Venezia: la
tradizione gastronomica
Le
isole della laguna erano già abitate in epoca paleoveneta, al pari di Altinum,
città della quale abbiamo numerose testimonianze di autori latini relative ai
prodotti agroalimentari e ai cibi disponibili. Non così per gli abitanti delle
isole, infatti il primo documento che ci dà una qualche informazione sulla loro
alimentazione è la celebre lettera che Cassiodoro, il grande rètore giunto a
Ravenna dalla natia Squillace al servizio di Teodorico, scrisse nell’anno 537
ai tribuni marittimi della Venezia: “Un’unica risorsa hanno gli abitanti [delle
isole], quella di mangiare solamente pesci a sazietà. Ivi ricchi e poveri
vivono allo stesso modo. Un identico cibo sostenta tutti…”.
Quando
Cassiodoro scrive questa lettera correvano tempi grami per gli abitanti delle
Venezie, per le continue invasioni di sanguinarie orde straniere, già allora definite
“barbariche”. Il periodo peggiore è quello che va dalla metà del V secolo,
quando Attila invase il Veneto, mettendolo a ferro e fuoco, a oltre due secoli più
tardi, quando, dopo aver scorazzato per gli stessi luoghi, depredando e
distruggendo città e villaggi, i Longobardi, convertiti al cristianesimo romano
(prima, infatti, erano ariani), rallentano le loro scorrerie, facendo rinascere
la vita in terraferma, grazie anche all’ala protettrice dei monasteri
benedettini. In quei due terribili secoli
da Julia Concordia, Altinum, Opitergium, Tarvisum, Padua e dalle terre
d’attorno, gli abitanti furono costretti più volte ad abbandonare precipitosamente
le loro case, trovando salvezza, rifugio e una nuova patria nelle isole della
laguna, dando così origine alla città di Venezia.
Inizialmente
il cibo era dato ancora dal pesce, poi, grazie a situazioni più tranquille, s’erano
andati sviluppando nuovi e interessanti rapporti tra la laguna e la terraferma
con lo scambio di prodotti della campagna, carni e cereali soprattutto, con il
sale prodotto nelle isole.
Con
il passare del tempo le condizioni alimentari migliorano e Pompeo Gherardo
Molmenti, ne La storia di Venezia nella vita privata, riferendosi ai
secoli antecedenti e attorno al Mille, afferma che “il vitto dei primi
Veneziani, oltre che di carne di bove, di capretto, di maiale, era composto
anche da quanto offriva in gran copia la caccia e la pesca, che sappiamo quanto
fossero attive. Sulle lagune, numerosi gli uccelli palustri, come le anitre
selvatiche (osele), i maggioringhi (i germani reali), le folaghe, i
chiurli, le cercerdule, le arzagole; di svariate specie i pesci dell’Adriatico
e dei fiumi; abbondante la selvaggina nelle selve dell’Estuario. Erbaggi e
frutta si ritraevano delle campagne e dagli orti dell’Estuario. S’intende che,
pur non dipartendosi la città in sul principio da un modesto tenore di vita, le
mense dei ricchi e dei poveri erano variamente fornite. Oltre che più copiose e
di più larga scelta, le vivande dei ricchi doveano essere condite con molte
spezie, che venivano in gran quantità dall’Oriente. Così dalla Siria e
dall’Egitto, sin dal 996, fu portato lo zucchero, che divenne quasi un
monopolio per i Veneziani, i quali giunsero nella raffinatura a una perfezione
maggiore che altrove. Non tardò quindi l’uso delle pasticcerie, e le carte
antiche parlano spesso di marzapani, zeli (zaletti), pignocade,
codognade, storti, occhietti, spongade e specialmente di scalette,
dalle quali venne la denominazione vernacola di scaletteri ai
pasticcieri.”
Come
si vede, le tavole veneziane in pochi secoli s’erano notevolmente arricchite e
lo saranno ancor più dopo la spedizione in Adriatico del doge Pietro Orseolo
II, avvenuta allo scoccare dell’anno Mille e soprattutto dopo la conquista di
Costantinopoli del 1204, quella impropriamente chiamata la “Quarta Crociata”, in
seguito alla quale Venezia divenne la dominatrice dei mari e il grande emporio europeo
delle spezie.
“Con
la prosperità – scrive ancora il Molmenti – crebbe il gusto della buona tavola,
e vi si aggiunse l’amore del lusso, che diventò così diffusa consuetudine ne’
banchetti da parere disdicevole; ond’è che hanno principio nel XIV secolo le
leggi moderatrici dell’eccessivo dispendio nei pranzi e nelle cene.”
