martedì 12 aprile 2011

Le castraure di Sant’Erasmo

Le castraure di Sant’Erasmo
Il primo fiore del carciofo violetto della Laguna Nord di Venezia


Il carciofo violetto di Sant'Erasmo
“Domani qui arriverà tanta gente, sospirò Cosetta, e io con questo pancione qui non so come riuscirò a far sera.” Cosetta era un po’ preoccupata, la sua gravidanza era abbastanza avanti, ma seduta nella cucina da campo sorrise a Carlo, suo marito, che ogni tanto s’avvicinava a lei con sguardi di protezione, mentre controllava che le strutture per la festa fossero ben approntate. A Cosetta l’improvvisato comitato promotore della manifestazione aveva assegnato per il giorno della presentazione del Carciofo violetto di Sant’Erasmo due incombenze, fra loro molto diverse: illustrare a quanti sarebbero intervenuti un po’ di storia e dell’isola e del carciofo violetto e poi aiutare altre donne a preparare in cucina i piatti di carciofi e di castraùre per la degustazione. Con la suocera, cuoca provetta e con le altre mogli degli ortolani aveva scelto il menu degustazione consistente in tre piatti da preparare in buon numero e tutti al momento e cioè castraure con scaglie di grana, lasagne con paté di carciofi, e, come terzo piatto, carciofi in técia e fondi di carciofo in técia. Tutto qui, ma i profumi e i sapori caratteristici dei carciofi violetti di Sant’Erasmo c’erano per intero.

La sera, a casa loro, in via de la Boaria Vecia, assieme ad altri orticoltori dell’isola, Carlo e Cosetta diedero un’ultima ripassata all’intenso programma che avevano preparato per la festa. Era la prima volta che gli ortolani dell’isola di Sant’Erasmo, nella Laguna nord di Venezia, con l’aiuto della loro associazione sindacale, la Coldiretti veneziana e il patrocinio del Comune organizzavano alla grande una manifestazione per far conoscere alle autorità, ai ristoratori, alle associazioni agroalimentari veneziane e ai buongustai l’alta qualità e la bontà dei loro carciofi e soprattutto delle loro castraùre, che avevano cominciato a raccogliere da qualche settimana e che stavano per esaurirsi, lasciando spazio ai botoli, ai sottobòtoli e agli ultimi carciofi dalle brattee coriacee. Ciascun orticoltore, uomini e donne, sapeva quale era il suo compito e il mattino dopo, al primo suono delle campane della chiesa, in tanti si sarebbero trovati alla Torre Massimiliana, pronti ad accogliere autorità, ospiti e i numerosi buongustai, appassionati e curiosi che sarebbero arrivati in taxi, in vaporetto o con le loro barche per gustare le castraure e i carciofi e anche per acquistarli.

Cosetta, nelle settimane precedenti, aveva ripreso in mano un libretto sulla storia dell’isola e sui suoi tanti prodotti agroalimentari, in particolare il carciofo violetto, scritto anni prima dalla Coltivatori Diretti veneziana e s’era riscritta al computer le cose da dire al microfono davanti alla Torre Massimiliana e, verso le undici del mattino, quando vide che c’era abbastanza gente, chiese all’orchestrina di fermarsi e prese il microfono per parlare di quella sua isola che non avrebbe abbandonato per nessun altro luogo al mondo. Salutò i presenti, molti dei quali, pensava, erano giunti lì probabilmente per la prima volta in vita loro e iniziò subito a parlare di Sant’Erasmo.

