lunedì 6 luglio 2009

Attualità del messaggio di Gianni Cosetti


intervento di Giampiero Rorato
al Convegno in onore di Gianni Cosetti
Tolmezzo, Museo Carnico, 5 luglio 2009
nella foto


Per capire se Gianni Cosetti ha qualcosa da dire e da insegnare ai cuochi d’oggi, soprattutto ai giovani, a coloro che frequentano le scuole alberghiere e, naturalmente, ai loro docenti, ma anche a chi opera da anni con successo nella ristorazione, credo sia utile compiere una riflessione su quanto stava avvenendo in Europa negli anni in cui Cosetti iniziava la sua avventura al Roma di Tolmezzo.


Mi riferisco all’inizio degli anni Settanta e precisamente al 1973, quando i giornalisti enogastronomi francesi Henri Gault e Christian Millau fecero conoscere al mondo, attraverso la loro rivista, i cambiamenti in atto nell’alta ristorazione francese, suscitando in Francia un animato dibattito fra cuochi e gastronomi, poiché, con quei cambiamenti non superficiali, veniva messa in discussione la “grande cucina francese”, quella codificata da Auguste Escoffier ne La guide culinarie del 1903.


Escoffier (1846-1935), definito ancora in vita “re dei cuochi e cuoco dei re”, aveva dettato le linee, le ricette e financo i menu d’una cucina elitaria, subito entrata nei ristoranti dei grandi alberghi, in Francia e all’estero, e fatta conoscere in Italia anche dal grande riformatore dell’hotelerie, Cesare Ritz (1850-1918), chiamato a indicare i criteri di alta ospitalità e a dare un volto moderno ad alcuni alberghi italiani, come il Grand Hotel di Roma, il Villa Igea di Palermo, il Grand Hotel delle Terme di Salsomaggiore, cui subito guardarono numerosi altri alberghi del tempo.


La cucina di Escoffier, anche dopo l’ultimo conflitto mondiale e fino agli anni ‘70 del secolo scorso, era seguita e attuata con estrema diligenza, molto spesso con pignoleria, nei grandi ristoranti d’Europa, fra i quali vanno inclusi quelli dei grandi alberghi della Ciga a Venezia, sorti o ristrutturati negli anni della Belle Époque, così come era presente a Grado, a Trieste, a Cortina d’Ampezzo e penso che l’ultimo cuoco degno d’essere considerato allievo fedele di Escoffier, sia stato il friulano Fernando Alzetta, uno degli ultimi grandi cuochi che hanno operato nei più importanti alberghi di Venezia.


Il cambiamento della cucina francese, avvenuto tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, definito dai due giornalisti col nome di “Nouvelle Cuisine”, era iniziato a Lione nel ristorante di Paul Bocuse, a Roanne da Michel Troisgros, a Parigi da Alain Senderens, a Crissier, in Svizzera, da Fredy Girardet (titolare e chef dell’Hotel de Ville) e da qualche altro loro collega e non fu solo un atto liberatorio dalle imposizioni di quel mostro sacro che era ancora Escoffier, ma la rivendicazione di un nuovo modo, più naturale e attuale di fare cucina, più rispondenti ai bisogni alimentari e più capace di meglio soddisfare i gourmet.


L’impiego in cucina di prodotti freschi di mercato; la riduzione degli ingredienti; le cotture corrette, assai più corte di quelle insegnate da Escoffier; la presentazione accurata, esteticamente bella, tale da soddisfare pienamente anche la vista; l’abolizione dei fondi di cottura; l’apparente grande semplicità dell’esecuzione caratterizzarono la nuova cucina che trovò subito in Gualtiero Marchesi, rimasto sei mesi, nel 1976, dai Fratelli Troisgros, colui che l’ha portata in Italia, adattandola alle esigenze e ai gusti della clientela italiana.


E quando nel 1977 Marchesi aprì in via Bonvesin de la Riva, a Milano, il suo ristorante, pur partendo dall’esperienza francese, ancora visibile oggi a Erbusco nei piatti storici presenti in carta, i celebri piatti “marchesiani”, pian piano si staccò da quelle esperienze per ricostruire in forme moderne i piatti tradizionali della cucina italiana che divennero punti fermi cui si ispirarono molti suoi allievi, oggi chef importanti e titolari anche di alta considerazione dagli esperti gastronomici.


