Ortaggio di antica storia, è stato valorizzato nel corso dell’800, esplodendo nella seconda metà del secolo scorso per la gioia dei buongustai
di Giampiero Rorato
Il radicchio rosso di Treviso era conosciuto e coltivato nel Trevigiano e nelle confinanti aree del Veneziano e del Padovano già nel Cinquecento, considerato non molto diversamente da quel “radicchio di campo” che, dopo il freddo di dicembre e gennaio, è il miglior compagno dei fagioli bolliti nel delizioso piatto veneto dei “radici e fasioi”. Nasce dallo stesso ceppo originario del Cichorium intybus (la cicoria selvatica, dai bei fiori azzurri), come gli altri celebri radicchi veneti, il Variegato di Castelfranco, la rosa di Chioggia, il rosso di Verona, il bianco di Lusia e ancora il radicio verdòn o radìcio dal cortel, come il radicchio di Bruxelles conosciuto anche come cicoria Witloff e altre varietà ancora.
È nel corso dei due ultimi secoli, grazie a molti interventi migliorativi, soprattutto selezioni e incroci, che il radicchio rosso di Treviso acquista la sua tipicità e la sua identità come oggi lo conosciamo. E la vera svolta della sua storia è dovuta a Francesco Van den Borre, il quale, arrivato nel Trevigiano dal natio Belgio nel 1860 per realizzare un vasto parco attorno a una villa del Terraglio (la grande strada che unisce Treviso a Mestre), volle applicare al radicchio coltivato negli orti trevigiani – allora soprattutto nei comuni di Casier e Preganziol - la tecnica di imbianchimento in uso in Belgio per affinare le cicorie coltivate in quel Paese. In pochi anni avvenne una vera e propria rivoluzione nella coltivazione del radicchio che cambiò completamente immagine e gusto, trovando amatori anche fuori dall’area di produzione. Le nuove tecniche vennero applicate anche negli altri comuni del territorio, come pure a Scorzè nel Veneziano e Trebaseleghe nel Padovano e poi via via in tutti i 45 comuni dell’area IGP.

Già all’inizio del secolo scorso il nuovo radicchio faceva bella mostra di sé nelle tavole dei patrizi veneziani e nei primi grandi alberghi del Lido e il veneziano Elio Zorzi, pubblicando nel 1928 il suo aureo studio sulle “Osterie Veneziane”, ebbe a scrivere: “Il radicchio di Treviso è un fiore commestibile, quando venga portato in tavola senz’essere prima condito, sembra, nella casalinga insalatiera, un mazzo d’orchidee in una preziosa coppa di porcellana. E, forse, il fior di loto della mitica Libia, il sapore del quale era così delizioso da far dimenticare la patria agli stranieri, non era che un lontano progenitore del radicchio di Treviso”.
Giuseppe Maffioli, poco dopo la metà del secolo scorso, lo definì “l’estremo dono della terra, che, quando l’autunno si assopisce nell’inverno, dall’umidità verdognola del campo, sommerso negli stessi umori della stagione in dissolvimento, si gonfia di linfe trionfali che gli danno un colore e una consistenza impareggiabili. Il rosso, tono dominante della natura moribonda, diviene risplendente di riflessi dorati e si erge nella sua crescente freschezza come su steli di alabastro, a cantare una vita che sfida i rigori dell’inverno e se ne avvantaggia.”