lunedì 26 gennaio 2015

Notizie storiche sul Radicchio rosso di Treviso

con note sugli altri radicchi veneti
a cura di Giampiero Rorato




La varietà di radicchio che conosciamo e che sono ampiamente coltivate nel Veneto, non esistono in natura allo stato selvatico e derivano dalla cicoria selvatica, selezionate nel corso del tempo per la produzione di foglie e germogli commestibili. Naturalmente, esiste ancora la cicoria selvatica che cresce lungo i fossi e negli incolti e la si nota subito per i suoi bei fiori d’un colore sull’azzurro, ma attualmente non trova più utilizzazione come alimento umano, amato comunque dagli animali erbivori, come bovini, ovini e caprini.
È comunque possibile che, come erba selvatica, abbia avuto un impiego fin dall’antichità, mentre è noto che la selezione delle forme modernamente coltivate nel Veneto è avvenuta in tempi abbastanza recenti. In verità sappiamo pochissimo come la cicoria fosse utilizzata nelle epoche antiche, essendo da sempre molto diffusa negli incolti ed è presumibile che in quei tempi trovasse utilizzazione alimentare presso le classi meno abbienti.
Nel Medioevo, grazie alla Regola di San Benedetto che richiedeva ai suoi monaci un’alimentazione moderata, soprattutto a base di vegetali, ci fu, a cominciare dai monasteri, un crescente consumo di cicoria, anche se all’esterno dei monasteri tale consumo rimase limitato quasi solo alle classi povere, che rappresentavano comunque la maggioranza della popolazione.
È interessante notare che gli autori latini e medioevali, quando citavano la cicoria, la presentavano come un cibo rustico e sano, da contrapporre alle corrotte mollezze dei cibi raffinati che erano consumati nelle corti reali o nobiliari.

E a proposito di imbianchimento c’è un importante autore rinascimentale che merita conoscere: Pier Andrea Mattioli (1501-1578), il quale, nei Discorsi sull’opera di Dioscoride (la prima edizione è del 1544), individua una cicoria selvatica (picra) e una coltivata, che suddivide ulteriormente in due varietà, l'una simile alla lattuga, l'altra a foglie più strette e amare. Quello che qui ci interessa è l’accenno del celebre studioso a tecniche di imbianchimento, ottenuto mediante coperture di sabbia e terra e che testimoniano come questa tecnica si fosse mantenuta quasi immutata fin dai tempi di Roma antica.
Quasi vent’ani dopo, nel 1561, il primo direttore dell’Orto Botanico di Padova, Luigi Squalerno, detto l’Anguillara (1512-1570), probabilmente il più importante botanico del Rinascimento italiano, nella sua opera, I Semplici, scrive di una cicoria invernale coltivata nel Veneto, anch'essa da imbianchire. L'origine del radicchio rosso di Treviso può forse essere fatta risalire a varietà simili a questa, da lui descritta come "a foglie più larghe della selvatica per la coltura. Questa sorte non è altro che li radicchi che si seminano negli horti, la selvatica invece è quella che nasce in campagna... La seconda è la nostra cicoria in bianca, che si mangia al tempo dell'invernata".
L’interesse dei botanici per le tecniche di conservazione e imbianchimento delle cicorie continua dunque nel tempo ed anche un canonico bellunese, Giovan Battista Barpo (1584-1649), autore di un interessante trattato, intitolato Le delizie dell'Agricoltura e della Villa, (stampato a Venezia nel 1634), racconta come avveniva ai suoi tempi la forzatura e l'imbianchimento: "alcuni la trapiantano per averla più tenera, altri la legano come la lattuga o endivia, per farla bianchissima e tenera ... col lasciarla sotto la sabbia, o coperta con terra, canne, foglie, paglia di sarafino, o legata stretta; ma ancora meglio diventerà se verranno coperti i suoi piedi con piattelli o scodelle fatte apposta poiché, non respirando e non essendo toccata dall'aria, verrà come neve bianca, e questo viene stimato per bellissimo segreto".

