lunedì 10 marzo 2008

TRADIZIONE E SVILUPPO FUTURO DELLE COLTURE LOCALI

Ecco il mio intervento al convegno
TRADIZIONE E SVILUPPO FUTURO DELLE COLTURE LOCALI
Castello Ciani Bassetti di Roncade
sabato 8 marzo 2008


Nella cultura alimentare dell’Occidente, secondo la testimonianza scritta più antica, dapprima compare il pane, cibo primario per gli esseri umani: “Ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (Gen. 3,19), poi, con Noè, arriva anche il vino. L’antico patriarca, superstite dal diluvio universale, sceso dall’arca piantò una vigna, fece del vino e si ubriacò (Gen. 9, 20-21).
Il pane rappresenta per gli uomini la necessità, il vino, la non-necessità, la gratuità. Come ha scritto Enzo Bianchi “Il pane serve per vivere, il vino per celebrare il vivere. Il vino è l’eccedenza sul bisogno, è la gioia e il canto che entra in un pasto e, come recita il salmo, “il vino rallegra il cuore dell’uomo” (114-15) (Luoghi dell’Infinito, marzo 2008).

Dai primordi della nostra storia occidentale, come ci ricorda molte volte la Bibbia, il vino è nostro compagno di vita e le attuali produzioni, che caratterizzano la nostra zona, e Roncade è una delle capitali del vino trevigiano, sono in stretta continuità con l’antica storia. All’epoca delle grandi emigrazioni del XIII secolo a.C., qui arrivarono da Troia in fiamme i Veneti primi, fondarono, fra le altre città, Ob-terg (la futura Opitergium) e Altinum, allevarono cavalli e piantarono viti, le progenitrici del nostro Raboso.
Oltre mille anni dopo giunsero i Romani, trovarono quelle viti e quel vino, il “Picina omnium nigerrima” e continuarono a produrlo, piantando altri vitigni portati dai legionari contadini inviati a centuriare questi nostri territori. E dopo altri due millenni noi siamo qui a ricordare una storia che ha visto nascere e morire imperi, regni e repubbliche, passare orde barbariche ed eserciti bellicosi, ma la vite e il vino sono rimasti.
Quello stesso vino che ha trovato in Salomone il massimo cantore, come si legge nel Cantico dei Cantici, lì dove l’amante esclama: “Come sono belle le tue carezze, - mia sorella, mia sposa, - quanto migliori del vino le tue carezze”(Can. 4,10). Salomone non sapeva che cosa scegliere per poter paragonare le dolcissime carezze di lei e non trovò di meglio che paragonarle al vino, la bevanda a lui più gradita, la bevanda che rallegra il cuore.
Del suo valore economico dicono altri, resta vero che il vino è il cordone ombelicale che lega tutta la storia della civiltà occidentale, se anche il greco Alceo di Micene, seicento anni prima di Cristo, invita a piantare un albero, un albero solo: la vite.
E noi abbiamo la vite e abbiamo il vino, li abbiamo in abbondanza, anche qui a Roncade, siamo dunque eredi di quei valori che hanno plasmato la vita dell’Occidente e abbiamo qual vino che fece esclamare al sommo poeta: lo dolce ber che mai n’avrìa sazio (Purg. XXXIII, 138).

Sempre dalla preistoria ci giunge un altro dono della natura e dell’intelligenza dell’uomo: il formaggio. Pensiamo, come ci ricorda il Leopardi, alle greggi che millenni or sono pascolavano nelle immense distese dell’Asia, ancor prima che diecimila anni fa un gruppo di quegli uomini si fermasse lungo le sponde del fiume Giordano, nel cuore della Mezzaluna fertile, costruisse una città e iniziasse a seminare cereali, dando avvio all’agricoltura. Prima di Gerico, dunque, i pastori che erano in continuo movimento per le immense pianure, impararono a trasformare il latte di pecora e capra in preziosi formaggi, fonte di cibo per l’intera tribù. Assieme al pane, al vino e alla birra, il formaggio è una delle colonne alimentari che ha accompagnato gli uomini da quando hanno imparato ad addomesticare gli animali, dunque da sempre. Il formaggio lo abbiamo ancora, lo produciamo nei nostri paesi, anche qui a Roncade, migliore assai di quello del passato, grazie a tecniche nuove e alla accresciuta cultura dei casari. E se il formaggio che noi oggi produciamo è quello vaccino, dobbiamo ringraziare i famosi legionari romani che hanno realizzato le centuriazioni ancor oggi in molte parti ben visibili e, quindi, hanno introdotto i bovini per lavorare la terra. Da allora, da oltre duemila anni, il formaggio vaccino continua ad essere nostro cibo, gradito e goduto.
In questi ultimi decenni abbiamo dato dei nomi più precisi che in passato ai nostri formaggi, stilando anche dei severi disciplinari di produzione, dalla tenera Casatella al Montasio stagionato. In questa nostra provincia, pur essendo scomparse molte latterie di paese, sorte dall’iniziativa cattolica di fine Ottocento, ci sono ancora ottime realtà, alcune molto importanti, che producono formaggi interessanti, sempre più presenti sulle mense di casa e anche nell’alta ristorazione, nel Veneto e fuori. C’è, oggi, una forte riscoperta, una riappropriazione del formaggio, con possibilità di scegliere la tipologia più gradita. E se anche i fanciulli e i giovani che vanno a scuola potessero godere di panini farciti coi nostri formaggi quanto meglio mangerebbero! Ma devono conoscerli e se li conoscono, ne sono certo, rifiuterebbero di cedere alle lusinghe della pubblicità televisiva, per godere il pane dei nostri forni e i formaggi delle nostre ottime aziende casearie.

