domenica 20 novembre 2011

Il Baccalà dei veneziani

Ammirato principe del foro, Marcantonio Bragadini è diventato con gli anni un appassionato cultore della buona tavola. “Ho cominciato tardi, dice, quando da Verona mi sono trasferito a Venezia, un viaggio breve, per aprire lo studio nella città dei dogi, una città che mi ha affascinato da quand’ero bambino e vi sono arrivato in gita scolastica e ora non la lascerei per nessun’altra al mondo. Sì, ho cominciato tardi a sedermi alle tavole giuste, dopo che ho vinto le prime cause importanti, quando sono riuscito a raggiungere una certa tranquillità economica. Evidentemente prima dovevo accontentarmi di mangiare per vivere e non per godere quelli che si chiamano i piaceri della tavola.”
Marcantonio aveva conosciuto la tradizione veneziana del baccalà mantecato, la preparazione storica della città lagunare, le prime volte che si fermava a mangiare nelle trattorie di Venezia. Col tempo aveva poi scoperto che questo piatto in città lo si trova ovunque, nei ristoranti più prestigiosi, anche in quelli degli alberghi internazionali, così come è presente nelle trattorie e nelle osterie più popolari, eredi delle antiche furatole, proprio quelle dove entrava da giovane. Aveva poi visto che questa preparazione è accompagnata a Venezia da una fettina di polenta, bianca o gialla, soprattutto bianca, anche se aveva notato che qualche cuoco elabora questa crema in modi nuovi, senza bisogno di farla accompagnare dalla polenta, dandole così, almeno sembrano credere quei cuochi, nuova vita e nuovi estimatori. Marcantonio, frequentando buone tavole, aveva acquistato nel corso degli anni una buona cultura gastronomica e aveva osservato che nella città lagunare, dove da un secolo impera soprattutto la cucina di pesce, i piatti continuano a essere legati alle stagioni, preparati quasi sempre con quello che offre di giorno in giorno il mare, soprattutto l’Adriatico, e con gli ortaggi che si producono durante l’anno negli orti dell’estuario. 
Fra questi ultimi gli piacevano molto le castraure, che si trovano solo a primavera, prodotte nell’isola di Sant’Erasmo, ma per il baccalà mantecato sembra che la stagionalità non conti perché, come aveva visto, questo piatto è presente nei ristoranti tutti i giorni dell’anno, anche in piena estate. E la stessa cosa il brillante avvocato, cui lo stoccafisso piaceva molto, aveva trovato in altre parti d’Italia, soprattutto in Liguria, ma anche a Livorno, nelle Marche, a Messina e ancora a Treviso e a Vicenza dove un giorno era rimasto affascinato dall’ottima preparazione locale che si chiama per l’appunto baccalà alla vicentina. Quello che lo aveva colpito fin dall’inizio del suo rapporto col baccalà mantecato è l’aver scoperto che non si tratta propriamente di baccalà, che è il merluzzo salato, bensì di stoccafisso, che è il merluzzo essiccato, eppure nel Veneto tutti lo chiamano baccalà. Quando, con l’aiuto di alcuni suoi amici gourmet ha meglio conosciuto le tradizioni gastronomiche, gli è parso assai curioso che lo stoccafisso fosse chiamato a Venezia e nel Veneto baccalà, per cui gli era venuto il desiderio di saperne di più. È stato un professore di Ca’ Foscari, suo amico, ad accompagnarlo nello straordinario mondo di questo pesce nordico e, grazie a lui, ha trovato che storia, avventure, viaggi, religione, economia, sopravvivenza, tutto questo s’incontra nelle vicende di questo pesce conservato, molto amato non solo dai veneziani e dai veneti; un pesce non pescato nel Mediterraneo ma fatto conoscere a queste popolazioni dai mercanti veneziani tanti secoli fa. Indagando, nel suo girovagare fra ristoranti e trattorie, sui tempi e i modi davvero fortunosi del suo arrivo in Italia Marcantonio ha trovato che quel pesce ha segnato una tappa significativa nello sviluppo non solo gastronomico del mondo mediterraneo e anche se quella del baccalà può essere considerata una storia minore, una fra le tante che caratterizzano le vicende umane, essa gli è parsa emblematica del ruolo giocato da Venezia nell’alimentare con intelligenza e fantasia il cammino della civiltà.