“Questa nostra isola straordinaria, disse con voce chiara in buon italiano ma con la cadenza musicale veneziana, si trova nella parte nord della Laguna, quasi a ridosso della penisola del Cavallino e della bocca di porto del Lido. È la più grande isola della Laguna, lunga 4 km e larga tra 400 e 900 metri e sul finire del ‘600 un grande cartografo e geografo veneziano, il francescano Vincenzo Maria Coronelli (1650-1718) l’ha così descritta nel suo “Isolario dell’Atlante Veneto”: «Fra le isole che fanno argine alla Laguna di Venezia, si communera quella di Sant’Erasmo con belle vigne e giardini, da’ quali si somministra alla Metropoli quantità di erbaggi e frutti perfetti». Già allora, dunque, ma da molto prima, l’isola di Sant’Erasmo, oltre a produrre, come oggi, del buon vino e della frutta gustosa, era considerata l’orto di Venezia nel quale si producono le verdure che arrivano ogni giorno ai mercati di Rialto e, soprattutto, quelle primizie che fanno di quel mercato uno dei più ricchi, interessanti e frequentati e pittoreschi del Nord Italia. Castraùre, bòtoli, carciofi, cardi, sparesèe, bisi, insalate, zucchine, fragole e altri ortaggi e frutti deliziosi, prodotti a Sant’Erasmo, grazie a un terreno particolarmente vocato all’orticoltura e a un clima ideale, si impongono da secoli per la bontà del loro sapore, per la loro fragranza e per la molteplicità degli usi gastronomici. Se i piselli sono immancabili nel piatto dogale del 25 aprile, festa del Patrono San Marco, in quei risi e bis che dalla prima metà del ‘500 compaiono puntualmente ogni anno sulle mense veneziane, le castraùre rappresentano una straordinaria delizia gastronomica di nicchia che solo a Venezia, difficilmente nella sua stessa terraferma, si può gustare e questo solo nel mese di aprile, come eccellenti e unici sono i carciofi violetti prodotti nella nostra isola.

“Ed ora, continuò Cosetta vedendo che tutti la stavano ascoltando con attenzione, vi parlo di questa nostra bella isola. Qui abitiamo in circa un migliaio di persone, la maggior parte delle quali lavora nell’agricoltura, ma Sant’Erasmo ha storia antica, essendo già abitata da pescatori e agricoltori prima dell’arrivo dei Romani, duemila anni fa, come del resto le altre isole della Laguna che poi diedero vita alla città di Venezia. È interessante notare che nei tempi antichi l’isola ha cambiato nome per ben sei volte: inizialmente era denominata Lido Mancese o Mercede, poi Lido Albo, per via della sua sabbia bianca, Lido Bromio, Lido di Torcello o di Burano, perché qui venivano a prendere il sole e a fare il bagno gli abitanti di quelle isole, quindi Pineta Maggiore, perché c’erano numerosi pini marittimi. Infine, quando gli abitanti della città di Altino, nella vicina terraferma, furono costretti ad abbandonare le loro case in fuga dai barbari e soprattutto da Attila e dai suoi Unni, nell’anno 452, trovando rifugio prima Torcello e poi in quest’isola, eressero subito una chiesa dedicandola ai martiri Erme ed Erasmo e fu allora che l’isola cambiò per la sesta volta nome assumendo quello del Santo, che i nostro antenati elessero a nostro Patrono. Aggiungo che quell’antica chiesa è stata una delle prime sei costruite in questa nostra laguna.

“I primi documenti scritti che riguardano gli abitanti di Sant’Erasmo, continuò Cosetta, risalgono al 792 e a rendere quest’isola molto importante nel corso dei secoli è stata soprattutto la sua posizione rispetto al Porto del Lido, che quasi fronteggia dall’interno della Laguna. L’importanza della nostra isola è stata compresa appieno nel corso del Medioevo, poi, appena conclusa la millenaria storia della gloriosa Repubblica di San Marco, nel 1797, i nuovi occupanti, gli austriaci, vi eressero degli edifici militari, fra cui, nel 1813, la Torre detta poi Massimiliana, la massiccia costruzione rotondeggiante che vediamo qui davanti. La storia ricorda che il 17 marzo 1848, come giunse a Venezia la notizia che il cancelliere austriaco Metternich s’era dovuto dimettere in seguito ai moti borghesi di Vienna, Massimiliano d’Asburgo che si trovava a Venezia, paventando per la sua vita, scappò di gran lena dal Palazzo Reale e venne a rifugiarsi nella Torre-fortezza di Sant’Erasmo, in attesa d’essere accolto da una nave austriaca. E proprio a seguito di questo episodio quella torre possente prese il nome del fratello dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, quel Massimiliano d’Asburgo che, divenuto in seguito imperatore del Messico, avrebbe fatto laggiù una tragica fine.

