martedì 12 gennaio 2010

Convegno su “Radicchio rosso di Treviso: prodotto gastronomico, prodotto turistico…”

Preganziol, Villa Marcello Zon, 9 gennaio 2010
Intervento di Giampiero Rorato
Oltre ottant’anni fa, nel 1928, il nobiluomo veneziano Elio Zorzi pubblicava, per i tipi di Nicola Zanichelli, il suo magistrale studio sulla gastronomia e sulle Osterie Veneziane, nel quale racconta, oltre alle storie, con tanti simpatici aneddoti, delle numerose tipiche osterie e trattorie cittadine, anche i pilastri storici e culturali della cucina veneziana. E, per ben due volte, si sofferma sul radicchio rosso di Treviso.
Una prima volte, riandando anche indietro con la memoria, per illustrare la cena della vigilia di Natale, come era nelle famiglie del patriziato e della buona borghesia cittadina, ed è una pagina di intensa e sentita poesia; poi, in un secondo passaggio, per raccontare i prodotti degli orti della terraferma veneziana, quindi anche trevigiana.
Sulla cena del 24 dicembre scrive: “Oh delizie della cena della vigilia, come cantarne degnamente i fasti? Chi saprebbe dire saporosamente la bontà dei risotti di cape, o della minestra di risi e verze, le gioie del salmone fresco, le piccanti voluttà dei bovoli col vin bianco, la grassa morbidezza del bisato allesso, arrosto ed in umido, la delicatezza dei maestosi brancini e delle sode boseghe di valle? E la crocchiante sensuale rinfrescante carezza del radicio rosso di Treviso che si scioglie fra i denti come un fiore candito?”
Cena d’altri tempi, si dirà, ma vera cena veneziana tradizionale della vigilia di Natale, nella quale il radicchio rosso di Treviso troneggia principesco fin dall’inizio del secolo scorso, a concludere i piatti di pesce, prima del dessert, in cui comparivano la “piccante dolcezza della mostarda, e le attaccaticcie squisitezze dei mandorlati, e la spuma delicata della panna montata con i relativi storti, e con i maroni rosti, o con balote, cioè le castagne allesse con le foglie d’alloro.”
Scrivendo poi dei prodotti degli orti, illustra la tecnica di coltivazione del radicchio rosso di Treviso, ottenendosi, alla fine del ciclo, una “fresca pianticella candida alla base, rossa nel fogliame tenero, delicatissima, croccante, squisita..
E continua scrivendo, quasi declamando:
Se lo guardo, egli è un sorriso
Se lo mangio, è un paradiso
Il radicchio di Treviso.
Dopo aver riportato i versi pubblicati qualche anno prima in uno studio sul radicchio di Treviso di Aldo Van den Borre, figlio di Francesco, il creatore, nella seconda metà dell’800, del moderno radicchio rosso di Treviso tardivo, Elio Zorzi aggiunge: “In verità il radicchio di Treviso è un fiore commestibile: quando viene portato in tavola senz’essere prima condito sembra, nella casalinga insalatiera, un mazzo d’orchidee in una preziosa coppa di porcellana: per gustarne meglio il delicato sapore, è consigliabile di astenersi dal condirlo con l’olio e l’aceto e di portarlo alla bocca così com’è, in tutta la sua freschezza, dopo averlo, tutt’al più, cosparso d’un po’ di sale.”
Ed Elio Zorzi così conclude: “E forse il fiore di loto della mitica Libia, il sapore del quale era così delizioso da far dimenticare la patria agli stranieri, non era che un lontano progenitore classico del radicchio di Treviso…”.
Come ha scritto quasi cinquant’anni or sono Giuseppe Maffioli, il fiore che si mangia non è più ormai, da tempo, soltanto un ortaggio, essendo stato elevato a simbolo del vivere trevigiano. Infatti, con quella sua linea gotica così slanciata “sembra quasi sintetizzare l’antica anima veneta, dalle ancestrali osservanze religiose, dal profondo rigore morale, dalle speranze rivolte ai cieli, sino alla delicata contemplazione della natura ed al gusto di aderirvi serenamente, con una semplicità assoluta che diviene raffinato uso delle gioie che essa propone saggiamente ed onestamente ai sensi. Esso punta verso l’alto, ma, per farlo, si nutre dei succhi più profondi e completi della terra.”
Questa premessa serve a capire l’alto valore qualitativo, gastronomico e simbolico, di questo nobile ortaggio, per cui, parlando di gastronomia del radicchio rosso di Treviso, parliamo di un patrimonio preziosissimo della nostra terra e credo si debba allora partire proprio dai ricordi di Elio Zorzi.
Non c’è dubbio alcuno che il nostro fiore che si mangia, vanto ammirato e invidiato dell’arte orticola dei trevigiani, si gode appieno quando è servito crudo, nei suoi bei colori bianco e rosso, delicato, croccante, squisito. