martedì 30 agosto 2011

Il Futuro della Ristorazione italiana

di Giampiero Rorato

C’è una domanda spesso ripetuta: ha un futuro la ristorazione italiana? E se sì, come sarà? Prima di rispondere a questi interrogativi conviene dare un pur veloce sguardo, ma serio e meditato, all’oggi e al percorso compiuto negli ultimissimi decenni dalla ristorazione del nostro Paese.
Nives Piva e Nadia Santini. Nadia è la grande cuoca
proprietaria col marito Antonio
del ristorante Dal Pescatore a Canneto sull'Oglio (MN)

Ancora una trentina d’anni fa correva per il mondo, inattaccabile, il mito della cucina francese e i cuochi italiani, anche importanti, idolatravano i creatori della Nouvelle Cuisine, lanciati dai celebri giornalisti Henri Gault e Christian Millau. Si trattava di Paul Bocuse, Alain Chapel, Michel Guérard, i fratelli Troisgros, Jaques Manière, Alain Senderens, Pierre Vedel, Pierre Gagnaire, cui seguirono poi Guy Savoy, Gilles Goujon, Marc Haeberlin e, più recentemente, Joël Rebuchon, Alain Ducasse e altri ancora.
Il mito della “grande cucina francese” durava in Italia dal ‘600, quando la cucina d’Oltralpe sorpassò in fama la cucina rinascimentale italiana, forse anche grazie all’apporto di due donne fiorentine: Caterina de’ Medici (1519-1589), sposa di Enrico II re di Francia e Maria de’ Medici (1575-1642), seconda moglie di Enrico IV re di Francia, che portarono a Parigi alcuni ottimi cuochi italiani. 
Aimo Moroni, patron del Ristorante Il Luogo
di Aimo e Nadia a Milano
La verità è che da allora la cucina francese venne considerata la più buona, elegante, raffinata dell’Europa, diffusa in Italia nel corso del ‘700 (basta leggere le commedie di Carlo Goldoni e le Memorie di Giacomo Casanova), imposta nel mondo fin dall’800 da François Pierre La Varenne, Marie-Antoine Carême e soprattutto da Georges Augustes Escoffier (1846-1935).  Questo cucina, adottata dalla ristorazione internazionale, è stata il modello da imitare fino alla nascita della Nouvelle Cuisine, all’inizio degli scorsi anni ’70.
La rivoluzione che scosse dalle radici la cucina francese – senza tuttavia toccare le cucine regionali, rimaste intatte fino ai nostri giorni – ebbe effetti in tutta Europa.
In Italia, il primo a farla conoscere è stato Gualtiero Marchesi, a metà degli anni ’70, mentre altri cuochi italiani, indipendentemente dalle novità di Francia, stavano comunque rinnovando la cucina italiana, come l’umbro Angelo Paracucchi (1929-2004) e il carnico Gianni Cosetti (1939-2001), che hanno saputo rivalutare le materie prime presenti sul territorio e la cucina della nonna, alleggerendola, affinandola e facendola diventare una cucina-gourmet.
Enzo De Prà, chef patron del Dolada
a Pieve d'Alpago (BL)
Sulla scia di questi personaggi ne sono comparsi diversi altri che, con il loro lavoro di cuochi, hanno diffuso un po’ ovunque in Italia una cucina nuova – anche se esistente da tempo ma poco considerata – l’hanno saputa far conoscere e apprezzare, tanto che dall’Europa, e dal mondo si cominciò a guardare all’Italia. Uomini e donne di cucina, come Nadia Santini, Aimo Moroni, Alfonso Iaccarino, Ezio Santin, Annie Feolde, Antonello Colonna, Enzo De Prà e, con loro, una bella schiera di giovani, hanno riportato in auge la cucina italiana, che dagli ultimi due decenni del Novecento si esprime ovunque, anche a nord del Po, in una linea conosciuta oggi come “cucina mediterranea”, una cucina leggera, godibile, ricca di tutti i nutrienti necessari all’organismo, considerata la migliore del mondo sia sotto l’aspetto salutistico, che non è certo poco, sia sotto l’aspetto nutrizionale e ancora per la sua capacità di soddisfare anche i palati più esigenti.
Moreno Cedroni, chef patron della Madonnina del Pescatore
a Senigallia
Questa cucina, dall’inizio del nuovo secolo, ha cominciato a imporsi nel mondo e se è vero che i ristoranti d’élite non sono ancora molti (gli appartenenti all’Associazione “Le Soste”, considerata la crema della ristorazione italiana, sono meno di 70), è del pari vero che la media della ristorazione italiana supera in qualità, come riconoscono i critici internazionali, quella francese.
E allora torniamo alla domanda iniziale: ha un futuro la ristorazione italiana?
Non è certo facile tentare di rispondere in due righe, ma se queste sono le basi il futuro non potrà che essere roseo.
Enzo Santin, chef patron della Antica Osteria
del Ponte  a cassinetta di Lugagnano (MI)
 In verità, nonostante alcune lodevoli iniziative non ancora pienamente sviluppate come sarebbe necessario, manca in Italia una seria scuola superiore per cuochi, una vera università della cucina, i cui allievi arricchiti di cultura non solo materiale possano poi svolgere lunghi stages presso i migliori ristoranti italiani, con esperienze anche nei migliori ristoranti esteri.
Una scuola dove acquisire una seria e ampia cultura gastronomica, dove apprendere la storia dell’alimentazione in Italia e nel mondo, una approfondita conoscenza dei vari tipi di carne, dei prodotti d’acqua, delle erbe e degli ortaggi, dei vini italiani e internazionali e dove acquisire una sicura manualità operativa.
Mi fermo qui, so che la Scuola di Gualtiero Marchesi a Colorno ha le potenzialità per assumere un ruolo guida di alto livello e se ciò succederà, come ci auguriamo, ne trarrà vantaggio tutta la cucina italiana che rafforzerà la sua leadership gastronomica, contribuendo pure ad attirare in Italia quel turismo gourmet che rappresenta oggi una fetta molto interessante del movimento culturale e turistico internazionale, ancora troppo scarso nel nostro Paese, rispetto alla Francia, alla Spagna e alla stessa Inghilterra.
Mauro Uliassi chef patron a Senigallia
I presupposti perché la cucina italiana possa conservare a lunga la leadership faticosamente conquistata nel corso dell’ultimo ventennio ci sono tutti, purché non manchi l’impegno delle Scuole e la costanza degli operatori. Dunque si può essere molto ottimisti.


(articolo pubblicato su “Il Gusto italiano” di luglio-agosto)