lunedì 29 agosto 2011

Caffè, cappuccino e brioches

Il professor Fischer, buon studioso della Mitteleuropa asburgica, è da sempre uno degli ospiti più affezionati e fedeli del Demel, in Kohlmarkt 14, a Vienna. Non che ci vada tutti i giorni, impegnato nell’insegnamento e in continue ricerche nei tanti ricchi archivi della città, ma quando deve incontrare qualcuno al di fuori della cerchia dei colleghi della sua università per una chiacchierata amichevole o uno scambio di informazioni, e la cosa succede almeno un paio di volte la settimana, preferisce farlo in quello storico caffè, a due passi dall’Hofburg, l’antica dimora degli Asburgo. Un buon cappuccino caldo e l’aria particolare che si respira nell’ambiente, dove tutti parlano sottovoce che pare non parlino neppure, lo immergono in un clima sereno, come se fosse lontano mille miglia dalla routine quotidiana. “Sono le mie poche ore di riposo”, ama dire, come se seduto a quei tavoli ritrovasse se stesso e si ricaricasse d’energia spirituale. E lì aveva dato appuntamento a un collega italiano, il professor Federico Zanotti, pure lui docente di storia della Mitteleuropa in un paio di Università dell’Italia settentrionale, col quale da diversi anni si scambiava informazioni, documenti e quanto di nuovo venivano a conoscere sull’epoca asburgica. .
Marco d’Aviano guida la Peregrinatio Mariae
a Vienna nel 1697, Giuseppe Gatto.
Aviano, chiesa parrocchiale
Alcuni giorni prima, spulciando tra vecchi manoscritti della Biblioteca Universitaria, Fischer aveva trovato quattro paginette fino allora sconosciute, che l’avevano immediatamente interessato. Si trattava di una quartina di fogli di grande formato, presumibilmente staccati da un registro contabile di oltre trecento anni prima, sui quali un anonimo cronista del tempo aveva scritto un suo resoconto relativo ad alcuni fatti connessi alla battaglia di Vienna del 1683. Di quell’avvenimento il professore sapeva già tutto, almeno così credeva fin che non lesse quei fogli e, come faceva ogni tanto quando trovava informazioni inedite o poco conosciute sull’epoca asburgica, telefonò al collega italiano che, approfittando d’un altro incontro da tempo programmato nella capitale austriaca,  aveva subito risposto alla chiamata.
Demel-Cafè-Vienna
Zanotti era giunto il giorno prima e quel mattino, essendo un po’ in anticipo, s’era fermato a dare un’occhiata all’ingresso dell’Hofburg, era entrato un momento nella chiesa di San Michele, poi aveva percorso la Kohlmarkt entrando al Demel pochi minuti dopo Fischer. Scelsero un tavolo appartato e ordinarono subito un caffè con la panna e una bella fetta di Lienztorte e intanto si informarono sulla reciproca salute e sugli impegni accademici in corso. Attorno a loro diversi avventori stavano leggendo i quotidiani, altri sorbivano caffè e cappuccini colloquiando sottovoce.
“Caro collega, diceva Fischer, anche lui quasi sussurrando le parole, in questo caffè della vecchia Vienna ci si trova davvero bene e piace molto a noi viennesi e ai turisti colti anche perché è un prezioso reperto della nostra storia. Guardi attorno, caro Zanotti, le posso dire che questo locale non è per nulla cambiato dai tempi di Francesco Giuseppe né negli arredi né nelle abitudini dei suoi clienti e neppure in gran parte dei dolci che qui si preparano. Forse sono un po’ cambiati gli abiti degli avventori e i camerieri dell’ultima generazione non amano più i baffi né i capelli impomatati, ciononostante qui si continua a respirare appieno l’aria mitteleuropea degli Asburgo.”
Zanotti era stato qualche altra volta al Demel, gliel’aveva fatto conoscere Fischer e gli era subito piaciuto e spesso prolungava più del previsto la sosta per gustarsi da quel privilegiato posto d’osservazione la Vienna dei tempi andati, quando era la capitale di buona parte dell’Europa.