Nei medesimi anni Settanta un altro grande chef italiano, Angelo Paracucchi (1929-2004), purtroppo dimenticato da molti, fu per suo conto e indipendentemente da quanto avveniva in Francia o al Gualtiero Marchesi di Milano, un grande innovatore della cucina italiana, lasciando la sua eredità a tanti giovani cuochi che hanno portato nella ristorazione del nostro Paese e anche all’estero il suo alto insegnamento.


Paracucchi aveva alle spalle una solida formazione professionale acquisita nei ristoranti di grandi alberghi internazionali e soprattutto a Londra e seppe unire questa esperienza a una straordinaria genialità.


Il suo contributo al rinnovamento della cucina italiana può essere così sintetizzato: studiò e valorizzo al meglio il vasto patrimonio dei prodotti italiani, dalle erbe spontanee di campo agli ortaggi, dalle carni degli animali di cortile, a quelle ovine e bovine, dal pesce di mare a quello d’acqua dolce, dai tanti ottimi formaggi di casa nostra, all’olio extravergine italiano, ai vini sapientemente abbinati ai piatti.


Alcuni decenni prima che spuntasse il progetto del Chilometro Zero, lanciato qualche anno fa dalla Coldiretti, egli insegnò ad attingere ai prodotti vicino a casa, a rispettare i ritmi produttivi delle stagioni, a confezionare piatti semplici, leggeri, gustosi e belli, come si vede nel volume da lui pubblicato nel 1986 e intitolato “Cucina creativa all’italiana”, dove la creatività consisteva in una geniale interpretazione dei piatti tradizionali, anche di quelli contadini, degni anche questi, se ben interpretati, di entrare nella ristorazione più ambiziosa ed esigente.


La cucina di Paracucchi, che lui realizzava nella sua Locanda dell’Angelo ad Amelia, vicino a La Spezia, si impose subito all’attenzione di critici ed esperti e di molti cuochi e ristoratori italiani e fu invitato a insegnare nelle più prestigiose scuole alberghiere del mondo, dall’America al Giappone. E fu chiamato a inaugurare e a dettare le linee del ristorante Carpaccio di Parigi, primo ristorante italiano a prendere, qualche anno fa, a Parigi, la stella Michelin, con il giovane cuoco veneto Davide Bisetto. E ho avuto l’onore di presenziare all’inaugurazione del Carpaccio e l’ho pure visitato altre volte e anche appena conquistò il prestigioso riconoscimento della Michelin.


Perché questa lunga premessa?
Perché negli stessi anni, a partire dal 1969, quando aveva trent’anni, Gianni Cosetti, dopo quattro anni nella Trattoria Cooperativa”, nel centro storico di Tolmezzo, inizia un’avventura tutta sua, nel “Roma” e portando in pochi anni questo “suo” ristorante a una fama che trascese i onfini nazionali.


E nel suo Roma Cosetti resta trent’anni giusti, dopo aver gestito per quattro anni quella che era la Trattoria “Cooperativa”.
Ciò che Gianni Cosetti andava realizzando, ha richiamato a Tolmezzo i più importanti nomi del giornalismo enogastronomico, intellettuali, gourmet e buongustai sia italiani che stranieri, che arrivavano al Roma per gustare e godere le sue creazioni, originali, certo, ma sempre fortemente radicate ai valori del territorio.


Cosetti stupisce anche gli esperti più smaliziati ed esigenti, lascia un forte segno nella ristorazione italiana del tempo, proseguendo per trent’anni in una intelligente ricerca e rivalutazione dei prodotti della Carnia, trasformati in piatti rimasti espressione di genialità davvero unica.
Senza entrare nei dettagli della sua cucina, dandola quindi per nota, credo si possano fare delle meditate considerazioni sulla sua eredità, vedere qual è stato e qual è il suo insegnamento, se questo insegnamento è ancora valido e attuale, se merita approfondire ulteriormente il suo lavoro di ricercatore e di cuoco, se la sua opera può essere indicata ai giovani delle scuole alberghiere, ai cuochi di oggi e di domani, qui e altrove, quale proposta sapiente, ancora valida e attuale, cui ispirarsi.