Ma anche in casa, perché, nel Veneto, c’è una storica abbinata, quasi emblema della nostra tradizione alimentare, polenta e formajo, e la tradizione veneziana e trevigiana di pianura vogliono, non solo per accompagnare il formaggio, la polenta bianca, raffinata e vellutata, che da alcuni anni ha riconquistato spazio sia nelle case che in trattorie e ristoranti. La cucina di pesce, caratteristica non solo delle nostre aree a ridosso della gronda lagunare, esige polenta bianca, più delicata e meno ruspante di quella gialla e, grazie a una più attenta considerazione dei vecchi prodotti delle nostre campagne, ad una accresciuta cultura gastronomica e a una nuova attenzione per la tavola, al mais Biancoperla si sono aperte nuove strade, anche nell’alta ristorazione. Il Biancoperla è un mais qui coltivato prima dell’irruzione degli ibridi americani, è un mais che risale all’origine, al suo arrivo nel Veneto nei primi decenni del ‘500, e credo che la sua prima coltivazione estensiva sia avvenuta proprio nel trevigiano, in quelle terre che il nobiluomo veneziano Lunardo Emo acquistò poco dopo il 1530 a Fanzolo di Vedelago e credo che proprio lì sia nata la polenta.
Collegata, negli anni del dopoguerra, al mondo contadino e alla mezzadria, ancora con antichi ricordi di pellagra, la polenta venne quasi trascurata, ma oggi, grazie alla voglia di identità e a un crescente desiderio di riappropriazione della storia e delle tradizioni, la polenta bianca è tornata decisamente in auge e qui a Roncade si è ripreso da tempo a coltivare il mais Biancoperla, che merita ulteriore valorizzazione per tipicizzare ancor meglio la nostra stupenda cucina sia di carne che di pesce.

Senza riandare ai piatti della tradizione, mi piace qui sottolineare come dopo anni di impegno speso per la valorizzazione e promozione del radicchio rosso di Treviso e del variegato di Castelfranco, da un po’ di tempo, anche per la tenacia del Comune di Roncade e di un certo numero di innamorati, si stia guardando con crescente interesse al radicchio verdon, sul quale si è appena soffermato il professor Sambo. È, ancor prima del raffinato radicchio rosso e dell’elegante variegato, simbolo vero delle nostre campagne e di quell’alimentazione che, per secoli, ha accompagnato la nostra gente.
Riprendere e rilanciare al meglio questo radicchio e riproporlo non solo come sano e prezioso alimento, ma come espressione di alta e moderna gastronomia, in linea con i dettami della dieta mediterranea, significa offrire al mercato un prodotto coltivato secondo regole serie e severe, rispettose della natura, attente alla salute dei consumatori, ben diversamente da quanto avviene con i prodotti d’importazione, dei quali non sappiamo come siano stati coltivati e conservati. E con questo nostro radicchio si possono realizzare piatti di grande eccellenza, degni della storia gastronomica di questa nostra terra.

Desidero concludere questo mio breve intervento, ricordando come gran parte dei prodotti che sono alla base del nostro cibo quotidiano non siano autoctoni, poiché arrivati quasi tutti da fuori, anche da molto lontano; sono, di fatto, frutto della globalizzazione permanente.
Già abbiamo visto il vino, ma possiamo aggiungere gran parte degli ortaggi, arrivati dal vicino Oriente e dalle lontane Americhe - asparagi, carciofi, pomodori, zucchine, peperoni, patate - il mais arriva dalle Americhe, il riso dall’Asia, il baccalà da oltre il Circolo Polare Artico, le spezie da isole lontane e misteriose. Come sarebbe il nostro cibo attuale senza questi prodotti?
Merito dei Veneti è stato quello di aver saputo assorbire lentamente, in modo autonomo, secondo il proprio stile e i propri gusti, i prodotti arrivati da fuori, trasformandoli in piatti nuovi, diversissimi da quelli dei paesi d’origine dei prodotti stessi: si pensi al baccalà mantecato che è veneziano e solo veneziano.
E con lo stesso spirito continuiamo ad accogliere prodotti nuovi, anzi, animali e prodotti nuovi e così come abbiamo accolto i bovini dei Romani nel II secolo prima di Cristo, così da poco abbiamo accolto il bufalo, che ha trovato qui a Roncade un habitat ideale e quindi accanto ai formaggi vaccini, ormai appartenenti alla nostra tradizione, abbiamo anche la mozzarella di bufala, che non porterà il marchio Dop di quella campana, ma nella sostanza non è in nulla diversa da quella.
Se guardiamo oggi nelle nostre campagne vediamo che abbiamo prodotti di qualità, capaci di impreziosire le nostre tavole imbandite e poiché una crescente educazione alimentare ci porta a scegliere prodotti di qualità, quelli che noi abbiamo, il vino, il mais biancoperla, i formaggi, il radicchio verdon hanno davanti a sé un futuro sicuramente positivo, se noi ci crediamo davvero, se sappiamo produrli sempre meglio e promuoverli con giusto marketing.