“Dopo la prima guerra mondiale questa nostra Torre s’era andata progressivamente degradando e aveva anche ospitato fino a qualche decennio fa famiglie di profughi e di senzatetto. Recentemente il Comune di Venezia, conoscendo la sua storia e il suo valore, l’ha ottimamente restaurata, facendone un elegante centro di attività culturali, come ha fatto per altri forti sparsi nelle isole della Laguna. Desidero aggiungere ancora due parole sulla nostra chiesa attuale che è stata costruita nel secolo scorso sulle rovine di una chiesa precedente, costruita nel 1840, anch’essa eretta sulle rovine d’una chiesa più antica, divenuta del tutto fatiscente e per di più insufficiente per i parrocchiani di Sant’Erasmo. La nostra nuova chiesa è in stile romanico-bizantino, con una facciata piuttosto insolita e singolare e con attorno dei portici per dar riparo ai giovani e agli anziani che si fermano a chiacchierare dopo le messe domenicali. All’interno, fra le tante cose interessanti, segnalo la grande pala che raffigura il martirio di Sant’Erasmo, attribuita al Tintoretto e il Battistero sorretto da una artistica vera da pozzo in marmo rosso.

“Se avete voglia di fare un giro per l’isola, oggi o anche nei prossimi mesi, troverete che Sant’Erasmo è tutta un susseguirsi di orti, con le nostre case riunite in parte attorno alla chiesa parrocchiale e in parte al centro dei rispettivi appezzamenti di proprietà. Le vie di comunicazione principali sono costituite da due strade che si sviluppano verso Punta Sabbioni e Lio Grando ad est e verso il Lazzaretto Nuovo e la suggestiva isoletta di San Francesco del Deserto ad ovest, quest’ultima un’oasi di serenità e di mistica pace, che da quasi 800 anni invita al silenzio e alla preghiera. E ricordo che nella nostra isola ci sono anche delle belle trattorie dove si possono gustare gli squisiti prodotti delle nostre aie e dei nostri orti.”

Un convinto applauso salutò la bella esposizione di Cosetta che in pochi minuti aveva dato tante notizie sulla sua isola.

“Se volete sapere quali sono le nostre tradizioni gastronomiche, quelle vere, non quelle che si leggono sui giornali, eccole qua.” Cosetta aveva ripreso il microfono approfittando dell’attenzione delle tante persone convenute quella mattina attorno alla Torre Massimiliana e allo stand che esponeva numerose cassette di castraùre e di bòtoli, che andavano rapidamente diminuendo.

“Dunque, riprese, nel corso del tempo le isole della Laguna hanno elaborato delle straordinarie specialità gastronomiche che si possono gustare solo in questo ristretto territorio della nostra laguna. Ne ricordo solo alcune e sono sicura che non tutti i presenti le conoscono. Comincio con la Sopa de Bisi, piatto tradizionale della nostra isola e anche di Chioggia e Treporti; poi i Risi e Bisi, presenti in tutte le isole, Venezia compresa; un altro piatto interessante sono i Risi e Sparesee, tipico della nostra isola ma anche di Treporti e di Cavallino. Un altra preparazione tipica delle isole della laguna nord è quella dei Risi e Sepe, molto richiesti dai turisti internazionali che arrivano a trovarci, come pure il Risotto de Pesse e de Spini, così chiamato perché preparato con gò e anche con lische, teste e fegatini di anguilla. Abbiamo anche piatti di carne come il Masorin rosto che facciamo noi qui a Sant’Erasmo e poi nelle isole di Mazzorbo e Torcello. Nelle isole della Laguna nord facciamo un po’ ovunque il Bisato in graèa e anche il Bisato infumegà. In questa parte della Laguna l’anguilla è un piatto principe e nelle valli da pesca potete trovare il Bisato in speo; nelle trattorie di Burano il Bisato a la caéna; mentre a Murano il Bisato su l’ara e il Bisato scotà. Anche le seppie sono molto presenti nella nostra cucina e dappertutto, infatti, si trovano le Sepe in técia. Una vera specialità veneziana e di Burano sono le Moléche fritte e le Moleche col pièn, piatti entrambi rarissimi, presenti solo a Venezia e in poche trattorie lagunari per poche settimane tra fine inverno e primavera e poi all’inizio dell’autunno. Concludo ricordando una nostra vecchia preparazione, le Scorze de melanzane e un nostro dolce che credo proprio sconosciuto, i Sugoli o Paciuli; mentre a Murano sono tradizionali i Bussolai. Questi sono soltanto alcuni dei nostri piatti più tradizionali, ciascuno dei quali ha alle spalle secoli di storia. Vi pare poco? Credo proprio, cari signori, che vi convenga girare più spesso per le nostre isole se volete gustare i sapori veri della nostra Laguna..