Un giorno d’autunno, all’inizio dell’Avvento, Adalberto Bresolin, docente di storia economica dell’agroalimentare, col quale gli piaceva condividere le soste nelle trattorie veneziane, volle chiarire le idee all’amico avvocato, sempre pieno di domande. “Se vuoi proprio sapere tutto della storia del baccalà mantecato facciamo una bella passeggiata fino all’Arsenale e, camminando, ti racconto quello che so e che ho recentemente scritto in un articolo che ho qui in borsa. Anche se ci sono degli importanti antefatti che poi ti dirò, il punto di partenza della storia che ci interessa è il 4 dicembre 1563, data di conclusione della venticinquesima e ultima sessione del Concilio di Trento, celebrata in ritardo d’un giorno rispetto al previsto, a causa d’una discussione protrattasi oltre il tempo che era stato programmato dal rigido protocollo di quella grande assise. Negli atti ufficiali di quel Concilio si legge, infatti, che solo in quell’ultimo giorno i padri conciliari riuscirono ad approvare due importanti documenti, la cui discussione in precedenza era sempre stata rinviata, riguardanti l’uno i giorni dell’anno da considerare festivi a tutti gli effetti e l’altro i giorni in cui osservare il digiuno, quelli in cui astenersi dalle carni e l’elenco esatto dei cibi vietati nei giorni di magro. E grazie a questo ultimo accordo, raggiunto proprio in quel 4 dicembre, papa Pio IV, il milanese Giovanni Angelo Medici, con la geniale collaborazione del nipote cardinale Carlo Borromeo, era riuscito a portare a termine l’immane impresa del Concilio, iniziato ben diciotto anni prima, il 13 dicembre 1545. Le decisioni assunte in quel lungo e sofferto diciannovesimo Concilio della Chiesa cattolica, col solenne Concistoro del 12 dicembre 1563, cominciavano a trovare applicazione nella vita del mondo occidentale, Nuovo Mondo compreso, dal momento che i padri conciliari, tornando alle loro diocesi, avrebbero immediatamente trasmesso ai rispettivi fedeli quanto deliberato dalla lunga assise tridentina, convinti che la nuova tradizione si sarebbe presto diffusa nell’intera popolazione. Con quell’ultimo decreto su astinenze e digiuni, arrivato quasi fuori tempo massimo e frutto di accese discussioni e onorevoli compromessi, la Chiesa entrava ancor più nella vita quotidiana della gente, facendo il suo ingresso nelle cucine e instaurando, di fatto, nuovi regimi alimentari, in ciò rafforzando e ridando vigore a una tradizione che risaliva a molti secoli prima, ma che col tempo s’era andata smarrendo fra le pratiche dimenticate. E poiché il regime alimentare legato ad astinenze e digiuni risultò utile anche alla salute del corpo, specie di chi viveva e vive nell’opulenza, quel decreto del Concilio di Trento risultò provvidenziale più di quanto si sia creduto e ancora si creda.”
Immagine raffigurante  il Concilio di Trento
“Ma è proprio necessario riandare al Concilio di Trento per conoscere la storia del baccalà mantecato?” chiese Bragadini piuttosto perplesso.
