mercoledì 3 agosto 2011

Il Carpaccio: la vera storia di un piatto veneziano

Vittore Carpaccio "Ritratto di Cavaliere" , 151
Comodamente seduti nella vasta hall del Royal Monceau, due turisti italiani in visita nella capitale francese attendevano l’ora della cena. Avevano prenotato al ristorante Carpaccio, che è uno dei due ristoranti di quel lussuoso albergo che si trova in Avenue Hoche vicino all’Arco di Trionfo e l’avevano scelto perché era segnalato dalle guide come la miglior cucina italiana di Parigi. Nell’attesa avevano conosciuto un giornalista veneziano, anche lui arrivato per la cena, il quale s’era fermato accanto a loro sentendoli discutere in italiano sul nome del ristorante.
“Il nome è certamente un omaggio al grande pittore italiano”, diceva uno, ma al suo compagno pareva strano che un ristorante di Parigi fosse intitolato a un artista veneziano, per quanto importante egli fosse. Stavano proprio dicendo questo quando il giornalista si presentò e chiese se poteva unirsi a quella loro interessante discussione. Le luci, gli specchi, la raffinata eleganza del grande albergo e i calici di Champagne portati da un giovane cameriere, avevano creato fra loro un clima di grande cordialità. Nel vasto salone centrale dell’albergo c’era un discreto viavai, perché anche il cortile interno dell’antico palazzo era stato trasformato anni prima in ristorante, denominato Le Jardin, dove si faceva cucina francese di alto livello.
“Credo proprio abbia ragione il suo amico, disse il giornalista rivolto al primo turista, il nome di questo ristorante non è, se non casualmente, un omaggio a Vittore Carpaccio, vissuto a Venezia fra il Quattro e il Cinquecento, bensì al piatto veneziano dello stesso nome. Posso dirvi che il ristorante italiano di questo albergo ha assunto il nome di Carpaccio tanti anni fa, quando ne prese la gestione uno dei più celebri chef italiani del tempo, Angelo Paracucchi, che aveva allora ad Ameglia, in provincia di La Spezia, la Locanda dell’Angelo, per anni uno dei più famosi ristoranti italiani.”
“Il nome non mi è nuovo, disse uno dei due turisti, ma il carpaccio non è quella fetta di carne marinata con sopra tanta rucola e scaglie di grana?”
“Assolutamente no, affermò con tono perentorio il giornalista, questa è solo una delle tante versioni popolari del celebre piatto e certamente non fra le migliori. Purtroppo da diversi anni, ormai, tutto ciò che viene servito crudo e a fette viene chiamato carpaccio. E allora ecco il carpaccio di salmone, quello di branzino, addirittura il carpaccio di ananas, quando questo frutto esotico viene servito a fettine sottilissime, magari con l’aggiunta di un po’ di liquore. Tutto ciò che è servito crudo e a fette sottili come il prosciutto, ormai si chiama in tutto il mondo carpaccio, ma è una generalizzazione che crea solo confusione.”
“Ma chi era Angelo Paracucchi?” chiese l’altro turista.