“Ed ora vi parlo del nostro carciofo, perché il ricco patrimonio gastronomico lagunare che vi ho appena presentato è impreziosito da un ortaggio davvero unico nel suo genere, il Carciofo violetto di Sant’Erasmo. Le varietà di carciofo sono numerose, ma solo alcune hanno ampia diffusione, mentre altre esprimono al meglio le loro caratteristiche gastronomiche solo in ambiti molto ristretti, come, per l’appunto il Violetto di Sant’Erasmo e l’omonimo, ma dalle caratteristiche diverse, e quindi di altra varietà, Violetto di Chioggia. Il carciofo è una pianta erbacea che si conserva per anni, appartiene alla famiglia delle composite, sottofamiglia delle tubiflore. Non si trova spontaneo in natura, per cui si presume che derivi dal cardo selvatico. La pianta raggiunge dagli 80 ai 130 centimetri di altezza e le sue radici possono essere lunghe anche 60 centimetri. Le sue foglie sono di un colore verde-grigio e i fiori, ermafroditi, di un bel color lilla. Alla base della pianta crescono i cardi che vengono tolti con un po’ di radici e possono essere reimpiantati, come nuove impiantagioni di carciofi e ciò lo facciamo, quando ci serve, in settembre-ottobre o anche nei mesi di marzo e aprile. Alla fine dell’autunno si fa un rialzo di terra dalla parta dove soffia il vento e lo togliamo poi in primavera, poco prima che inizi ad aprile, con le castraùre, la stagione della raccolta che poi continua poi fino a giugno.

“Il carciofo è originario dal Vicino Oriente ed è stato introdotto nel Sud Italia dagli Arabi, mentre in Laguna, in particolare nelle isole dell’Estuario e negli orti di Chioggia, l’hanno importato i Veneziani direttamente dall’Oriente, trovando il suo habitat ideale nell’isola di Sant’Erasmo e nelle vicine isole delle Vignole, di Lio Piccolo, Malamocco e Mazzorbo, dove è coltivato fin dal Medioevo. Il suo nome comunque è di origine araba: l’etimo arabo è infatti harsûfa, divenuto in spagnolo alcachofa, che significa più propriamente cardo spinoso. Il passaggio da cardo a carciofo è avvenuto grazie a una lunga serie di selezioni e quando è stato ottenuto un prodotto gastronomicamente valido, le varie aree orticole italiane se ne sono immediatamente impossessate e l’hanno intelligentemente coltivato, tanto che attualmente l’Italia è il primo produttore mondiale di carciofi.

“Nelle isole della Laguna di Venezia, come vi ho detto, il carciofo ha trovato il suo habitat ideale assumendo via via delle caratteristiche uniche e peculiari. Il Violetto di Sant’Erasmo è un carciofo tenero, carnoso, poco spinoso, sicuramente meno spinoso di tutti gli altri carciofi italiani, di forma allungata, con le brattee di color violetto cupo che racchiudono un cuore dal gusto inconfondibile.