“Certamente sì, perché la storia del baccalà mantecato comincia proprio fra il Quattro e il Cinquecento e, infatti, lo stoccafisso arriva a Venezia dopo il Concilio di Trento. Ti ricordo poi che alcuni anni prima della conclusione dell’assise tridentina, e precisamente nel 1555, era stato pubblicato a Roma un libretto scritto da un padre conciliare di origine svedese, l’arcivescovo di Uppsala Olaf Mansoon, che aveva mutato il suo nome in quello romanizzato di Olao Magno. Quel volumetto era intitolato Historia delle genti e della natura delle cose settentrionali e aveva lo scopo, fra l’altro, di far sapere che proprio dai Paesi del Nord Europa poteva venire ai cristiani un aiuto per osservare con più diligenza quello che allora era ancora soltanto un progetto, che derivava comunque da un’antica  tradizionale iniziata nei primi secoli del Cristianesimo: l’attuazione della penitenza nel periodo quaresimale e in ogni venerdì mediante il digiuno e l’astinenza dalle carni, cosa questa che significava adesione non solo spirituale all’insegnamento della Chiesa, nella convinzione che la salvezza dell’anima vale infinitamente di più di qualsivoglia soddisfazione della gola. Ti parlo proprio seguendo quanto ho scritto nel mio articolo che ho qui in mano. Nei mari del nord – scriveva dunque Olao Magno – si pesca «un pesce detto merlusia, che nella lingua gotica è chiamato Thorsh e, con la voce dei Batavi, cabellau. Il tempo nel quale si prende è il mese di febbraio, marzo, aprile e poi che sono questi pesci presi si seccano ai venti freddi e finalmente fuori alle campagne aperte, se ne fanno come cataste di legna e poi li dividono e li vendono a li mercanti germani a misura di braccia e canna a l’usanza italiana, a molte migliaia per volta, ovvero si barattano a grano, cervosa, panno e simili mercanzie.». In questo modo Olao Magno lasciava intendere che c’era abbondanza di merluzzo secco, ideale per avere sempre a disposizione un cibo per i giorni di magro.”
“Furbetto il nostro vescovo, non ti pare?” esclamò l’avvocato.
“Lo penso anch’io. È infatti da credere che gli intendimenti dell’arcivescovo di Uppsala, non apertamente confessati ma sicuramente compresi dai suoi confratelli, fossero quelli di promuovere il merluzzo seccato ad alimento principe per i giorni di astinenza in tutti Paesi cristiani dell’area mediterranea dove non era ancora conosciuto. In verità – come ha piacevolmente fantasticato anni fa un simpatico intellettuale vicentino, Virgilio Scapin – «a Trento i gravissimi padri conciliari continuavano a preferire, nei giorni di magro, le trote e i capitoni del Sarca, le tinche del lago di Molveno, i lucci e i bulbari del lago Santo di Civizzano, i salmerini della valle del Ledro, i barbi, i temoli e le trote dell’Adige.». Ma occorreva pensare al futuro, se quel benedetto documento sui giorni di magro fosse stato finalmente approvato. C’erano centinaia di migliaia, anzi milioni di bocche da sfamare e i giorni dell’Avvento e della Quaresima erano lunghi e in più c’erano le Vigilie delle grandi solennità e tutti i venerdì e le Sacre Tempora. Cosa fare se gli inverni erano freddi e nevosi, i corsi d’acqua ghiacciati? Dove trovare il pesce per quei giorni di magro? Il saggio arcivescovo, innamorato della sua terra e sempre attento al suo gregge, anche nelle cose materiali, aveva lanciato un messaggio che sapeva tempestivo e molto utile.