Il radicchio nel Veneto

Se la cicoria, come erba selvatica, era ed è diffusa in tutta Europa, è nel Veneto che ha conosciuto la sua esaltazione, diventando una gloria gastronomica di questa regione, tanto che il radicchio prodotto nel Veneto ha superato quella che era, in altri tempi, la sua coltivazione ad uso della famiglia, per assumere nell’ultimo secolo alte caratteristiche gastronomiche e un notevole valore commerciale.
L’introito economico derivante dal mercati dei centri urbani in sviluppo ha anche consentito, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, una seria sperimentazione sia per le varietà, sia per le tecniche colturali, che hanno  raggiunto l'apice nel Radicchio rosso tardivo di Treviso, che viene imbianchito con l'uso delle acque di risorgiva del Sile e di altre risorgive della zona dei fontanili.
La varietà tardiva trevigiana è la più antica tra quelle oggi coltivate e la prima notizia certa risale al 1862, in un articolo apparso ne L'Agricolo, Almanacco pel 1862 con indicazioni sull'andamento dei bachi e solforazione delle viti (Anno I, Treviso), in cui si illustrò l'imbianchimento del radicchio. Già nel 1870 la varietà era nota in tutta Italia e veniva diffusamente commercializzata; le prime esportazioni verso i mercati esteri si ebbero nel 1884 e la prima mostra-mercato a Treviso, in Piazza dei Signori sotto la Loggia, fu inaugurata nel 1900.
Secondo una tradizione ormai consolidata e storicamente documentata, la patria di origine del radicchio rosso e delle relative tecniche di imbianchimento con l'uso di acqua sorgiva fu Dosson in comune di Casier (TV).
Il tecnico che più si è adoperato per trasformare il radicchio del passato nello splendido “fiore che si mangia” è stato l’agronomo lombardo Giuseppe Benzi, arrivato nel Trevigiano nel 1876 come insegnante di agraria, poi nominato direttore dell’Associazione Agraria Trevigiana. Grazie a questo incarico il Benzi diede avvio a numerosi sperimenti in campo per migliorare questa cicoria di cui si era innamorato. E fu lui a organizzare il 20 dicembre del 1900. sotto la Loggia in Piazza dei Signori, la Prima Mostra del Radicchio rosso di Treviso. Un giornale dell’epoca così descrisse il radicchio rosso trevigiano: “… modesto dapprima, quasi pauroso di cattiva accoglienza, non usciva dalla provincia se non per ricordare a qualche lontano amico i dì felici e il patrio nido… e il giovin core: esce oggi a quintali, a carri, a vagoni interi, penetra in tutte le regioni italiane, supera il mare arrivando in America; valica l’Alpe giungendo nel cuore dell’Europa.”
Già allora il radicchio rosso era l'ortaggio più importante del Trevigiano. Come riportano le cronache del tempo, solo a Dosson ne venivano prodotti oltre 400 quintali l'anno, per l’enorme valore di circa 10.000 lire dell'epoca; molte famiglie ne traevano redditi di 3-400 lire l'anno, giungendo a 1500-2000 lire nelle annate eccezionali. I prezzi variavano da 15 a 30 lire al quintale per la merce comune, fino a 80 lire e più per la migliore. Dopo questo periodo felicissimo per la produzione e il commercio del radicchio rosso di Treviso ne seguì un altro meno fortunato e precisamente tra la fine del secondo decennio e il quarto decennio del ‘900. In quei lunghi anni nei quali aumentò in Italia anche la povertà, la coltura del radicchio subì un rallentamento e allo scoppio della seconda guerra mondiale i produttori si erano ridotti a soli 55, per una produzione complessiva inferiore a 2700 quintali.
Nel corso degli anni 50-60 del secolo scorso la produzione è decisamente riprese, fino all'attuale produzione di più di 40.000 q l'anno su una superficie di 550 ha in continua crescita. L'area di produzione tipica comprende i comuni di Carbonera, Casale sul Sile, Casier, Istrana, Mogliano Veneto, Morgano, Paese, Ponzano Veneto, Preganziol, Quinto di Treviso, Silea, Spresiano, Trevignano, Treviso, Vedelago, Villorba, Zero Branco (TV); Piombino Dese, Trebaseleghe (PD; Martellago, Mirano, Noale, Salzano, Scorzè (VE).
È ormai assodato che il Radicchio rosso di Treviso è alla base di tutte le altre varietà di radicchio coltivate nel Veneto. Attualmente, le produzioni venete tutelate dall'Indicazione geografica protetta comprendono il Radicchio rosso di Treviso, il Radicchio variegato di Castelfranco, il Radicchio rosso di Chioggia, il Radicchio rosso di Verona mentre sono classificati come Prodotti agroalimentari tradizionali il Radicchio bianco Fior di Maserà, il Radicchio bianco o variegato di Lusia, e il Radicchio variegato bianco di Bassano, oltre alla Catalogna gigante di Chioggia.
Il Radicchio variegato di Castelfranco deriva probabilmente dall'ibridazione tra il Rosso di Treviso e l'indivia scarola a foglie di lattuga (Cichorium endivia) e la sua area di coltivazione ricalca in buona parte quella del Radicchio rosso di Treviso, comprendendo anche zone al di fuori della fascia delle risorgive come il comune di Mira (VE). L'imbianchimento è obbligatorio, ma si attua con tecniche leggermente diverse rispetto al più nobile cugino. Il Radicchio rosso di Chioggia (foto sotto) deriva dal Variegato di Castelfranco. Venne selezionato tra gli anni '30 e i '50 del Novecento per ottenere un arrossamento più marcato e una più facile coltivazione nei comuni lagunari. È attualmente la varietà di radicchio più coltivata e consumata in Italia, anche se il disciplinare I.G.P. ne prescrive la coltivazione nei soli comuni di Chioggia, Cona e Cavarzere (VE).