Non ho citato prima a caso la Nouvelle Cuisine e gli chef che l’hanno creata, non ho citato Angelo Paracucchi e Gualtiero Marchesi per fare paragoni, ma se questi ultimi due grandi chef hanno contribuito in modo determinante al rinnovamento della cucina italiana e se le loro indicazioni restano pienamente valide anche oggi, lo stesso può dirsi di Gianni Cosetti, anche se, salvo qualche eccezione, non ha trovato chi, fuori dei confini regionali, a livello nazionale ed europeo, sapesse comprendere appieno e far conoscere il suo valore e la sua attualità, non inferiore, sotto questi aspetti, a quella di Marchesi e di Paracucchi.


La Carnia, si sa, è fuori dai grandi traffici, come pure, spesso ingiustificatamente, dalla curiosità e dall’interesse dei media anche per eventi culturali straordinari, come quello che da alcuni anni si tiene in un minuscolo e caratteristico borgo di questa città, Illeggio, e se, anche per questo, per questa sua posizione solitaria, la Carnia ha potuto conservare sufficientemente integro il suo patrimonio di tradizioni e di valori alimentari e gastronomici, le importanti esperienze maturate in questa regione, come appunto quella di Gianni Cosetti, non hanno trovato la dovuta attenzione.
In Friuli Venezia Giulia gli estimatori di Cosetti ci sono stati e ci sono, come ci sono stati e ci sono cuochi che, avendone compreso la sua sapienza operativa, la modernità e l’alta qualità dei suoi piatti, continuano a rendere concreto nelle loro cucine il suo insegnamento.
In verità, va anche detto che la cucina e le tradizioni gastronomiche carniche, così ricche di espressioni e di proposte, diverse da valle a valle, non avevano trovato in passato chi le codificasse e fissasse in documenti scritti, per garantire alle generazioni che si susseguivano, di conoscerle e goderle nella loro originalità. Si tratta di un patrimonio tramandato nelle case e trasmesso oralmente da madre a figlia e da suocera a nuora – una catena oggi sempre più labile - e credo sia stato il carnico Pietro Adami il primo, nel 1985, a pubblicare un ricettario ragionato della cucina carnica, girando di casa in casa, intervistando, mangiando, scovando e spulciando vecchi documenti, scrivendo, dopo adeguati confronti, quanto gli veniva raccontato.
E se confrontiamo quel primo volume di Adami, ritornato oggi in libreria totalmente rivisto e notevolmente arricchito e leggiamo con attenzione “Vecchia e nuova cucina di Carnia” che Gianni Cosetti ha pubblicato nel 1996 per le edizioni delle Arti Grafiche Friulane, scopriamo che la base della cucina di Cosetti la si ritrova anche nel lavoro di Adami, nei prodotti da lui raccontati, nei piatti che ha riportato, nei documenti e nelle tradizioni che ha messo in luce.
Quella di Gianni Cosetti, come l’abbiamo gustata e goduta al Roma fino agli anni ’90, e come la leggiamo nel suo volume, è dunque vera cucina di Carnia; quindi cucina del territorio, capace di esprimerne appieno i valori, la storia, la cultura, le tradizioni che sono maturate nel corso del tempo. Quella di Cosetti è cucina naturale e non solo perché attinge ai prodotti della Carnia e segue l’andamento stagionale, ma perché è cucina di materia prima seria, sana, priva di additivi estranei, priva di apporti chimici; quindi cucina pulita, di alta e sicura qualità, realizzata con buon senso e intelligenza.
È una cucina capace di regalare emozioni vere, per la intelligente composizione e la bellezza estetica dei piatti; per il loro alto equilibrio; per l’armonia di sapori, netti e precisi; per la sua leggerezza; per il piacere che offre; perché è una cucina che si fa ricordare; una cucina che ha creato tanta nostalgia.
Se questa è la cucina del grande Gianni Cosetti, ed è veramente questa, perché la grande stampa gastronomica, dopo essersi seduta alla sua tavola, dopo averlo esaltato, l’ha pressoché dimenticato?
Forse la sua, e questo mio dubbio non riesce a sciogliersi, è la sorte che è toccata alla Carnia stessa, sconosciuta a molti, a moltissimi, anche fra quanti seguono le vicende gastronomiche?
Infine, per capire il suo messaggio, è doveroso uno sguardo, pur fuggevole, al volume lasciatoci da Gianni Cosetti. In esso egli suddivide le ricette che riporta in tre tipologie: le “tipiche originali”, le “tipiche rinnovate” e le “ricette del Roma”.
E se prendiamo quelle che Cosetti definisce “tipiche originali”, troviamo delle indicazioni per realizzarle con eleganza, sì che anche l’antico piatto carnico diventa con lui espressione di alta cucina.
E già qui c’è un insegnamento pienamente attuale: non si trascuri, sembra dirci, la tradizione che è, per dirla con Davide Paolini, un “giacimento gastronomico” di grande valore culturale, capace di superare il variare dei tempi e delle mode; un patrimonio che nobilita una cucina e dal quale il cuoco e il ristoratore intelligente non può prescindere, ovunque egli si trovi ad operare. Anche se, come Cosetti insegna, il piatto tradizionale va preparato con grande cura, come si prepara un grande piatto creativo. E non fa esattamente così Nadia Santini a Canneto sull’Oglio?