Questo, caro amico, è il capitoletto che riguarda il Concilio di Trento, un avvenimento fondamentale per far arrivare lo stoccafisso in Italia. Ma a questo punto occorre andare più indietro nel tempo, all’antefatto della nostra storia, perché a Venezia del merluzzo seccato, prodotto e utilizzato nei paesi dell’Europa centrosettentrionale, già si sapeva da oltre un secolo, perché a scoprirlo era stato proprio un veneziano, il nobile Piero Querini, capitano di mare della Repubblica di San Marco. Come ha raccontato anni fa Virgilio Scapin, squisito personaggio di quella Vicenza intellettuale che non disdegna le buone tavole, già priore di quello straordinario sodalizio che è la Venerabile Confraternita del Baccalà alla Vicentina che riunisce tanti amanti del celebre piatto vicentino, il Querini, in uno dei suoi viaggi dal Mediterraneo ai porti del Mare del Nord, iniziato a Creta il 25 aprile dell’anno 1431, «si è lasciato di poppa le colonne d’Ercole, dopo aver costeggiato gran parte della Barberia ‘per il contrasto de’ venti contrari’. Ora un vento teso e piovoso soffia gagliardo sulle vele bene amministrate dalla ciurma, sessantotto uomini in tutto. Il carico è prezioso. Nella pancia della cocca sono stivate botti di fragrante vino cretese, sacchi di pepe e altre spezie odorose, balle di cotone, rotoli di seta, casse ricolme di arazzi, vetri. Li aspettano i mercanti nordici per fruttuosi baratti, lucrose vendite. Ultima tappa, i porti della Lega Anseatica, cuore pulsante dell’allora regno finanziario, quasi il seme di un mercato comune europeo. Sulle coffe, sui casseri, sui ponti tutti gli uomini sono all’erta. Il comandante vicino al timoniere veglia sulla rotta. Una gravida nave solitaria corre sempre maggiori pericoli, navi castigliane e inglesi possono all’improvviso avventarsi sul naviglio e predarlo.»
Il viaggio del navigatore Piero Querini,
casuale scopritore dello stoccafisso.
Tralascio il pittoresco racconto di Scapin, per citarti qualche passaggio tratto dalle severe pagine della relazione che lo stesso Querini consegnò quasi due anni dopo ai magistrati veneziani, una volta tornato in città: «Appresso il luogo di Calese, posto in la provincia di Spagna, dove, per causa del pedota ignorante, accostati alla bassa di San Pietro toccammo con la nave in una roccia di scoglio non apparente sopra il mare, in modo che ‘l nostro timone uscitte dal luoco suo, non senza risentimento delle ancare». Sfortuna volle – ti sintetizzo una pagina della relazione del Querini – che mentre il vascello vagava senza controllo al largo di Cadice s’innalzasse d’improvviso un forte vento tempestoso, spingendolo in un vortice turbinoso fin verso le isole Canarie e qui, gettato nella Corrente del Golfo, fosse furiosamente spinto verso il nord, senza possibilità di controllo. «Or, ha scritto il Querini nella sua ampia relazione che si trova attualmente depositata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, trovandosi la nave senza vele e senza timoni, instrumenti necessari al navicare, similmente gl’animi di tutti noi erano tanto afflitti e sbattuti che non si trovava più forza, lena né vigor…. e alcune fiate le soperchiava ed empiva d’acqua: pur noi miseri, così stanchi, eravamo astretti a svodarla.» Le avventure che seguono sono state così ben riassunte da Virgilio Scapin: «Il vento non allenta il suo morso, e come estremo rimedio viene tagliato l’albero e gettato in mare. La nave disalberata ‘la cominciò ad andare più alla banda, di sorte che l’onde del mare facilmente v’entravano dentro’. A malapena riescono a mettere in mare le due piccole fuste di salvataggio, dividendosi 21 da una parte e 47 dall’altra. 