“Come le dicevo per telefono, riprese il professor Fischer, la settimana scorsa mentre controllavo un faldone di manoscritti della seconda metà del ‘600, ho trovato una quartina staccata da un registro amministrativo, scritta interamente nelle prime tre facciate e in metà della quarta, con all’inizio un titolo che mi ha subito incuriosito. Glielo dico in italiano: Cronaca di alcuni fatti minori relativi alla battaglia di Vienna, combattuta il 12 settembre 1683, scritta da un testimone oculare. La battaglia in questione è stata ampiamente analizzata da numerosi storici da allora e fino ai nostri giorni, ma le notizie che ho trovato nell’anonimo cronista aggiungono qualche nuovo piccolo particolare a delle circostanze che erano già abbastanza note, comunque mi sono parse interessanti e per questo le ho telefonato.”
Federico Zanotti era non solo interessato ma ansioso di conoscere il racconto che il collega stava per fargli. Anche lui, nel preparare un corso di lezioni sui rapporti fra mondo cristiano e mondo islamico, tornati di piena attualità negli ultimi tempi, s’era molto soffermato su quella battaglia che aveva esaminato in tutte le sue fasi preparatorie, nel suo svolgimento e nelle sue conseguenze e nelle implicazioni sia politiche che militari. Il suo interesse non era poi venuto meno, trattandosi di uno dei punti cardini della recente storia europea. In quella battaglia, che arrivava al termine di un lungo periodo di conquiste nei Balcani e nell’Est europeo, l’impero ottomano, convinto di possedere un esercito invincibile, aveva voluto sfidare l’Occidente cristiano e Vienna era considerata dai Turchi l’ultimo ostacolo sulla strada per Roma. Vienna, come di diceva a Costantinopoli, era la “mela d’oro”, conquistata la quale, pensavano i Turchi, sarebbe stato facile impossessarsi anche della “mela rossa”, cioè Roma, e trasformare la basilica di San Pietro sul colle Vaticano in una grande moschea.
Qara Mustafà Pascia in un dipinto (1696)
La guerra all’impero d’Austria era stata dichiarata dal sultano Mehemed IV il 31 marzo 1683 e per la grande impresa l’esercito ottomano, dopo l’improvvisa morte per idropisia del Gran Visir Fādil Ahmed Köprülü, stratega tra i maggiori del suo tempo, era stato affidato al suo fratello di latte, nonché cognato, nominato nuovo Visir, Qara Mustafā Pascià, che si dimostrò meno esperto del cognato nell’arte militare. Partito subito da Costantinopoli, l’enorme esercito, forte di ben centomila soldati, sessantamila giannizzeri e altrettanti assalitori, iniziò l’avvicinamento a Vienna al principio dell’estate e il 15 luglio furono allestiti gli accampamenti attorno alle mura della città, per preparare l’assalto e la vittoria. Mentre i suoi uomini si riposavano dopo il lungo e faticoso viaggio attraverso i Balcani, Qara Mustafā  studiava con i suoi più alti ufficiali le difese dei viennesi e, con astuzia tutta orientale, ricercava i possibili modi per renderne più facile e sicura la conquista.
