi per le salse di accompagnamento o, come avveniva nel Medioevo, come basi per le zuppe. Nelle fasi finali della cottura si usava spesso ricoprire le carni con una specie di glassatura, che forma una crosta più o meno consistente, come si legge in un manoscritto della fine del XV secolo: “mettila ordinatamente nello spiedo, ponila al fuocho e daglielo nel principio adagio; perché sia bello e buono, arosto si debbe quocere piano piano, e quando ti pare che sia presso che cotto, piglia uno pane biancho e gratugialo minuto, e con esso pane misticha tanto sale come ti pare necessario per lo arrosto, poi getta questa mescolanza di pane e di sale sopra l’arosto in modo che ne vada in ogni luogo, poi dalli una buona chalda di fuocho, faccendolo voltare presto.”



Sempre sul finire del Trecento, un anonimo cuoco o gastronomo toscano, autore di un trattato di cucina ispirato ai ricettari nati in Sicilia, anche traducendo ricette arabo-persiane, al tempo di Federico II (1194-1250), scrive: A cocere prestamente e bene uno arosto. Togli carboni e con essi coci; e quando sono bene acesi gittavi su vino, e dureranno di più e più focosi.”
In un altro trattato di fine medioevo si legge: “A fare arosto de omne carne asai, porcelli, cervi, castrati e vitela, e altri polli e ucelli… fa el foco da tutti doi li canti; e commo è facta la brascia, che ce sia de li carboni de bone legne, asetta li spiti [disponi gli spiedi] e di sotto mecti una palata de brascia o di carboni più presto, e dinante fa una letiera de brascia, non troppo inanti che metti lo spieti e come sonno mezi copti, insalali.”   


Con gli spiedi a doppia forcella, nati nel Medioevo, si entra nella storia moderna, nella quale più che il mezzo, che subisce continue innovazione fino agli spiedi attuali e che resta comunque fondamentale, conta il risultato, cioè la perfetta cottura delle carni, sia d’uccelletti di passo, di animali da cortile, di selvaggina di piuma e di pelo o ancora di ovini, caprini, suini e bovini, che devono essere sempre carni di prima qualità.

E pur mancando oggi certe carni – soprattutto alcune tipologie di uccellini dal becco gentile – l’arte e la tradizione dello spiedo sono ancora presenti e vive a sottolineare una civiltà e una identità, come la nostra, che affonda le radici in una storia molto lontana, densa di avvenimenti e di apporti culturali, nella ricerca di un cibo sano, buono e appagante, affinché la nostra vita possa fare tesoro, oltre al resto, anche di questo prezioso dono del Cielo e della bravura dei moderni rosticcieri.