di Giampiero Rorato
Natale è una festa molto importante e solenne e nel mondo cristiano il 25 dicembre è addirittura chiamato Santo Natale, poiché ricorda la nascita di Gesù a Betlemme, il giorno in cui Dio ha incontrato l’umanità. Giorno quindi straordinario e nella tradizione occidentale (ma non solo) accanto ai riti religiosi, la tradizione vuole che ogni famiglia continui la festa e si riunisca in casa o in ristorante attorno a tavole riccamente imbandite..
È interessante sottolineare come per la tavola delle feste natalizie il Veneto abbia saputo conservare dei piatti che possono essere definiti storici, essendo presenti da secoli nelle case, pur nella varietà delle tradizioni che caratterizza le diverse aree della regione.
Ma vediamo due documenti che descrivono la tavola di Natale e in particolare quella della vigilia, la sera del 24 dicembre.
Samuele Romanin, autore di una Storia documentata di Venezia (10 volumi, 1853-61), scrive che fin dai tempi più remoti, a Venezia “il popolo aveva certi cibi in giorni segnalati, come le anguille, il salmone, i cavoli crespi, la mostarda, il mandorlato alla sera della vigilia di Natale”.
Ed Elio Zorzi, innamorato della sua Venezia di cui conosceva la storia e le tradizioni, anche quelle gastronomiche, nel suo celebre Osterie veneziane (1928), scrive: “Oh delizia della cena della vigilia, come cantarne degnamente i fasti? Chi saprebbe dire saporosamente la bontà dei risotti di cape, o della minestra di risi e verze, le gioie del salmone fresco, le piccanti voluttà dei bovoli col vin bianco, la grassa morbidezza del bisato allesso, arrosto ed in umido, la delicatezza dei maestosi brancini e delle sode boseghe di valle? E la crocchiante sensuale rinfrescante carezza del radicio rosso di Treviso e di Castelfranco che si scioglie tra i denti come un fiore candito? E la piccante dolcezza della mostarda e le attaccaticce squisitezze dei mandorlati, e la spuma delicata della panna montata con i relativi storti, e con i maroni rosti, o con balote, cioè le castagne allesse con le foglie d’alloro?”
Cena veneziana della vigilia di Natale nelle case patrizie e borghesi, si dirà, e Elio Zorzi aggiunge subito nostalgico: “Care vecchie cose, che a ciascuno ricordano altri tempi, lontani ormai nella vita, altre cene della vigilia, alle quali sedevamo accanto a cari esseri che più non sono, ascoltando care voci, che si sono taciute per sempre.”
Perché a Natale, pur celebrando una nascita, il pensiero delle famiglie corre ai propri cari che non ci sono più, come dire al veloce passare del tempo, ad affetti interrotti, a incontri che più non ci saranno. Per fortuna ci sono i bambini a riportare gioia e conforto nei cuori degli adulti.
La cena della vigilia raccontata dal nobiluomoo Zorzi, di antichissima famiglia dogale, appartiene più propriamente a quel patriziato che nell’800 era ancor vivo e attivo a Venezia, assai più di oggi, eppure qualcosa, anzi, più di qualcosa di quella bella tradizione è rimasto anche ai tempi nostri, anche se negli ultimi decenni c’è stata la perdita di buona parte della memoria storica e alcuni di quei piatti o sono caduti nel dimenticatoio o sono stati semplicemente trasferiti – magari perché molto buoni - in altri giorni e in altri periodi dell’anno, lasciando a una ristorazione, spesso purtroppo improvvisata e incolta, il compito di inventarsi piatti natalizi incapaci di superare l’esame del tempo.
L’anguilla, il bisato, è però rimasto, anche se fino a tutto il secolo scorso nelle famiglie dell’alta borghesia quale pesce della vigilia era preferito il branzino o spigola; mentre in quelle della media borghesia e del ceto popolare di buone condizioni era rimasta l’anguilla; e, a loro volta, i “repentini”, i “bisnenti” (coloro che hanno due volte niente), dunque i più poveri s’accontentavano di un buon piatto di chiocciole e polenta (poenta e s’ciosi).
Il maestoso brancino ricordato da Zorzi era però per le mense del patriziato veneziano, che celebrava il Natale in città, mentre in terraferma era d’obbligo l’anguilla, soprattutto le grosse e grasse femmine, prese a ottobre quando scendono verso il mare per il loro viaggio nuziale e conservate nelle peschiere delle ville di campagna. L’anguilla poi la si trovava fin verso la metà del secolo scorso in ogni corso d’acqua, mentre oggi s’è fatta purtroppo più rara per l’inquinamento dei fiumi e degli stessi oceani. E le chiocciole, chiamate volgarmente lumache, sono diventate piatto molto ricercato.