Il Radicchio rosso di Verona è stato selezionato alla fine degli anni '50 del secolo scorso, direttamente dal Radicchio rosso di Treviso ed è coltivato in molti comuni della provincia scaligera, con alcune zone limitrofe del Vicentino  e del Padovano.
Due altre varietà derivano da selezioni locali del Radicchio variegato di Castelfranco; il Radicchio variegato di Maserà, coltivato nei Comuni di Borgoricco, Camposampiero, Loreggia, Maserà, Massanzago, Piombino Dese e Trebaseleghe (PD), e il Radicchio variegato di Lusia, coltivato nei dintorni del comune polesano.
Tornando nel Trevigiano (Roncade e aree limitrofe) c’è un radicchio primaverile di straordinario interesse, il Radicio verdon da cortel, dall’aspetto di rosellina di un bel color verde carico, gustosa e croccante. È ottimo col celebre piatto veneto dei “radici e fasjoi”.
Concludo questa ampia presentazione del radicchio coltivato con i due gioielli goriziani: il Rosa di Gorizia e il Canarino, entrambi ecotipi di Cichorium intybus. Il primo deve il suo nome alla peculiare forma a bocciolo di rosa del cespo, il secondo al colore giallo chiaro delle foglie. Si tratta di ecotipi selezionati nel corso del tempo dai contadini di Gorizia e si presume che derivino dal radicchio importato dal Veneto e più precisamente dal Trevigiano agli inizi dell’Ottocento  e successivamente adattato alle condizioni ed esigenze locali.

martedì 6 gennaio 2015

Il vino “Grapariol” di Barbaran

Una straordinaria riscoperta in terra trevigiana
di Giampiero Rorato



La Marca Trevigiana conserva ancora, fortunatamente, antichi vitigni autoctoni che l’irruente ingresso, soprattutto dalla metà del secolo scorso, di alcune varietà transalpine aveva gettato velocemente nel dimenticatoio. “Il Merlot è più richiesto del Raboso”, si diceva e chi voleva rinnovare le proprie vigne piantando barbatelle di Raboso e chiedeva un prestito alle banche non era neppure ascoltato. Ma l’amore per il patrimonio trasmesso dalle generazioni, pur molto ridottosi nella seconda metà del secolo scorso, ha permesso di conservare alcuni antichi vitigni autoctoni  che, pur in tempi diversi, stanno conoscendo una nuova primavera. Ed ecco allora riprendere vita il Raboso del Piave, il Raboso Veronese, il Verdiso, il Verduzzo Trevigiano, il Verduzzo Motta e il Marzemino di Refrontolo (presentato su queste colonne lo scorso mese). E ci sono altri vitigni in attesa di essere rilanciati, come la Bianchetta, la Perera, la Marzemina bianca, la Boschera, e la Rabosina bianca, il cui vino è noto col nome di Grapariol.