Le scorte finiscono, alcuni marinai bevono acqua salmastra ed è l’ecatombe. Quando la più grande delle due barche si infrange sugli scogli che cingono le isole Lofoten, i marinai, da sessant’otto che erano sono ridotti in 14. Si nutrono di chiocciole marine e patelle finché la burrasca non getta sulla riva un enorme pesce di 200 libbre.» Finalmente hanno qualcosa da mangiare, ma ancora non lo sanno: quei poveri naufraghi affamati sono stati sbattuti sullo scoglio disabitato di Sandøy, nell’arcipelago delle Lofoten, nella Norvegia del Nord, dove non c’è proprio nulla. È il 6 gennaio 1432. Passano i giorni e, calmatosi grazie a Dio il mare, all’inizio di febbraio, vengono individuati dai pescatori della vicina isola di Røest che li portano in salvo e li ospitano nelle loro case. Qui Piero Querini e i suoi pochi compagni restano centodieci giorni per recuperare la salute provata da cotanta tragedia e riprendere le forze che se n’erano andate, poi, con un viaggio attraverso le città della Germania, ritornano, tra l’ottobre 1432 e il gennaio 1433, a Venezia. Devo aggiungere, caro Marcantonio, che nella dettagliata relazione del capitano di mare si leggono molte informazioni sulla vita di quei pescatori e sono proprio le prime notizie che arrivano a Venezia sulla storia del baccalà, o, meglio, dello stoccafisso. Scrive infatti che gli abitanti di quell’isola «non d’altro mantengono la loro vita che del pescare, perocché in quella estrema regione non vi nasce alcun frutto. Tre mesi dell’anno, cioè giugno, luglio, agosto, sempre è giorno né mai tramonta il sole e ne’ mesi oppositi sempre è quasi notte, e sempre hanno le luminarie della luna. Prendono fra l’anno innumerevoli quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono passere, ma di mirabile grandezza, dico di libre dugento a grosso l’una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come il legno. Quando li vogliono mangiare li battono col rovescio della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna. Le passere, per essere grandissime, partite in pezzi le salano, e così sono buone. E poi nel mese di maggio si partono di quel scoglio con una sua grapparia grandetta, di botti 50, e cargono detto pesce conducendolo in una terra di Norvegia, per miglia oltre mille, chiamata Berge, dove a quella muda di molte parti vengono navi di portata di botte 300 e 350 cariche di tutte le cose che nascono in Alemagna, Inghilterra, Scocia e a Prusia, dico necessarie al vivere e al vestire. E quelli che conducono detto pesce (ch’innumerevoli sono le grapperie) lo barattano in cose a lor necessarie, perché com’ho detto niente vi nasce dov’è la lor abitazione: né hanno né maneggiano moneta alcuna, si che fatti i suoi baratti se ne tornano adrieto, sempre resalvandosi luoco da poter tor delle legne da bruciare per tutto l’anno a altri suoi bisogni.»
Questo ha scritto il nostro capitano e il suo non è stato certo un viaggio da puro spettatore, non era in vacanza. Già i lunghi mesi fra il 25 aprile e il 6 gennaio sono un’avventura che ha coinvolto quei marinai fino all’estremo delle loro forze e i più non ce l’hanno fatta, poi i centodieci giorni nell’isola dei pescatori, oltre il Circolo polare artico è stata un’esperienza davvero unica per quel tempo. Ma quel che più conta è che Querini e i suoi marinai hanno conosciuto lo stoccafisso e l’hanno fatto conoscere a Venezia e, attraverso Venezia, all’Italia. Aggiungo poi che, conoscendo il comportamento della burocrazia della Serenissima, il lungo documento di Piero Querini immagino sia stato letto con la massima attenzione dai funzionari a ciò incaricati, così come penso che essi abbiamo prontamente convocato a Palazzo il redivivo marinaio, chiedendo ogni altra possibile e più dettagliata informazione sul naufragio, sulle terre visitate, sulle abitudini delle popolazioni nordiche incontrate, sui loro commerci. Com’era prassi, tutte le risposte venivano diligentemente registrate e il verbale dell’interrogatorio, unitamente alla relazione consegnata dal Querini venne poi depositato, com’era uso, nell’archivio della Repubblica, cui si aggiunse, in seguito, anche la relaziona del nostromo Cristoforo Fioravante redatta assieme al marinaio Nicolò di Michiel, anche loro sopravvissuti.  Di questa vicenda se ne parlò sicuramente anche a Rialto e a San Marco, dove quanti conoscevano Piero Querini lo avranno bloccato lungo le calli e nei campi per sapere dalla sua viva voce ogni particolare della terribile avventura. Non furono comunque in molti a Venezia a venire informati che nei mari del Nord si pescava il merluzzo, fatto poi essiccare al vento, ragion per cui diventava duro come un bastone.”
