venerdì 27 giugno 2008

La cultura del bere per il rispetto della vita

Ecco l'intervento che terrò all’incontro annuale delle Delegazioni veneto-friulano della Fisar
Portogruaro 29 giugno 2008, Villa Marzotto


Questo tema, già proposto e sviluppato dal Presidente Nazionale della Fisar, Vittorio Cardaci Ama, nella cornice dello scorso Vinitaly, a Verona, è di pregnante attualità, non tanto perché il bere alcolici rappresenti oggi un problema più grave e più serio o più deleterio che in passato, proprio no, ma perché oggi, pur essendo diminuito l’alcolismo un tempo assai diffuso nelle nostre campagne, c’è una maggiore consapevolezza, a livello generale, dei danni apportati alla vita delle persone da uno smodato assorbimento di bevande alcoliche, fra le quali il vino rappresenta tuttavia un aspetto secondario rispetto ai superalcolici e ai cocktail da discoteca.
Il tema in esame pone un obiettivo che è, per le conoscenze che possediamo e per il livello di civiltà in cui viviamo, doveroso da raggiungere o comunque da tener costantemente presente nell’agire quotidiano ed è il rispetto della vita; ed è alla luce di questo doveroso atteggiamento nei riguardi della vita che va visto il nostro rapporto con alcolici e superalcolici.
Poniamoci allora, in via preliminare, una domanda la cui risposta non è per nulla scontata: che cosa significa “rispetto della vita”?
Permettete che inizi questa mia breve comunicazione da qui, soffermandomi sulla nostra vita o, meglio, su ciò che noi siamo.
E mi chiedo: perché devo rispettare la vita? Che valore ha la mia vita?
Fu la cultura greca, cinque secoli prima di Cristo, a scoprire per prima il valore individuale di ciascuno di noi e a definire uomini e donne “individui” soggetti alla legge e riconosciuti dalla legge, distinguendoli quindi all’interno dei rispettivi gruppi umani di appartenenza. E fu Roma, nella sua saggezza, a definire i suoi abitanti “cittadini”, cui la legge attribuiva e quindi riconosceva, oltre a dei doveri, anche dei diritti. È famoso l’episodio di san Paolo, il quale, mentre era diretto a Roma, avendo fatto naufragio a Malta, fu preso dai soldati romani di guardia e stava per essere ucciso come fosse un invasore, quando riuscì ad esclamare: “Civis romanus sum”, “sono cittadino romano” e quindi fu trattato rispettando i suoi diritti di cittadino romano.
Ma anche a Roma i cittadini erano titolari di diritti solo perché glieli riconosceva lo Stato, per cui uno straniero non aveva diritti e poteva essere ridotto allo stato di schiavo, ragion per cui la sua vita non aveva per lo Stato romano alcun valore; non c’era, insomma, rispetto per la vita se uno era straniero e poteva essere tranquillamente dato in pasto alle fiere durante gli spettacoli nel Colosseo, tra lo sguaiato sghignazzare della plebe, felice dello spettacolo offertole gratuitamente.
È stata la cultura ebraica, fatta propria e migliorata dal cristianesimo, a compiere il grande salto, ad affermare cioè che l’individuo dei greci, divenuto cittadino a Roma, era anche e soprattutto persona, cioè titolare di diritti che non gli provenivano dall’appartenere ad uno Stato, ma dalla sua stessa natura di creatura di Dio, come afferma la Bibbia, sia nell’antico come nel nuovo “Testamento”, ben precisato dai Vangeli, dalle lettere di san Paolo e degli altri apostoli, dagli Atti e dall’Apocalisse.
Con la cultura giudaico-cristiana, e soprattutto cristiana, la persona scopriva d’essere un valore, indipendentemente da qualsiasi legge e da qualsiasi Stato, e tale riconoscimento entrava poi nella cultura occidentale, diventando il fondamento della legislazione moderna dei Paesi civili.
È da ciò che deriva il principio secondo cui lo Stato è a servizio dei cittadini e non i cittadini a servizio dello Stato.
La mia vita, dunque, è un valore che trascende le leggi degli Stati, così come trascende la mia fragilità, le mie debolezze, i miei errori.
Che cosa significa tutto questo? Che la vita è sacra già per se stessa e, per la nostra cultura, se sappiamo vederla alla luce della civiltà occidentale che trova fondamento nella civiltà greca, romana e giudaico-cristiana o pur anche soltanto alla luce del cristianesimo.