“Ascolti bene, caro collega, diceva intanto Fischer, la cronaca, di cui ho qui una trascrizione che poi le darò, inizia pochi giorni prima del fatidico 12 settembre. Scrive dunque il nostro sconosciuto cronista che all’inizio del settembre 1683 la città era completamente assediata da quasi due mesi dall’esercito turco e i viennesi cominciavano a temere per la penuria di cibo. Dalle campagne d’attorno arrivavano pochi rifornimenti, avendo i turchi posto guardie armate su tutte le strade d’accesso. L’imperatore Leopoldo, consapevole che il presidio di Vienna comandato dal principe Ruggero di Starhemberg non era in grado di affrontare con speranza di successo l’armata di Qara Mustafā si era da tempo rivolto ai sovrani d’Europa, ricordando loro quello che già aveva affermato papa Innocenzo XI e cioè che la salvezza di Vienna era la salvezza d’Europa e della Cristianità. Per sostenere la creazione di una nuova alleanza fra i regnanti cattolici Innocenzo XI aveva inviato a Vienna il cappuccino Marco d’Aviano, predicatore instancabile e convincente, che era anche il più ascoltato consigliere spirituale dell’imperatore, l’unico, diceva il sovrano, in grado di dargli utili consigli e infervorare l’esercito contro i nemici della Cristianità. All’inizio di settembre arrivarono gli avamposti di due eserciti alleati, quello imperiale comandato dal duca Carlo di Lorena e quello polacco comandato personalmente dal re Giovanni III Sobieski, entrambi formati da soli 13.000 uomini, cui erano uniti 7.000 cittadini. Pochi giorni dopo giunse anche Marco d’Aviano che subito si recò alla presenza di Leopoldo. E qui, caro Zanotti, arriva la prima notizia. La notte fra il 11 e l’12 settembre, si legge nel manoscritto, un panettiere che stava lavorando nel suo forno addossato alle mura della città che davano verso il campo nemico sentì degli insoliti rumori che provenivano da sotto il pavimento, già avvertiti anche la notte precedente. Terrorizzato, corse ad avvertire le autorità che, giunte sul posto, si resero conto che gli assedianti stavano scavando una galleria per prendere la città con l’inganno. Informato l’imperatore, furono subito convocati nella stessa notte i capi degli eserciti che decisero di sferrare l’attacco all’alba del giorno dopo, il 12 settembre, scendendo dal colle di Kahlemberg, per sorprendere i nemici che stavano ancora riposando tranquilli nel loro accampamento, convinti della loro enorme superiorità, nell’attesa del momento loro più propizio per la battaglia finale.”
“E se non ci fosse stato il fornaio?” chiese Zanotti interrompendo il racconto di Fischer.
“Bella domanda, rispose costui. Forse gli eserciti della Lega avrebbero atteso ancora e in una di quelle notti di metà settembre i turchi sarebbero penetrati in città e poi spalancato le porte, dando inizio a un’orribile carneficina. Ma non è finita qui, continuò Fischer, perché, come racconta il nostro anonimo cronista, sempre in quella notte fu eretto un palco sul luogo dov’erano accampati gli eserciti alleati, dietro una collina che li rendeva invisibili ai Turchi. Intanto erano stati allertati i soldati con l’ordine perentorio di evitare ogni rumore e, alle prime luci dell’alba, con le truppe schierate per la battaglia, il frate cappuccino salì sul palco per celebrare una Messa per la Vittoria, poi, impugnando con la mano destra un grande Crocifisso, fece una predica così vibrante da infondere un inaspettato coraggio a tutti i soldati. Scrive il cronista che molti soldati caddero in ginocchio con le lacrime agli occhi, molti pregavano e si facevano il segno della croce, ciascuno consapevole che da lui dipendeva la salvezza dell’Europa e del Cristianesimo. Terminata la Messa, quando le trombe diedero il segnale d’attacco, quei valorosi irruppero sul campo nemico ancora addormentato come un torrente in piena, soprattutto gli ussari alati del re di Polonia, uccidendo, distruggendo e mettendo in fuga precipitosa i nemici. Alla sera gli eserciti vittoriosi tornarono ai loro accampamenti a festeggiare e lo stesso fecero i viennesi entro le mura della loro città finalmente liberata.”
“Fin qui non c’è nulla di nuovo, anche se, in verità, la ricostruzione di quei giorni fatta dagli storici è un po’ diversa”, disse Zanotti, che attendeva di conoscere le informazioni inedite promessegli dal collega.
Georg Franz Kolschitzky
“Eccole le notizie che chiariscono meglio quanto già si sapeva, come si leggono nel documento che ho trovato, disse Fischer. Sono tutte interessanti, come quella relativa al fornaio, e sono notizie che le cronache ufficiali del tempo hanno un po’ trascurato o ricordato solo fuggevolmente e in modo comunque incompleto, forse considerandole di scarso o nessun interesse. Ma andiamo con ordine, seguendo quel che scrive l’anonimo cronista. La mattina del 13 settembre, il giorno dopo la grande battaglia, alle prime luci dell’alba, appena furono aperte le porte della città una gran massa di viennesi uscì correndo verso l’accampamento nemico precipitosamente abbandonato. Nel vasto recinto, ancora disseminato di cadaveri nemici, c’era di tutto, tende, armi, vestiti, viveri in abbondanza, cavalli e molto altro ancora e tutti prendevano quanto potevano. Trovarono anche ovunque per terra dei semi bruciati, come dei fagioli e altri semi sia di color grigioverdastro che neri erano contenuti in grandi sacchi sotto diverse tende. Non sapendo cosa fossero, scrive il nostro cronista, i viennesi li trascurarono. Non così un ungherese, un certo Kolschitzky che conosceva quei chicchi. Facendosi aiutare da alcuni disperati che vagano per il campo, caricò tutti quei sacchi sui suoi carri e se li portò in città e, poco tempo dopo, aprì a Vienna una bottega dove vendeva una bevanda calda, scurissima, di nome caffè, fatta proprio con quei semi che aveva razziato nel campo abbandonato dai Turchi.”