“Un personaggio che ancor prima che in Francia nascesse la Nouvelle Cuisine, gli rispose il giornalista, aveva dato avvio a un serio rinnovamento della cucina italiana. Già all’inizio degli scorsi anni Settanta Paracucchi era diventato un riconosciuto punto di riferimento per i cuochi di casa nostra. Infatti, mentre nella ristorazione italiana la cucina andava allora ripetendo stancamente se stessa, egli s’era messo a studiare il vasto patrimonio delle nostre cucine regionali, tramandato dalle generazioni e non capiva perché, con l’enorme ricchezza dei nostri prodotti, ci si limitasse ad accettare supinamente i piatti della tradizione senza apportarvi quei cambiamenti che le nuove conoscenze, le nuove tecnologie operative e soprattutto i nuovi gusti della gente richiedevano. Paracucchi era un genio della cucina, uno sperimentatore attento e puntiglioso, capace di coniugare con grande professionalità tradizione e innovazione e i ricettari da lui pubblicati stanno a testimoniarlo. Ma non basta. Fra gli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso seppe valorizzare con una bravura davvero unica i prodotti della terra e della pesca, realizzando nuove felici combinazioni di sapori, unendo fra loro ingredienti ritenuti fino ad allora addirittura incompatibili. I suoi piatti, per i quali sceglieva la miglior materia prima offerta dal mercato, erano belli a vedersi, ottimi al gusto, leggeri e facilmente digeribili. Paracucchi è stato il primo grande, chiamiamolo così, cuoco rivoluzionario, rinnovando con equilibrio e intelligenza ed esaltando con capacità e bravura la cucina del territorio. Poi è arrivato a Milano Gualtiero Marchesi, reduce da un’esperienza francese, con idee diverse da quelle di Paracucchi, ma ugualmente innovative e, grazie a loro, la cucina italiana è decollata verso livelli molto prestigiosi.”
“Ecco, disse uno dei turisti, Gualtiero Marchesi so bene chi è, sono andato nel suo ristorante a Erbusco, in Franciacorta, e ho mangiato anche molto bene, ma Paracucchi proprio non lo conosco.” “Eppure, disse ancora il giornalista, è stato proprio lui a inaugurare e far conoscere questo ristorante, mostrando ai francesi la bravura dei cuochi italiani. E, infatti, fin dall’inizio il Carpaccio fece parlare di sé a Parigi e in Francia, attirando l’ammirazione di gastronomi e gourmet.”
“Bene, sono proprio contento di essere qui, disse uno dei due turisti, il più loquace, ma perché gli hanno dato nome Carpaccio a questo ristorante?”
G. Cipriani davanti al suo Harry's Bar
In quel momento il direttore di sala, un signore di una certa età, elegante e dai modi signorili, venne ad avvertirli che potevano entrare e il turista approfittò per rivolgere a lui la stessa domanda che un attimo prima aveva fatto al giornalista.
“Io sono arrivato qui qualche mese dopo che era giunto Angelo Paracucchi, chiamato da lui, rispose, e allora gli feci anch’io la medesima domanda. In quegli anni stava diffondendosi nel mondo il piatto inventato a Venezia nel 1950 da Giuseppe Cipriani e a Parigi il fascino di Venezia era sempre molto alto, come lo è ancor oggi. Paracucchi ritenne che il nome di quel piatto, che alludeva anche a un grande pittore veneziano, potesse presentarsi come significativa immagine della nuova cucina italiana di qualità, capace di far riconoscere con immediatezza il ristorante e la sua italianità alla Parigi che conta. Ed ebbe ragione. Infatti, questo nostro ristorante ha saputo superare positivamente l’esame del tempo ed è l’unico fra i ristoranti italiani di Parigi ad aver avuto non solo una solida continuità ma la capacità di diventare, con la conquista della stella Michelin, la bandiera della cucina italiana a Parigi. Posso aggiungere che il Carpaccio è frequentato non solo da attenti gourmet, ma anche da alte personalità dello Stato, da intellettuali di fama, attori, imprenditori e nomi illustri del gotha francese e internazionale.”
I due turisti pretesero di avere loro ospite il giornalista, convinti che con lui avrebbero trascorso una serata ancor migliore di quanto pensavano. In verità, già che c’erano, volevano saperne di più anche sul piatto che aveva dato il nome al ristorante e ritenevano che il giornalista li avrebbe soddisfatti.
Il direttore li accompagnò a un tavolo d’angolo, preparato con eleganza francese e buon gusto italiano, con piatti di fine porcellana tedesca, calici di cristallo leggerissimo, posate d’argento. Le poltroncine poi erano particolarmente comode, quasi un invito a star seduti a lungo. Venne a salutarli lo chef, italiano anche lui.
Lo Chef Davide Bisetto
“Sono Davide Bisetto, disse, sono veneto e sono qui da poco più due anni.”