Un altro insegnamento di Cosetti lo si ritrova nelle ricette “tipiche rinnovate”. In queste i prodotti di base sono quelli della tradizione, gli stessi che usavano le nonne e le bisnonne carniche, quindi i prodotti del territorio, solo che la realizzazione del piatto avviene con criteri nuovi, attentamente studiati, al fine di ottenere piatti meglio realizzati, più in linea con le esigenze nutritive dei tempi nuovi. Anche in questo caso Cosetti insegna ad attingere alla tradizione, ma a non fossilizzarsi in essa. La professionalità e la cultura del cuoco deve sempre saper portare quegli aggiustamenti e miglioramenti richiesti dalle esigenze nutritive ed estetiche che vanno mutando col passare degli anni.


Infine, due parole sulle “ricette del Roma”, le sue ricette.
Il percorso didattico indicato da Cosetti nel suo volume, è il medesimo ripetuto dai grandi chef: il cuoco deve partire dalla cucina del territorio, impossessarsene, conoscere i prodotti e le loro caratteristiche, sapere il legame venutosi a creare nel corso del tempo fra piatti ed eventi, fra piatti e festività, fra piatti e stagionalità, fra piatti e civiltà del territorio. Una volta che sa tutto questo, una volta cioè che conosce i prodotti, le cotture e i piatti della tradizione, e li sa realizzare con professionalità, può passare al secondo livello, che è quello di aggiornare quei piatti, cercando innanzi tutto prodotti esclusivamente seri e di qualità, quindi ricorrere alle cotture più adatte, anche a quelle, naturalmente, che la tradizione di casa non conosceva e magari ancora non conosce e quindi preparare dei piatti capaci di attirare immediatamente l’attenzione del commensale.


Infine, dopo anni di serio lavoro, ci insegna Gianni Cosetti, si può passare al terzo livello, quello di piatti che esprimono la capacità creativa del cuoco maturo, che devono essere di assoluta qualità da ogni punto di vista.


Se tutti noi e coloro che non hanno potuto conoscere Gianni Cosetti e la cucina del Roma, studiamo con attenzione quanto contenuto nel volume che ci ha lasciato, che è il suo testamento gastronomico, comprendiamo quanto sia attuale il suo insegnamento e quanto bene farebbero i nostri Istituti e le nostre Scuole Alberghiere e con loro quanti già operano in cucina e non solo in Carnia, non solo in Friuli-Venezia Giulia, ad ascoltare e meditare il suo messaggio, che era e resta di grandissima e pregnante attualità.