“Ma del caffè in Europa si sapeva già”, interloquì Zanotti.
“È vero, confermò Fischer. Ibn S’Ina, che noi chiamiamo Avicenna, lo consigliava già attorno all’anno Mille e la cosa era nota a Venezia, a Roma e anche qui a Vienna, come c’era chi sapeva che a la Mecca e a Medina già nel XV secolo c’erano le Case da Caffè, poi considerate dalle autorità covi di sedizione, tanto che Chair Beg, governatore della Mecca, le fece chiudere nel 1511.”
“E perché covi di sedizione?”
“Perché, come si legge nei documenti del tempo, «la nera e diabolica bevanda aguzza le facoltà critiche e scioglie la lingua», la qual cosa non era tanto gradita alle autorità, ma il divieto di quel governatore rimase lettera morta. Mi ascolti, caro Zanotti. Come le ho detto, dopo aver trovato questa cronaca ho voluto assumere altre informazioni sul caffè e ho qui una frase scritta dal giurista arabo Hadjibun di Medina, il quale, su suggerimento del Sultano che aveva bocciato il decreto di Chair Beeg, affermava con forza la bontà del caffè: «Oh voi uomini dall’aperta mente, bevete caffè e non curatevi dei denigratori che con sfacciate menzogne lo calunniano. Bevetene generosamente perché nel suo aroma si dileguano le preoccupazioni, e il suo fuoco incenerisce i torbidi pensieri prodotti dalla vita quotidiana». Sì, caro Zanotti, il caffè era conosciuto anche in Europa prima della battaglia di Vienna, e ne era anche arrivato in diverse capitali del continente. A Venezia, ma questa notizia sicuramente la conosce, il caffè era arrivato addirittura nel 1560, venduto a carissimo prezzo dai farmacisti. Zuccherato piacque molto agli ammalati che poi ne fecero uso anche da sani e proprio per questo vent’anni dopo il caffè era diventato a Venezia una bevanda d’uso comune. Sa, caro collega, nei giorni scorsi ho trovato molti documenti secondo i quali il caffè, dopo Venezia, era giunto a Marsiglia nel 1654, a Parigi nel 1680 e in Germania lo stesso anno in cui i Turchi lo portarono a Vienna. E sempre nel 1683 a Venezia, sotto i portici delle Procuratie Nuove, che è quel lungo palazzo di Piazza San Marco che si trova sulla destra guardando la Basilica, fu aperta la prima bottega dove si vendeva solo caffè.”
“A Vienna dunque, disse a questo punto il professor Zanotti, il caffè è arrivato solo 123 anni dopo Venezia e immagino che i viennesi abbiano trovato che quella bevanda era piuttosto amara, e non l’avranno certo adottata da quel giorno.”
“Ha ragione, illustre collega, è stato proprio così, gli rispose Fischer. Come si legge nella cronaca, la bevanda turca non piacque ai viennesi e allora Kolschitzky, tentando di renderla meno amara, aggiunse po’ di latte al caffè versato nelle tazze e in tal modo il caffè divenne più gradevole e i viennesi iniziarono a berlo senza fastidio, grazie all’aggiunta di latte e, più tardi, anche con un po’ di zucchero. «Ma che bevanda è mai questa?» si chiedevano coloro che l’assaggiavano misto al latte. Nessuno, scrive il cronista, sapeva dare una risposta. Allora un nobil’uomo che viveva nel palazzo dell’imperatore, visto che il colore che assumeva il caffè con l’aggiunta del latte era simile al colore della tonaca di fra’ Marco e dei suoi confratelli propose di chiamarla «cappuccino». Questo nome piacque subito a tutti anche perché quel frate friulano era molto conosciuto e benvoluto a Vienna e alla sua vigorosa omelia era stato infatti attribuito il merito della vittoria sull’esercito turco, tanto che a Vienna ancor oggi fra Marco è considerato il vero artefice della grande vittoria del 12 settembre.”