All’interno di questo nostro mondo ci sono anche individui che rifiutano di riconoscere le colonne portanti della cultura occidentale, così come l’ho appena indicata, trovando comunque altri validi motivi per riconoscere il valore della vita umana.
È in funzione di questo riconoscimento, la sacralità della vita, o, meglio, il riconoscimento della vita come valore trascendente il tempo e il luogo della permanenza fisica sulla terra, che essa merita grande rispetto. La vita dell’uomo e della donna, certo, ma anche soltanto il corpo fisico, anche quando la vita, come l’intendiamo noi, si è conclusa.
Il cristianesimo, come tante altre religioni, ha grande rispetto anche del corpo dopo la morte e lo incensa, e le cerimonie funebri di ogni religione, il culto dei morti ovunque diffuso, testimonia di questo radicato convincimento.
E allora come si deve rispettare la vita?
Se la vita delle persone fosse il frutto del caso e tutto cessasse con la morte fisica, perché soffrire, perché privarci delle gioie che possiamo arraffare, perché rinunciare ad un calice di vino che ci attira?
Ma non è così, la vita non è frutto del caso, e il nostro Presidente Nazionale, invitandoci con forza a porre la nostra attenzione di fisariani su questo argomento, ci dice che la filosofia che sottende all’attività della nostra Federazione è chiaramente e decisamente sulla linea consolidata nei secoli da quei valori culturali e civili che hanno dato sostanza alla civiltà occidentale.
E allora?
Ogni comportamento umano è, dovrebbe essere, rispettoso della sacralità della vita, funzionale alle sue esigenze, capace di aiutarla ad esprimere appieno le sue potenzialità, tenendo lontano tutto ciò che può in qualsiasi modo esserle di danno.
In Italia la legislazione tiene conto di questo aspetto ed è, di solito, in funzione del rispetto della vita. La nostra legislazione sociosanitaria, ad esempio, è la migliore del mondo e sostiene al massimo le esigenze di vita di tutti indistintamente i cittadini. Negli Usa, mi si lasci ricordare, l’assistenza sanitaria pubblica ignora decine di milioni di poveri, quelli che non possono pagare un’apposita assicurazione, perciò lì, pur essendo gli USA considerati una delle forti democrazie mondiali, c’è ancora poco rispetto per la vita e c’è ancora tanta strada da percorrere per raggiungere questo fondamentale traguardo di civiltà.
Lo stesso nostro Codice della Strada, con i suoi divieti e le sue pesanti sanzioni – come del resto avviene in tanti altri Paesi – è in funzione della difesa della vita, quindi, del rispetto della vita.
Alla vita si può attentare in tanti modi e l’abuso dell’alcol è uno di questi.
Ma se riconosciamo in modo serio e convinto il valore della vita, un valore che trascende anche la nostra stessa volontà, perché la vita ci è stata data, non è nostra, non siamo noi ad aver deciso di nascere; se facciamo nostra la saggezza delle generazioni e ci riconosciamo figli di quella civiltà che nasce oltre due millenni or sono in Grecia, alimentata da uomini come Socrate, Platone, Aristotile; che si sviluppa nella Roma repubblicana e imperiale, grazie a tanti pensatori e uomini di cultura; che sfocia poi nel filone giudaico-cristiano che ha nell’intera Bibbia, nei grandi pensatori e studiosi ebrei e nei Padri della Chiesa cristiana i suoi precisi riferimenti, allora non abbiamo dubbi, non possiamo averli.
Anche nel bere alcolici, così come nel correre per le strade e ancora nei posti di lavoro, nel nostro tempo libero e in famiglia, l’impegno principale d’ogni essere razionale deve essere quello di amare questa vita che ci è stata donata, conoscere ed evitare tutto ciò che può minacciarla, ferirla, o addirittura ucciderla, sostenendola quando vacilla, confortandola nei momenti tristi, difendendola e rispettandola sempre.
Su queste basi, non credo su altre, si può costruire anche una seria e solida cultura del bere intelligente, rispettoso della vita umana, quella propria e quella degli altri.