Il giornalista gli disse che anche lui era veneto, anzi veneziano e lo chef precisò che era trevigiano, diplomato alla scuola alberghiera di Castelfranco Veneto, col preside Brunello, un gran personaggio, disse e poi aveva girato in cucine molto importanti prima di arrivare a Parigi dal Four Season di Milano, dov’era il secondo di Sergio Mei, un vero maestro a generazioni di cuochi sparsi per il mondo, disse Bisetto.
“E lei, gli chiese il turista ciarliero, conosce la storia del carpaccio, e intendo il piatto, aggiunse, non il ristorante?”
“Certamente sì, rispose Bisetto, la conosco sì, ma potremmo parlare al termine della cena, perché ora per me è un momento molto delicato.”
Stavano arrivando altri clienti e lo chef doveva organizzare il lavoro in cucina. Si salutarono e si sarebbero rivisti più tardi. La cena risultò una sinfonia di sapori in un crescendo sempre più appagante e ogni piatto era accompagnato dal sommelier, già primo sommelier di Francia pur essendo italiano, con calici di grandi vini italiani.
“Mi permetto di suggerire un vino diverso per ogni portata, aveva detto ai commensali subito dopo l’ordinazione, per esaltare al meglio i profumi e i sapori di ogni singolo piatto preparato dal nostro bravissimo chef. Naturalmente, aveva aggiunto, qui serviamo anche vini al bicchiere, scelti in una gamma piuttosto ampia. Se accettate il mio suggerimento vi troverete sicuramente bene.”
I tre commensali avevano accettato la proposta e, dopo aver iniziato con un calice di Giulio Ferrari Spumante Trentino Metodo Classico, proseguirono con una Ribolla Spumante di Collavini, un Greco di Tufo, un Nero d’Avola e un Barolo di molti anni prima. Al dessert il sommelier propose un ottimo Marsala vergine che si meritò il pieno consenso dei commensali.
“Ma è mai possibile, disse a quel punto il turista ciarliero, che in Italia conosciamo poco il Marsala mentre qui a Parigi te lo propongono e diventa una felice scoperta? Forse che da noi, in Italia, conosciamo solo i vini delle nostre rispettive regioni?”
“No, non credo, disse il giornalista, anche se è vero che c’è ancora abbastanza provincialismo in fatto di vini, anche nel mondo ristorativo, ma può consolare sapere che in questi ultimi anni si stanno facendo enormi progressi e non è più così difficile trovare anche nelle trattorie di campagna vini di più regioni. I ristoranti importanti, poi hanno cantine che, in certi casi, superano addirittura le duemila etichette, coma la Pergola dell’Hilton a Roma. Ed è logico che i ristoranti che vogliono emergere pensano anche ad arricchire la loro cantina e, in questo modo, entrano anche le specialità, come il Marsala, i vini liquorosi, i passiti, i vin santi e numerosi vini stranieri.”
Diversi commensali avevano già concluso la cena e se n’erano andati. I tre amici si fecero versare un altro po’ di Marsala vergine e stavano discutendo dei vini siciliani quando arrivò al loro tavolo lo chef.
“Ormai in cucina il lavoro è praticamente concluso, disse, e sono venuto per trovare i miei connazionali e per rispondere alla domanda di prima e sono venuto documentato.”
“Se oltre ad aver mangiato e bevuto benissimo, disse il solito ciarliero, e per di più serviti in modo eccellente, usciamo da qui sapendo tutto sul carpaccio, questa è stata una cena da ricordare.”