“Dunque i veneziani conobbero lo stoccafisso già nella prima metà del Quattrocento?  E perché attesero la seconda metà del secolo successivo per andare ad acquistarlo?”
“Domande legittime, caro amico. Ti dico subito che fino al Concilio di Trento si continuò a mangiare praticamente come nel Quattrocento: i ricchi e, fra questi, la quasi totalità dei nostri antichi patrizi, continuarono ad abbuffarsi di carne che arrivava in abbondanza a Venezia ogni giorno dalla terraferma e il popolino continuò tranquillamente, si fa per dire, ad arrabattarsi col  consueto e collaudato ingegno nella povertà. Quello che tuttavia è importante è che la memoria della scoperta di Piero Querini non andò perduta. Anzi, oltre un secolo dopo, nel 1559, quella relazione fu data alle stampe da un funzionario dogale, Giovanni Battista Ramusio, segretario del Consilio dei Dieci, così quando, pochissimi anni dopo, il Concilio di Trento proclamò solennemente il lungo elenco dei giorni nei quali si doveva mangiare di magro, gli avidi mercanti della Serenissima compresero al volo come volgere a loro vantaggio il decreto conciliare. E intrapresero la strada del Nord per andare nel porto di Bergen a comperare quel pesce secco, capace di conservarsi inalterato per molti e molti mesi.”
“Ma in Europa prima di Querini nessuno conosceva lo stoccafisso?” chiese Bragadini.
“Innanzi tutto è ormai accertato che il naufragio del capitano veneziano nel lontano 1431 è stato determinante per far conoscere lo stoccafisso in Italia, ma il Querini non fu il primo europeo a conoscere il merluzzo conservato. Altri europei e precisamente i marinai baschi lo avevano conosciuto diversi secoli prima. Era infatti l’anno 875 quando alcune loro imbarcazioni partite dal golfo di Biscaglia, dopo aver percorso ben 2400 chilometri erano arrivate alle isole FærØer dove incontrarono il merluzzo. I Vichinghi erano giunti da poco in quelle terre e avevano subito scoperto che questo pesce, essendo privo di grasso, si conserva meglio di ogni altro: basta o salarlo o metterlo al sole. In questo secondo caso si asciuga completamente della propria umidità e diventa secco e duro come un bastone, conservandosi integro per molti mesi. I baschi, non conoscevano questo tipo di conservazione e, abituati come gli altri abitanti dell’antico impero romano al pesce conservato nel sale, trascurarono lo stoccafisso preferendo quello sotto sale che trovarono più vicino a casa, nei porti di Terranova. E, attraverso poi gli Spagnoli, il baccalà, così chiamano il merluzzo conservato sotto sale, arrivò anche a Napoli e in Sicilia, dove ancor oggi è preferito allo stoccafisso.”
“Devo dire che questa storia è molto interessante. In quegli anni, tra Quattro e Cinquecento, siamo nel tempo della scoperta di questo pesce, ma dopo cosa è successo che lo stoccafisso a Venezia ha cambiato nome ed è diventato baccalà ed oggi è un piatto così famoso?”
