giovedì 8 febbraio 2018

Le farine del nostro pane

Dal Khorasan ai grani delle multinazionali
di Giampiero Rorato

Campi di grano dell'Oasi Rachello nel Veneto Orientale
Il pane che acquistiamo ogni giorno è confezionato con farina, acqua, lievito e sale, ma non tutte le farine sono uguali, né tutte sono pure. Tutte le farine sono ottenute dalla macinazione del frumento, ma ci sono farine con aggiunte che i clienti dei forni non conoscono e, soprattutto, a coloro che acquistano il pane nei supermercati.



Il Gentil Rosso
Fino a poco dopo la metà del secolo scorso, quando c’era ancora la civiltà contadina, poi sostituita dalla civiltà industriale, il pane veniva confezionato con la farina di frumento tradizionale italiano prodotto nelle nostre campagne, ottenuta macinando il frumento nei mulini di paese.



Poi, a cominciare dagli anni ’60 del secolo scorso, poco più di mezzo secolo fa, i piccoli mulini di paese sono andati velocemente scomparendo quasi tutti, lasciando il posto a grandi e moderne aziende molitorie. Molte campagne furono da allora coltivate da salariati agricoli, molti ex mezzadri divennero operai e i giovani preferirono la fabbrica ai campi. Con la rivoluzione che investì il mondo agricolo con la fine della mezzadria la produzione italiana di frumento scese velocemente fin sotto la soglia del 50 per cento del fabbisogno interno.

Le farine non sono tutte uguali


E, da allora, arrivano sempre più numerose le navi cariche di grano dall’America del Nord (USA e Canada), dall’Est (soprattutto Russia, ma anche da più lontano, come dall’Australia), mentre lunghi treni merci portano in Italia enormi quantità di grano da Ucraina, Bielorussia, Ungheria,  ecc.

Non tutte le farine sono uguali. Ce ne sono di ottime, come quelle ottenute da grani antichi e quelle ottenute dai frumenti incrociati nella prima metà del ‘900 da Nazareno Strampelli; ce ne sono di deboli e per renderle adatte alla panificazione si mescolano con farine forti o si aggiungono dei prodotti chimici. Come dire che è difficile sapere con quali farine è confezionato il pane che mangiamo.

Attualmente ci sono dei forni che espongono il nome del mulino dove acquistano la farina (ce ne sono di ottime, come ha scritto nei mesi scorsi su queste pagine la dott.ssa Paola Valdinoci, citando le farine Varvello) e i forni artigiani hanno iniziato a indicare ai propri clienti l’intera filiera del loro pane, dall’origine del grano al pane che vendono: varietà del grano, luogo di coltivazione, luogo di macinazione, purezza della farina, luogo del laboratorio e ingredienti usati per confezionare il pane.


Il Khorasan



Il grano Khorasan
In questo mese desidero soffermarmi su uno dei grani più antichi, ancora poco noto, seppur molto presente (anche se, come vedremo più avanti, conosciuto con il nome di un marchio nordamericano). Si tratta del grano Khorasan (prodotto in Puglia e aree vicine), cui si aggiungono, tra i grani più antichi, il Timilia o Tumminia (in Sicilia), il Saragolla, molto simile al Khorasan (tra Lucania, Sannio e Abruzzo), il Verna, il Rieti, il Gentil Rosso, molto diffuso un po’ ovunque prima del rinnovamento portato da Nazareno Strampelli e diversi altri ancora, ma di produzione molto limitata e locale.

Il grano Khorasan (Triticum turgidum, spp turanicum) è considerato uno dei veri gioielli all’interno della grande famiglia del frumento. È un grano rustico, con un fusto alto sui 180 cm, una spiga lunga anche 13-15 cm, un chicco vitreo e lungo circa 1/3 in più rispetto a quello dei moderni grani duri. La maggior parte dei sali minerali contenuti nel grano Khorasan come selenio, potassio, fosforo, magnesio, ferro, calcio, risultano in valore superiori a quelli dei grani moderni, soprattutto ai grani da semina prodotti dalle multinazionali.

Ma da dove deriva il Khorasan? Quanta strada ha percorso prima di giungere in Italia?
C’è un’antica regione nel cuore dell’Asia denominata Khwarezm, corrispondente un tempo all’alkhanato di Khiwa.

Siamo in Uzbekistan, già ex sovietica e ora repubblica indipendente, dove ci sono, oltre alla capitale Tashkent, le straordinarie città storiche di Samarcanda e Bukhara. Il Khwarezm è una regione geostorica compresa tra il lago Bajkal e l’area nordorientale della Persia; i cui capoluoghi tradizionali sono le città di Herat e di Mashad e questa regione è conosciuta anche con i nomi di Khorasan o Khorassan.

Il nome scientifico del grano Khorasan ha come sottospecie l’indicazione “turanicum”, nome che deriva da un’area ben precisa: l’altopiano turanico, che prende il nome da  Tūrān, estesa regione dell’Asia compresa tra l’altopiano iranico, il mar Caspio e la steppa dei Kirghisi.: Nell’accezione etnolinguistica invalsa nel sec. 19°, è sinonimo di uralo-altaico, con particolare riferimento ai popoli turchi e mongoli dell’Asia centrale e alle loro lingue, ma anche ad altri popoli (Sciti, Unni, Avari, Finni, Magiari, ecc.).


I contadini pugliesi
 
Saragolla
Ci basta questo per sapere il luogo d’origine del frumento Khorasan, portato probabilmente in Italia dalle legioni romane circa duemila anni orsono. Roma, infatti, aveva l’abitudine di portare a casa tutto ciò che di buono trovava nelle terre conquistate e diffondere nelle stesse i propri prodotti.

A conservare nel corso dei secoli questo antico grano sono stati in Italia i contadini della Puglia (attenzione: nel web si tende a confondere tra Khorasan italiano e Khorasan nordamericano) e  oggi è utilizzato da un certo numero di panettieri artigiani e il pane confezionato con questa farina è molto gradito dai consumatori. Accanto al Khorasan italiano ce n’è anche uno coltivato da alcuni decenni nel Nord America e immesso sul mercato col marchio Kamut. 

Ormai è risaputo che non esiste un frumento Kamut e chi scrive “Oggi pane Kamut” scrive una stupidaggine. La parola Kamut, come detto, è il marchio di una grande e seria azienda americana che produce anch’essa il Khorasan che, naturalmente, è molto buono anche se più costoso del Khorasan italiano.



E con questa farina straordinaria, oltre al pane, si producono un’ottima pasta, buonissime pizze e dolci molto interessanti. Ecco dunque un frumento che merita d’essere maggiormente prodotto anche in Italia, a vantaggio sì dei consumatori, ma dell’intera economia agraria del nostro Paese.