“Ho qui, disse lo chef Bisetto, una mia vecchia copia d’un libro scritto da Giuseppe Cipriani, l’inventore del carpaccio. Si intitola L’angolo dell’Harry’s Bar ed è da tempo introvabile. Scrive infatti quell’illustre personaggio in una pagina di questo libretto: «Se voi sfilettate della carne cruda, naturalmente freschissima e tagliata in fettine leggere come fosse un prosciutto, eccovi (con l’aggiunta di un tantino di salsa) il carpaccio. Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto. Per questo, non riconoscendone tante qualità, non amo la cucina francese, che predilige invece i cibi in maschera. Come è nato il carpaccio? Alla contessa Amalia Nani Mocenigo i medici avevano ordinato una dieta strettissima. Non poteva mangiare carne cotta e così, per accontentarla, pensai di affettare un filetto molto sottile. La carne da sola era un po’ insipida; ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto e, in onore del pittore di cui quell’anno a Venezia si faceva un gran parlare per via della mostra e anche perché il colore del piatto ricordava certi colori dell’artista, lo chiamai carpaccio.»
Carpaccio di manzo
Io sono da sempre un cultore del carpaccio, aggiunse Bisetto, e, naturalmente, in questo ristorante lo faccio dando al piatto storico una mia interpretazione che, con mio piacere, è stata imitata da altri importanti chef parigini. Aggiungo che il figlio di Giuseppe Cipriani, Arrigo, che porta lo stesso nome del bar di famiglia che si trova in fondo a Calle Valleresso a Venezia, ha scritto anche lui alcune righe su questo piatto. Le ho fotocopiate e ho conservato il foglio nel libro di suo padre. Arrigo afferma che «di carpaccio ci sono mille e una versione. E forse di più. Una per ogni ristorante del mondo (sia di carne, che di pesce e addirittura di verdura). Il vero carpaccio – ha scritto, aggiungendo qualche altra informazione – è quello inventato da mio padre e consiste in fettine sottilissime di manzo disposte su un piatto e decorate alla Kandisky con una salsa che noi chiamiamo universale. Noi prepariamo il carpaccio con il controfiletto di manzo, un taglio molto saporito e non congeliamo mai la carne prima di tagliarla.
Si può chiedere al macellaio di tagliare la carne sottilissima con l’affettatrice, bisogna poi però usarla entro due ore.» Questo dunque, cari signori, è il carpaccio e credo sappiate che la mostra del grande pittore veneziano, Vittore Carpaccio, si tenne a Venezia nel 1950 e questo è l’anno di nascita del nostro piatto.”
“Ma bisognava arrivare a Parigi per conoscere la vera storia del carpaccio? si chiese il solito turista. Perché è proprio vero che in Italia si trovano tutte le versioni meno quella giusta. Ma ho ancora una domanda, disse poi: e quella salsa universale come è fatta?”
“So che all’Harry’s Bar, disse Bisetto, la fanno così: versano in una scodella un tuorlo d’uovo, un cucchiaio di aceto di vino bianco, una puntina di senape, un pizzichino di sale e pepe e frullano il tutto fino a ottenere un amalgama omogeneo. Versano quindi un po’ di olio extravergine d’oliva a goccia, facendolo ben incorporare in modo da ottenere una emulsione abbastanza fluida. Sbattono la maionese così ottenuta con uno o due cucchiai di salsa Worcestershire, un cucchiaio di succo di limone, aggiungono un po’ di latte e aggiustano di sale e pepe e magari ancora qualche goccia di succo di limone. Questa è la loro originale salsa universale. Ha scritto Arrigo Cipriani che decorano le sottilissime fettine di controfiletto di manzo disposte su tutto il piatto, fino ai bordi, con una tecnica alla Kandisky, vale a dire che intingono varie volte un cucchiaio nella salsa e con questa disegnano sulla carne, facendola gocciolare, un quadro astratto a piacere, ad esempio una rete o linee fra loro oblique e così via. Naturalmente, preparato il piatto, si lascia che prenda la temperatura ambiente e poi lo si manda in tavola. Tutto qui.”
“Molto bene davvero, dissero all’unisono i due turisti. Finalmente al Carpaccio di Parigi abbiamo conosciuto la vera ricetta del carpaccio, che non vuole né rucola né scaglie di grana.”
“E lo potete gustare in questa forma, aggiunse lo chef, proprio all’Harry’s Bar di Venezia.”


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