Una
testimonianza preziosa del cibo delle case signorili veneziane, ma anche di
quelle della terraferma alle spalle di Venezia, la troviamo nel Libro per
cuoco, scritto verso la fine del XIV secolo da un autore, cuoco o
gastronomo, rimasto anonimo, ma sicuramente veneziano o veneto, le cui 135
ricette mostrano la ricchezza della tavola veneziana, dove emerge, fra l’altro,
l’impiego di una straordinaria quantità di spezie (24 volte “spezie generiche”;
2 ”spezie bone”; 13 “spezie dolci”; 16 “spezie dolci e forti”; 5 “spezie dolci
fini”; 9 “spezie fini”; 3 “spezie forti”, per un totale di 72 impieghi di
spezie miste per 135 ricette. Inoltre: sono impiegati 4 volte l’anice, 7 la
cannella, 4 il cardamomo, 27 i chiodi di garofano, 17 il cinnamomo, 1 volta il
coriandolo, 10 la noce moscata, 8 il pepe, 4 il pepe lungo, 3 il sommaco, 30 lo
zafferano, 29 lo zenzero).
I
prodotti fin qui ricordati, presenti nella cucina veneziana medioevale: pesce e
naturalmente crostacei e molluschi, uccelli di valle, selvaggina di piuma e di
pelo, carni bovine, caprine e suine, frutta, ortaggi, zucchero, spezie, dolci e
biscotti vari, rappresentano la base della successiva cucina che andrà
arricchendosi e ingentilendosi con ulteriori proposte, anche nella ricerca di
quel piacere della tavola, frutto non solo della nuova ricchezza ma di una
cultura gastronomica che, nel Rinascimento,
pone Venezia ai vertici della cucina europea.
Grazie
agli intensi scambi col Levante, il Nord Africa, la Spagna e i Paesi bagnati
dall’Oceano Atlantico e ai tanti prodotti importati, i cuochi veneziani
variano, affinano e ingentiliscono i piatti, soprattutto in occasione delle
tante feste tenute nel corso dell’anno, facendo loro acquistare una ben precisa
identità. Già nel Quattrocento e ancor più nei secoli successivi, la cucina
veneziana del patriziato e della ricca borghesia si distingue da altre cucine
delle corti italiane per la possibilità
di operare con una maggior varietà di prodotti, per un’accurata scelta della
materia prima, per l’uso delle spezie e soprattutto per preparazioni che
mostrano un respiro internazionale.
E a
proposito della grande disponibilità di prodotti, merita citare un breve
dialogo fra il borghese Lissandro e l’oste Menego nella commedia goldoniana Chi
la fa l’aspetta del 1764. A un certo punto della trattativa fra i due per preparare
una cena in casa di Lissandro si parla di carne:
Osto:
Cossa vorla de rosto?
Lissandro: Cossa gh’aveu de bon?
Osto:
Lonza, Straculo, Cinghial, Lievro, Agnello, Cavretto, Polastri, Dindj,
Capponi, Anere, Quagge, Gallinazze, Beccanotti, Pernise, Francolini, Fasani,
Beccafighi, tutto quel che la vol.
Lissandro:
Tutta sta roba gh’avé?
Osto:
La comandi, e no la dubita gnente. Semo a Venezia, sala! No ghe nasse
gnente, e ghe xe de tutto, e a tutte le ore, e in t’un batter d’occhio se trova
tutto quel che se vol. La comandi.
Da
allora, la cucina veneziana continua ad
attingere a piene mani ai prodotti delle isole, della laguna, del mare
Adriatico e della terraferma e della montagna veneta e friulana, nonché, come
in passato, ai tanti prodotti importati e possiede ancor oggi profumi e sapori che richiamano l’Oriente, come
ha piatti che si trovano nei Paesi che appartennero in passato alla Dominante.
La cucina veneziana attuale
Come
la storia, anche la cucina è sempre in movimento, resta comunque vero che i
piatti più caratteristici della cucina veneziana attuale arrivano da lontano.