Il Grapariol

Come ci ricordano due ben noti studiosi di antichi vitigni veneti Severina Cancellier ed Enzo Michelet, l’origine del Grapariol è molto antica, infatti già nel Seicento Jacopo Agostinetti nella sua opera ormai famosa dal titolo Cento e dieci ricordi che fanno il buon fattor di villa afferma che venivano coltivate nel Trevigiano delle varietà bianche denominate Rabosa, tra le quali la Rabosina e la Rabosazza. Anche nell’Ampelografia trevigiana del 1870 vengono descritti due vitigni con questo nome: la Rabosina bianca e la Rabosa bianca. La prima “offrendo un vino ricco di tannino e assai serbevole, e riuscendo bene nella pianura di Oderzo dovrebbe propagarsi, scrive l’Agostinetti, in tutte le parti basse della pianura provinciale in surrogazione delle uve Verdiso e Pignolo”.
Anche la Rabosa bianca risulta coltivata da tempi assai remoti, ma nella parte più alta della pianura del Piave sotto Conegliano e soprattutto a Vazzola..”Quest’uva è poco coltivata pel poco acido sapore. Si consiglia la propagazione della Rabosina che la vince in merito di vinificazione”, conclude il buon fattor di villa vissuto tra Cinque e Seicento.



Il Grapariol Barbaran

Un bel giorno, nel corso degli anni 90 del secolo scorso, il prof. Simeone Barbaran - la cui famiglia possedeva fin dal XVI secolo una bella azienda agricola produttrice di vino a Zenson di Piave, proprio alle spalle della chiesa, sulla destra del sacro fiume, tra Treviso e San Donà di Piave, - terminata la docenza, si dedicò con passione ed amore alla viticoltura e scoprì, vicino alla sua proprietà, un vecchissimo vigneto che stava per essere sradicato. S’incuriosì e fece analizzare quei vitigni dalla dott.ssa Cancellier, affermata ricercatrice dell’istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano e seppe che si trattava proprio dell’antica Rabosina bianca che stava da tempo cercando seguendo quanto aveva scritto l’Agostinetti. Bloccò per un po’ l’eliminazione di quella vigna, innestò le talee raccolte in un suo vigneto, altre le fece moltiplicare da esperti vivaisti e realizzò in una terra di sua proprietà un altro vigneto.



Affidatosi agli studi dell’Istituto di Conegliano, quel vitigno che cresceva ormai nella sua proprietà fu classificato come “Grapariol Barbaran” che risultò essere. un vitigno a sé stante, distinguibile da quelli allora iscritti al Registro nazionale delle varietà di vite: infatti ai controlli biomolecolari risultò diverso dai vitigni fino ad allora inseriti nella Banca dati del laboratorio di biologia molecolare della Sezione ampelografia e miglioramento genetico dell’Istituto sperimentale per la viticoltura di Conegliano.
Dalla prima prova di vinificazione in bianco, intesa nella procedura più classica, quindi senza contatto con le bucce, fatta nel 2004, con la diretta sorveglianza del dott. Michelet, uno dei massi esperti di enologia, è stato ottenuto un vino abbastanza colorato, con sentori floreali, profumi fruttati, specialmente di mela. Gustativamente il vino ottenuto risultò  fresco, acidulo e sapido, con retroolfatto che ricorda fiori freschi e frutta acerba.



In anni recenti l’azienda è guidata da Fabio Barbaran, figlio del professore, il quale, con la consulenza di esperti enologi e dopo diverse prove, ha molto affinato il suo Grapariol e attualmente lo produce nelle tre versioni: tranquillo, frizzante e spumante, con esiti qualche anno fa inimmaginabili.
Si tratta, infatti, di un vino di grande e riconosciuta eccellenza, piacevolmente acidulo, fresco, ricco dei profumi dei prati in fiore a primavera e di frutta bianca non ancora matura. Un gran vino da pesce, stupendo col baccalà mantecato alla veneziana, ma straordinario compagno anche dei risotti primaverili alle erbe spontanee di campo, di tortelli in brodo e dei primi piatti della tradizione veneta come anche delle carni bianche. Sposa bene i formaggi freschi, come la Casatella Trevigiana Dop, il Montasio giovane e formaggi simili. Il Grapariol Spumante, è stato detto da esperti sommelier, non teme assolutamente il confronto col più conosciuto e celebrato Prosecco, che è, come noto, il vino bianco italiano più richiesto nel mondo. .  




Barbaran Vigne e Vini di Barbaran Fabio e C.
Via Don Giacomin 6
Zenson di Piave (Treviso)
Tel. 0421.344163
www.barbaran.it

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