“Sembra proprio una bella leggenda”, disse Zanotti.
“Non affermo che sia stato realmente così, obiettò Fischer, dico solo che così è scritto nella cronaca della quale le ho fatto ora una sintesi. Aggiungo che la quartina sulla quale è stata scritta l’ho trovata in mezzo ad altri manoscritti degli stessi anni, per cui credo proprio che l’estensore, come lui stesso dichiara, sia stato testimone dei fatti raccontati, anche se può averla scritta qualche tempo dopo. Dev’essere comunque stato un personaggio abbastanza curioso, cui non importavano molto i nomi dei comandanti né il numero dei combattenti né le strategie delle opposte fazioni. Vivendo le vicende dall’interno avrà sicuramente saputo la storia del fornaio e avrà assistito alla preparazione del caffè e del cappuccino e le avrà volute raccontare. Ma non è finita, perché il nostro sconosciuto cronista ci regala un’ultima ghiotta informazione. Scrive infatti che qualche giorno dopo la vittoria, re Giovanni di Polonia volle conoscere il panettiere che aveva dato l’allarme, impedendo ai Turchi di completare la galleria sotto le mura della città. Dopo averlo elogiato per l’atto compiuto, a ricordo perenne del suo tempestivo intervento gli diede un diploma col quale lo autorizzava a realizzare nel suo forno un pane speciale, dalla forma simile alla mezzaluna che si vede nelle bandiere dei Turchi. Il fornaio preparò subito un pane dolce a forma di mezzaluna e lo chiamò Hörnchen, che significa cornetto. Questa notizia non la conoscevo neppure io che di documenti del tempo ne ho letti davvero tanti. O forse l’avevo anche trovata ma fino alla scorsa settimana non le avevo dato importanza. Ha visto, caro collega, quante nuove informazione ci hanno regalato quei quattro fogli rimasti sepolti per oltre tre secoli? E pensare, aggiunse, che quel pane, nato nel settembre del 1683, è oggi patrimonio dell’umanità, lo si trova in tutto il mondo, prodotto da tutte le industrie dolciarie. Ed è, guarda caso, l’ideale compagno del cappuccino, che è diventato anch’esso una bevanda universale.”
“Ma nessuno lo chiama più Hörnchen, ma croissant”, esclamò Zanotti.
“Questa sì è buffa, disse sorridendo il professor Fischer. Il nostro cronista non poteva proprio saperlo, ma quasi un secolo dopo quella battaglia, nel 1770, una sfortunata figlia della nostra imperatrice Maria Teresa e di suo marito Francesco Stefano di Lorena, vale a dire Maria Antonietta, era andata sposa in Francia al duca di Berry, il futuro Luigi XVI. Nel seguito di dame e servitori che s’era portata a Parigi c’era anche il suo pasticcere personale che le preparava ogni mattina due Hörnchen. E quando quattro anni dopo suo marito divenne re di Francia, gli Hörnchen piacquero anche alla corte e vennero preparati dai forni reali sia a Parigi che a Versailles e poi, in breve tempo, nei forni di tutti i castelli di Francia. Ma a Parigi, se l’immagina, caro collega, ci poteva forse essere qualcosa che non avesse un nome francese? Sicuramente no! Ecco allora che i nostri stupendi e storici Hörnchen sono diventati croissant e così sono oggi conosciuti nel mondo. Il nome francese è probabilmente più dolce del nostro, concluse Fischer, ma si tratta sempre dei cornetti austriaci, dovuti alla bravura d’un fornaio viennese, del quale nessuno ricorda più il nome, ma che in una notte del 1683 salvò Vienna e l’intera Europa.”