La mostarda ricordata da Romanin e da Zorzi è più presente il giorno dopo, quando il pranzo di Natale può anche iniziare senza antipasto, assolutamente non tradizionale in terra veneta (salvo nei pranzi dei matrimoni del passato, nei quali consisteva in un piatto di affettati di salumi accompagnati da giardiniera). Poi, magari dopo un moderno antipasto che ricordi l’antica presenza del salmone (in passato servito quale piatto di mezzo o per secondo), ecco giungere in tavola i “raffioli in brodo”, come ricorda sul finire del ‘300 l’Anonimo Veneziano, cioè ravioli alla veneziana ripieni di carne serviti in un ottimo brodo, magari di cappone, la cui carne, naturalmente allessa, veniva servita subito dopo con la mostarda veneta, con la frutta ben tritata. Il cappone è comunque rimasto e troneggia ancor oggi sulle tavole natalizie per la gioia dei commensali.
Dai tempi della presenza austriaca (1816-66), tra il Congresso di Vienna e la terza guerra d’indipendenza, i veneti hanno fatto proprio anche il piatto natalizio degli occupanti, vale a dire la tacchinella arrosta (in Austria era accompagnata dalle castagne). Attualmente, c’è chi predilige il cappone, che tuttavia non è sempre reperibile, e chi la tacchinella, più facile da trovare (ecco uno dei tanti apporti esterni assimilato dai veneti). E, naturalmente, non manca, non può mancare, come ricordava Elio Zorzi, il radicchio rosso di Treviso, principe della tavola natalizia, ma vanno bene anche il radicchio rosso di Verona, quello di Chioggia e, naturalmente il variegato di Castelfranco.
Ci sono ristoranti che servono entrambi le carni citate, dapprima il cappone bollito e poi la tacchinella al forno, unendo nel pranzo di Natale, magari inconsapevolmente, due tradizioni, la veneziana e la viennese.
A concludere il pranzo di Natale in passato c’era la pinza, il pane dolce di Natale, poi relegato all’Epifania con l’avvento del panettone milanese, mentre nel veronese c’è, da tempi lontani, il Nadalin, e, dalla fine dell’800, il Pandoro, ormai ovunque presente e non manca in nessun luogo il mandorlato, ricordato da Elio Zorzi e a Cologna Veneta, nel veronese, si producono mandorlati veramente ottimi.
Può la tradizione insegnarci qualcosa per preparare in modo corretto la cena della vigilia e il pranzo di Natale? Credo proprio di sì. La cena della vigilia, in quelle ultime ore d’attesa della nascita del Bambino di Betlemme, resta di magro, penitenziale e, oltre all’anguilla c’è il baccalà, introdotto nel Veneto nella seconda metà del ‘500 dai mercanti veneziani proprio per assolvere al dovere dell’astinenza dalle carni, o ancora la soda bosega di valle, ricordata da Zorzi. Ma ci sono famiglie che anticipano alla sera della vigilia il pranzo di Natale, anche questa antica tradizione veneta.
Veniamo al pranzo del 25 dicembre: il primo piatto può essere anche una minestra di riso – risi in brodo coi fegatini – o, certamente oggi più gradito, un ottimo risotto all’onda, magari col radicchio rosso di Treviso, che è piatto d’alta gastronomia, ma attenzione, solo riso con un suo soffittino molto delicato, radicchio rosso di Treviso e una leggera mantecatura, senza aggiunta di vino rosso che rovinerebbe il piatto, anche se qualche cuoco eretico lo fa. Degli altri piatti – salmone, cappone, tacchinella, radicchio rosso di Treviso, mostarda, mandorlato – s’è già detto e le brave donne venete così come i cuochi dei ristoranti possono giocare a piacimento.
Ricordo, infine, che un buon numero di fornai e di pasticceri veneti hanno saputo realizzare dei dolci che non hanno assolutamente invidia del panettone alla milanese, a cominciare dal Pandoro, per continuare con dei Panettoni alla veneziana e alla veneta, leggeri e piacevolissimi (realizzati in molti casi col lievito madre, da preferirsi), da gustarsi per tutto il periodo natalizio, fino a quando, la sera del 5 gennaio, si gusta dovunque la pinza epifanica. E mi permetto di aggiungere che un buon panettone artigianale, preparato dal fornaio o dal pasticciere di fiducia è di gran lunga migliore e più godibile di un dolce industriale preparato magari mesi prima.
E per i vini? Il Natale è una festa importante, ricorda la nascita di Gesù a Betlemme, inizio di una storia nuova per tutta l’umanità, anche per chi non conosce Gesù e il suo Vangelo e proprio perché diventata festa di tutti i popoli deve essere un giorno di grazia, di gioiosi incontri, di reciproci sorrisi, di sinceri auguri. Non può mancare lo spumante e nel Veneto ce n’è in abbondanza, poi ottimi vini bianchi (Lugana, Soave, Lison, Manzoni) e gran rossi (Valpolicella, Merlot, Cabernet, Malanotte, Refosco) per i secondi piatti di carne. E per il dolce? Il Veneto produce nei Colli Euganei due ottimi vini per i dolci lievitati: il Moscato Fior d’Arancio e all’inizio della Lessinia il Recioto di Gambellara Spumante: questi sono i vini che meglio accompagnano i dolci lievitati, ma se si ha in casa un Prosecco Dry per brindare alla famiglia e agli amici si alzino i calici e auguri di cuore un Felice e Sereno Santo Natale.