“Se sul naufragio di Piero Querini e sul suo incontro con lo stoccafisso abbiamo ampia documentazione, ben poco sappiamo di quello che avvenne poi. Coloro che in seguito hanno indagato sulle avventure veneziane di quel pesce nordico hanno infatti trovato pochi documenti che parlino del suo uso alimentare a Venezia e nel Veneto nel corso del ‘500 e del ‘600. Ma qualche carta scritta è rimasta negli archivi per cui sappiamo, ad esempio, che nell’anno 1793, dovendo compiere un lungo viaggio per mare, il nobiluomo veneziano Leonardo Correr fece stivare nella sua nave, tra l’altro, 100 libbre di riso, 150 libbre di orzo, 150 di maccheroni di Napoli, 300 libbre di pasta diversa, 30 prosciutti, 20 salami all’aglio, 93 ossacolli e 387 libbre di baccalà. Dunque anche il baccalà, seppur nessun ricettario ci riveli come in quegli anni i veneziani lo trasformassero in cibo. Ma a Venezia c’era e veniva abbondantemente usato. E conferma questa convinzione un attento studioso, Luigi Messedaglia, il quale scrive che «nei testi letterari italiani la voce baccalà non comincia a comparire che nel secolo 17°»: dunque nel Seicento, qualche decennio dopo il Concilio di Trento, a Venezia il baccalà già c’era. E qui inizia anche la confusione dei termini, quella che colpisce quanti scoprono che il baccalà dei veneziani altro non è che stoccafisso. Se il Querini nella sua relazione parla di stoccafisso, come mai quand’esso arriva nel Veneto sul finire del Cinquecento, viene poi chiamato baccalà e il termine permane fino ai nostri giorni, usando la parola che invece indica più esattamente il merluzzo sotto sale? A questa domanda ha cercato di rispondere il Messedaglia, che ha scritto: «Oggi è provato che baccalà anzi che derivare dal basso tedesco, come è stato sostenuto, è né più né meno italianizzazione della parola spagnola bacalao; e baccalà è una delle tante parole che ci è venuta dalla Spagna al tempo del suo predominio in Italia. La voce baccalà e la merce correlativa non diventeranno d’uso comune in Italia che nel pieno Seicento». E aggiunge: «La denominazione di stoccafisso, venutaci dal tedesco Stocfish, è di introduzione in Italia relativamente recente.» Tutto qui.”
“E allora? Ma il Querini non aveva forse usato il termine stoccafisso?”
“Certo e credo proprio abbia ragione il Messedaglia quando afferma che il termine usato dai Veneti per indicare il “pesce bastone”, cioè il merluzzo essiccato, è stato in un certo senso imposto dalla presenza degli Spagnoli nel Nord Italia. Loro, infatti, al contrario dei Veneti e di altri abitanti della nostra penisola, come prima ti ho detto, fanno uso da sempre del vero baccalà, che è pur esso merluzzo, il quale, però, partendo dal Mar Glaciale Artico non si dirige verso il Capo Nord, le isole Lofoten e la Norvegia, come il futuro stoccafisso, ma verso il Labrador e Terranova, dove viene pescato e conservato sotto sale, quindi inviato in gran quantità in Portogallo e in Spagna. E che proprio la lingua spagnola abbia influenzato la parlata veneziana riguardo questo pesce ce lo conferma il nome dato alla più raffinata preparazione gastronomica che i veneziani abbiano saputo ottenere dallo stoccafisso, vale a dire il baccalà mantecato, dove anche l’aggettivo è tratto dallo spagnolo, e una corretta traduzione italiana dovrebbe dunque essere crema di stoccafisso.”
“Tutto bene. Ma, secondo te, quando i veneziani hanno imparato a trasformare in questo modo lo stoccafisso?”
“Credo abbastanza presto, anche se non ci sono documenti al riguardo. E dico presto, cioè nella prima metà del Seicento, perché a Venezia l’olio d’oliva non è mai mancato fin dai primissimi tempi, portato sia dall’Istria che dal Meridione d’Italia dalle tante navi veneziane che si fermavano in tutti i porti dell’Adriatico, dalla Puglia in su. Facendo bollire lo stoccafisso, eliminando pelle e lisca e poi incorporandovi l’olio d’oliva avranno facilmente scoperto che si otteneva una crema elegante e soprattutto molto buona. Poi il piatto si sarà affinato nel corso del tempo, fino a quella delizia che oggi incanta quanti arrivano a Venezia.”