E veniamo alle nostre famose castraùre: i primi carciofi, raccolti verso l’inizio di aprile e richiestissimi dagli amatori, rappresentano una vera rarità: sono le castraure, cioè il frutto apicale della pianta di carciofo che viene raccolto per primo in modo da permettere lo sviluppo di altri 18-20 carciofi laterali, quelli che noi chiamiamo bòtoli, che sono da tre a quattro, e sottobotoli, anche questi molto teneri e gustosi. Poi, coi carciofi lascianti andare, si ottengono i fondi di carciofo e, a questo punto, avete sicuramente capito che i vari nomi che ho detto stanno a indicare i carciofi raccolti nelle varie fasi di produzione della pianta, che va, come ho detto prima, da aprile a giugno. L’origine del nome castraùre deriva dal fatto che i carciofetti novelli vengono tolti castrando la pianta, cioè tagliando la cima della pianta dove essi spuntano e in tal modo si ha una castraùra per ogni pianta di carciofo. Le castraure di Sant’Erasmo sono famose e molto richieste nei ristoranti di Venezia per il loro gusto originale e pienamente appagante; sono dei carciofi tenerissimi con una straordinaria ricchezza di sapori, leggermente amarognoli, dall’inestimabile valore organolettico. Desidero aggiungere che tutti i carciofi di Sant’Erasmo sono ricchi di sali minerali e contengono la cinarina, in grado di favorire la diuresi e la regolarizzazione dell’intestino ed è inoltre un prodotto chemioprotettivo, poiché favorisce le funzioni fisiologiche e aiuta, come assicurano gli specialisti, a prevenire gravi patologie. Merita infine ricordare che il Carciofo violetto di Sant’Erasmo è, oltre che una stupenda delizia gastronomica che esalta la cucina veneziana, un alimento sano, buono e sempre prezioso per l’organismo. E con questo credo di aver detto tutto.”

Altro applauso per la brava Cosetta, mentre un’altra bella voce femminile iniziò a declamare un’ode al carciofo violetto di Sant’Erasmo, in puro dialetto diell’isola.

Dolse e amaro

Zogo de papie

A castraùra crua

Tagiada in quattro o a fette

Co un poco de ogio, pevare e sal

Ti pol gustarla col grana

Col ton

O co i gamberetti de mar

Ma el botolo fritto e impanà

Ti o ga mai prova?

El te soetica el palà

El te consola el stomego

El te assa estasià!

L’articiocco cotto invense

El se te descola in bocca

El te fa vegner la fame

Anca se no ti a ga.

Ma quanto bon zelo

L’articioco violetto de Sant’Erasmo?

No ghe xe confronto

Par el so gusto

Dolce e amaro

Che la terra salmastra ghe ga regalà

Par fin el so fondo

Xe tanto bon da magnar.

“Quest’ode, disse la voce, è stata scritta da Cosetta Enzo, che prima vi ha raccontato la storia della nostra isola, delle nostre tradizioni gastronomiche e del nostro carciofo violetto che noi chiamiamo articioco.”

Seduto a un tavolo dove venivano serviti gli assaggi, un signore arrivato col vaporetto dalla terraferma, era soddisfatto delle ore trascorse nell’isola e volle approfittare per conoscere altre notizie sulle tradizioni gastronomiche riguardanti il carciofo violetto di Sant’Erasmo e in particolare le castraùre e attese che la signora Cosetta avesse un momento di pausa. Come fu libera dal lavoro in cucina, la signora, visibilmente stanca per una giornata di intenso lavoro, si sedette al suo tavolo e ascoltò le sue richieste.

Sant'Erasmo (Venezia)
“Grazie d’avermi chiamato, signore, così mi riposo un po’. Ho il bambino qua dentro che scalcia, sarà stanco anche lui, disse sorridendo. Però, prima di rispondere alla sua domanda le aggiungo un particolare che non è stato detto. Sa, noi abbiamo anche i canarini, e questo è il nome che i nostri vecchi davano ai carciofi piccoli e teneri, che servivano, dicevano loro, per pulirsi i denti. Li mangiavano crudi, intingendo le loro foglioline in una salsina di olio, sale e pepe. E ci sono anche oggi, ma fuori dalla nostra isola è difficile vedere qualcuno che intinge una per una le foglioline di canarino nella salsetta. Ho capito che la cosa che le interessa di più sono le nostre castraùre. Mi permetto allora di invitarla a fare attenzione quando le compera, perché anche al mercato di Rialto vendono per nostre quelle che arrivano da Livorno, che sono anche buone ma tutta un’altra cosa. Lei prima le ha assaggiate e noi le abbiamo preparate eliminando le foglie esterne e le punte, quindi le abbiamo tagliate a spicchietti e condite con sale, pepe e un filino d’olio extravergine d’oliva. Poi le mandiamo in tavola con delle scagliette di formaggio grana o latteria stravecchio.”

