venerdì 10 giugno 2016

Buongustai o ghiottoni?

Un dilemma che accompagna gli uomini fin dall’antichità, denunciato già nel II secolo da Clemente di Alessandria
di Giampiero Rorato



Clemente di Alessandria (150-215 d.C.) è considerato uno dei messimi intellettuali della classicità greco-romana nonché il più importante pensatore e pedagogista cristiano delle origini. Tito Flavio Clemente nacque probabilmente ad Atene da una famiglia benestante che gli permise di avere un regolare e serio corso di studi che ben traspare dalle sue opere.
Fin da giovane intraprese lunghi viaggi alla ricerca, come lui stesso scriverà più tardi, della verità. Dalla Grecia si recò nell’Italia meridionale, in Asia Minore, in Siria, in Palestina e in Egitto. Egli fu sempre un uomo assetato di verità e la trovò quando si converti dal paganesimo alla religione del Cristo-Logos.

Ad Alessandria, poi, nel vivace contesto culturale di quella città, scoprì l’ambiente più congeniale per sviluppare la propria ricerca, per cui decise di fermarsi ed è per questo che gli fu dato l’appellativo di Alessandrino.



La città alle foci del Nilo era allora la metropoli cosmopolita e intellettuale più importante del mondo antico, punto d’incontro della cultura proveniente dall’Oriente e dall’Occidente, dotata della più ricca biblioteca contenente le opere degli autori greci e romani e delle altre nazioni mediorientali e qui Clemente divenne maestro spirituale nel Didaskaleion (190-202) e qui compose le sue opere più importanti, fra le quali “Il Pedagogo”.

I Ghiottoni

Nella storia della gastronomia Clemente entra da protagonista con i due primi capitoli del Pedagogo (II, 1,2).dove descrive la figura dei ghiottoni del tempo, tutti presi dalla smania di un esasperato gusto culinario, cui segue un attento e approfondito commento con delle indicazioni per una sana e piacevole alimentazione.



Una sua pagina, conosciuta anche da Ateneo (bibliotecario ad Alessandria), l’autore de I Deipnosofisti (I ghiottoni a banchetto), è un pezzo di bravura che fa pensare a Trimalcione, il liberto arricchito immortalato nel Satyricon da Petronio Arbitro (27-66 d.C.).
Clemente biasima i ghiottoni (che oggi vengono spesso erroneamente confusi con i buongustai), i quali «si affannano a procurarsi le murene dello stretto di Messina e le anguille del Meandro e i capretti di Melo e i muggini dello Sciato e le conchiglie del Peloro e le ostriche di Abido, senza dimenticare le menole delle Lipari o le rape di Mantinea, ma nemmeno le bietole di Ascra, e ricercano pesci di Metimna e i rombi dell’Attica e i tordi di Dafne, e i fichi secchi chelidonii (...) E ancora: fanno incetta di fagiani del Fasi, di francolini dell’Egitto, di pavoni della Media. E ne mutano i sapori con salse quegli ingordi e ingozzano avidamente le leccornie che sono nutrite dalla terra e dagli abissi marini e dagli spazi immensi dell’aria, per procacciarli alla loro ingordigia. E questi avidi trafficoni sembrano rastrellare in senso vero e proprio l’universo per il loro piacere, lo “friggono in padella” facendo chiasso e passano tutto il loro tempo tra mortaio e pestello questi onnivori, attaccandosi alla legna come il fuoco. Ma anche il cibo semplice, il pane, lo rendono effeminato, vagliando bene la parte nutritiva del grano, così che quello che è alimento necessario diventi un piacere da vergognarsi» (II, 3).

Clemente è consapevole del valore del cibo per gli esseri animati, e sa che l’acquisizione del cibo rappresenta per la maggior parte degli uomini, specie ai suoi tempi, la cura principale (II, 1, 5).



Era altresì nota alle classi abbienti e a quelle colte di Alessandria, città, culturalmente raffinata, l’importanza antropologica del mangiare e, da cristiano, non condannava il banchetto, già positivamente presentato dal Vangelo in diversi episodi (Nozze di Cana, Ultima Cena, ecc.)

La modernità di Clemente

Scrive l’illustre accademico Luigi: F. Pizzolato dell’Università Cattolica di Milano in uno saggio apparso ne “L’Osservatore Romano” (31.5.15): “In due capitoli del «Pedagogo» il teologo alessandrino mette alla berlina una città opulenta antica e la smania di un esasperato lusso culinario Criticando chi si affanna a procurarsi le murene dello stretto di Messina le ostriche di Abido e le rape di Mantinea”.

Seguendo il pensiero di Clemente, anche in ordine al pensiero cristiano, Pizzolato afferma che “il cibo è sostanzialmente un mezzo non un fine, anche se la sua correlazione stretta all’esistenza e al segno della grazia lo rende, in un certo senso, partecipe del fine. Il cibo facilita l’incontro relazionale, solo se è attraversato dalla carità. E «opera di essa è la distribuzione» (II, 1, 7), perché «l’abbondanza non è fatta per goderne da soli, ma per parteciparla agli altri» (II, 1, 14). Si tratta pur sempre dell’abbondanza di un «cibo semplice e non ricercato, corrispondente a ciò che è vero» (II, 1, 2).
Riecheggiando il libro dei Proverbi (15, 17), Clemente preferisce «una porzione di verdura con amore piuttosto che un capretto con inganno» (II, 1, 15). In questa dimensione l’uomo trova non solo verità, ma anche vantaggio: «quelli che fanno uso dei nutrimenti più modesti sono più vigorosi, più sani e più valenti, come i servi lo sono dei padroni e i contadini dei proprietari» (II, 1, 5).



Clemente dà il giusto rilievo, anche finale non solo strumentale, al cibo perché sa che ci sono «cibi creati per la gioia dell’anima e del cuore» (cfr. Siracide, 31, 27-28; II, 2, 23). Egli gradisce quella, elementare, forma di ricercatezza culinaria che va sotto il nome di “varietà del cibo”, sempre, diremmo, all’interno d’una semplicità gustosa.”
Non c’è dubbio che, con ancora negli occhi la grande immagine dell’Expo di Milano con le sue proposte per garantire cibo sufficiente a tutta l’umanità,  rileggere il secondo capitolo del Pedagogo di Clemente d’Alessandria, vero maestro di vita, ci si rende conto che il patrimonio culturale lasciatoci in eredità dai grandi del passato rappresenta sempre e comunque uno strumento di civiltà, capace di aiutare gli uomini a capire, affrontare e a risolvere i problemi del proprio tempo, anche quello della fame che colpisce ancor oggi un miliardo di esseri umani.

Clemente, lo sottolineiamo, non è contro il buon mangiare, contro i banchetti festosi, limitandosi a biasimare lo sperpero, il porre il cibo come massimo dei valori della vita, senza badare che sia buono, sano, nutriente, interessando soprattutto che sia raro e costoso, come voleva Trimalcione per la sua celebre cena e, soprattutto, pensando egoisticamente solo a se stessi, ignorando coloro che ne sono privi.

La sapienza degli antichi ancora una volta può rivelarsi utile agli uomini d’oggi in un settore fondamentale per la vita, com’è appunto l’alimentazione.