“Lo sai, Adalberto, che mi hai fatto venire l’acquolina in bocca? Tornando indietro andiamo per le Mercerie e subito dopo Campo San Bartolomeo andiamo un attimo da Albino Busatto alla Fiaschetteria Toscana. Da lui ho mangiato sempre bene, anche un ottimo baccalà mantecato.”
Sembrava proprio che Albino li aspettasse. Era sulla porta del suo bel ristorante e, sentita la richiesta accontentò subito i due personaggi che ben conosceva. Per prima cosa andò in cucina e prese un piattino di baccalà mantecato e un paio di forchette. Fece accomodare Adalberto e Marcantonio a un tavolo, prese un cestino con delle fettine di pane e una bottiglia di Manzoni Bianco. Poi si sedette con i due amici.
“Ecco il baccalà mantecato, disse, questo splendido piatto che continua ad essere vanto della cucina veneziana e veneta, richiesto da tutti gli ospiti che da ogni parte del mondo arrivano nella nostra città. E, se volete, vi dico anche come lo prepariamo noi, seguendo l’antica tradizione veneziana.”
“Grazie, ci terrei proprio”, esclamò Bragadini. 
“Dunque, per preparare il baccalà mantecato, e qui a Venezia c’è ancora qualcuno che lo chiama in rosada, si prende uno stoccafisso, badando che sia di ottima qualità, meglio se “ragno” che è, in assoluto, la qualità migliore. Lo si batte con un mazzuolo fin che diventa bello morbido, ma oggi lo si trova già preparato in negozio e a me lo dà già pronto il mio fornitore. Poi, quando mi serve, lo metto a bagno per almeno 48 ore, ma, quando posso, lo tengo anche 4-5 giorni, cambiandolo d’acqua almeno tre volte al giorno. Poi lo trasferisco in una pentola con acqua fredda e lo porto a bollore, sui 90 gradi, tenendolo per circa 45 minuti. Lo lascio raffreddare, quindi elimino pelle e lische, anche se c’è chi, tra il popolo, la pelle la conserva, perché, dice, gli dà più sapore, ma io la getto, come facevano i nostri antichi. Poi lo sminuzzo e lo metto in un contenitore molto alto, rimescolandolo vigorosamente con un cucchiaio di legno dal manico lungo e versandovi pian piano, a filo, mentre lo sbatto, del buon olio extravergine d’oliva, fin che ne assorbe. Verso la fine della preparazione lo aggiusto di sale e di pepe, ma poco di questo, aggiungo un piccolo trito di prezzemolo, qualche spicchio d’aglio ben mondato, che poi levo al momento di servirlo e continuo a sbattere fino a portarlo a una consistenza omogenea e piacevolmente cremosa, facendo tuttavia in modo da coservare qualche pezzettino più consistente. Infine lo servo preferibilmente freddo su fette di polenta abbrustolita. Questa, cari amici, è la ricetta tradizionale veneziana e non c’è luogo a Venezia, nel Veneto, nelle località lungo la costa friulana e giuliana e financo in Istria e nelle isole del Quarnaro e poi giù lungo la Dalmazia e fino a Zara e ancora più in giù, dove, pur con qualche variante, non si continui a seguire questa inimitabile ricetta che fa giustizia di tutti i luoghi comuni che ancora esistessero sul baccalà, o, per chiamarlo col suo giusto nome, sullo stoccafisso, da oltre quattro secoli re delle tavole invernali, e, preparato “alla veneziana”, in totale purezza, senza nessun altro ingrediente che non sia l’olio extravergine d’oliva, ottimo tutti i giorni dell’anno. E adesso brindiamo pure con il nostro Manzoni Bianco, un vino che sposa benissimo questo piatto che, credo, è oggi il più presente nella ristorazione veneziana.”