“Le ho mangiate proprio così, e mi sono piaciute, disse il signore. È la prima volta che ne sento appieno il gusto, intenso e armonico assieme. Ho provato a levare a uno spicchio le scagliette di grana e dico la verità, la castraùre mi è piaciuta ancora di più”.

“Ne sono contenta, commentò Cosetta, che continuò la sua illustrazione gastronomica. Diverso è il modo di preparate i botoli. Prima si fa come con le castraure. Si eliminano le foglie esterne e le punte, poi si tagliano in due o quattro spicchi, secondo la loro grandezza, poi si passano alla pastella e si fanno friggere in olio caldissimo. Noi li friggiamo in olio di semi di girasole o di arachidi. Per la pastella noi procediamo così: per una decina di botoli prendiamo due uova, sale, pepe, quattro cucchiai di farina e acqua minerale gassata; mettiamo tutto assieme e amalgamiamo bene ottenendo una pastella né troppo tenera né troppo densa. Ed ora le do la nostra ricetta dei carciofi in tegame, che noi chiamiamo articiochi in tècia. Eliminiamo le foglie esterne e le punte e peliamo bene il fondo, quindi li apriamo uno ad uno sotto l’acqua corrente del rubinetto e, aiutandoci con le dita, diamo loro la forma di una rosetta, come per preparare i carciofi alla giudea. Poi, al posto di friggerli, li disponiamo verticalmente in una pentola, in modo che stiano ben accostati. Sotto versiamo un po’ di buon olio extravergine d’oliva perché non si attacchino al fondo, poi li cospargiamo di sale fino e pepe, poniamo sopra ciascuno una nocciolina di burro e li copriamo di brodo vegetale. Mettiamo il coperchio e li facciamo cuocere a fuoco moderato per un quarto d’ora circa, fino a che il brodo risulti consumato. E sono pronti. E già che ci siamo, caro signore, le dico anche come prepariamo qui a Sant’Erasmo i fondi di carciofo. Per prima cosa eliminiamo tutte le foglie e mettiamo subito i fondi così ottenuti in un catino di terracotta con acqua e fette di limone perché non anneriscano. Una volta desfogliati tutti li trasferiamo in una teglia con olio extravergine d’oliva, poco burro, una macinatina di pepe e un po’ di brodo vegetale, quindi li cuciniamo a fuoco basso fino a che risultano teneri. A questo punto sono pronti. Va bene signore?.”

“Non so come ringraziarla, signora, lei è stata davvero molto gentile e mi complimento per quanto ci ha raccontato oggi. Molte cose non le sapevo e sono contento di averle apprese. E, se mi permette, approfitto per farle i migliori auguri per il suo erede.”
Cosetta era stanca ma felice. C’era stato tanto interesse per il loro prodotto e lei, col microfono, aveva fatto bella figura e l’aveva fatta fare a tutta la sua gente. Carlo, suo marito, appena il signore se ne fu andato, venne a sedersi accanto a lei e le diede un bacio veloce. Era contento anche lui, come gli altri produttori. Avevano fatto conoscere a centinaia di persone il loro carciofo violetto e le loro castraùre e avevano venduto tutte le cassette che avevano esposto, non riuscendo a soddisfare tutte le richieste. “È stato proprio un successo e l’anno prossimo venderemo bene i nostri carciofi”, disse alla moglie, mentre l’orchestrina su un palco vicino alla Torre suonava delle bellissime canzoni veneziane, sconosciute ai più e perfino, disse qualcuno, a tanti nostri gondolieri.