Il baccalà mantecato, ad esempio, realizzato la prima volta all’inizio
del ‘600, quando l’influenza della lingua spagnola – gli Spagnoli dominarono
Milano e la Lombardia dal 1535 al 1706 – fece cambiare il nome al merluzzo
essiccato che, da stoccafisso divenne nel Veneto baccalà ed è
leccornia ancor oggi presente in tutti i locali veneziani. Lo stoccafisso fu
conosciuto per la prima volta 1432 dal capitano de mar veneziano Piero Querini,
in seguito al suo naufragio nelle
Lofoten, ma arrivò a Venezia solo dopo la conclusione del Concilio di Trento,
avvenuta nel 1563. E da lontano arriva la castradina, tradizionale ancor
oggi nella festa della Madonna della Salute, il 21 novembre, realizzato con la
carne di castrato che i veneziani conoscono già dal 1173,. come attesta il calmiere
del doge
Sebastiano
Ziani in cui è menzionata la sicce vero carnis de Romania et de
Sclavinia, a indicare la provenienza di quella carne dalla Dalmazia
meridionale, dal Montenegro e dall’Albania. Era infatti lungo quelle coste che
le navi veneziane caricavano le mezzene di castrato essiccato e affumicato,
quale preziosa scorta alimentare. E quando le navi tornavano a Venezia la carne
rimasta veniva data ai marinai e doveva essere consumata, per disposizione
delle autorità, entro il 21 novembre di ogni anno.
Fra
i piatti veneziani d’antica storia ci sono gli sfogéti in saòr, per
secoli il piatto dei pescatori nella cena organizzata lungo le rive della loro
parrocchia di Santa Marta, in occasione della festa della patrona, il 29
luglio. Poi, introdotte a Venezia dagli Schiavoni, arrivarono anche le sarde
in saòr, presenti da sempre in Dalmazia, gustate in barca nella notte del
Redentore.
Nel
‘500 arriva nella terraferma veneta anche il riso e i piatti di più antica
datazione sono i risi co’ l’ua (minestra di riso con l’uva passa) di
chiara ispirazione bizantina; i risi e bisi, che era il piatto
immancabile sulla tavola del Doge il 25 aprile, festa del patrono san Marco; i risi
cola castradina, conditi con un sugo di carne di castrato; i più popolari risi
cola fongadina (con le frattaglie di vitello o d’agnello) e, prima che
tramonti il secolo, soprattutto nelle isole, ecco arrivare in tavola risi e
fasioi in brodo de gò. Nei secoli seguenti arriveranno altri risotti,
arricchiti di sapore con ogni tipo di pesci, molluschi e crostacei, con le
verdure dell’estuario e con altre carni. Ne citiamo uno, particolarmente
interessante, divenuto in tempi recenti minestra asciutta, il risotto co le
sécole, cioè con i pezzetti di carne rimasti attaccati alle ossa dopo che
il bovino è stato interamente spolpato, grande gloria gastronomica della cucina
veneziana dei secoli passati.
Molto
prima di questi piatti ce n’erano comunque altri di molto interessanti,
soprattutto in casa dei pescatori, fra cui la sopa de pesse, ottenuta
con gli scarti del pescato, che, diventando asciutta, si trasformò in un altro
piatto delizioso, il brodetto de pesse, uno stufato che si trova solo in
territorio veneziano e a Grado e poi ancora l’anguilla, molto ricercata e
preparata in tanti modi, alcuni ormai dimenticati: bisato in grea, bisato a
la caéna, bisato in speo, bisato su l’ara, bisato scotà, bisato imbriago, bisato
infumegao (a Chioggia), bisato incoconao (altra ricetta
chioggiotta), bisato marinà e bisato fritto. Queste ricette danno
conto della fantasia dei veneziani del passato e della loro capacità di
realizzare preparazioni molto gustose e appetitose con una materia prima
facilmente reperibile, come lo erano anche, in laguna, i folpi, i go,
le varie famiglie di cefali, fra cui i lotregani e le volpine.
Venezia,
come scriveva Cassiodoro, ha sempre fatto uso di pesce, specie il popolo minuto
e le cotture erano principalmente due: il pesce piccolo veniva fritto, il
grande bollito
E i
patrizi? La loro era molto diversa, era cucina di carne, che a Venezia è quasi
scomparsa, rifugiatasi comunque nell’adiacente terraferma dove continua a
primeggiare su tutte le tavole.
Possiamo
fermarci qui, aggiungendo soltanto che al tempo della Belle Époque, poco più di
un secolo fa, con l’avvento del turismo, essendo Venezia città di mare, la sua
cucina è andata privilegiando decisamente il pesce, elevando a livelli di alta
gastronomia l’antica cucina dei pescatori e del popolo, introducendo, anche nei
locali più alla moda, moéche, masanéte, schie, gamberetti
di laguna, folpi e pesce azzurro e conservando decisamente i vecchi piatti
isolani, come le castraùre di Sant’Erasmo, frutto di una civiltà che,
nei secoli della Serenissima, ha idealmente unito a tavola Occidente ed
Oriente.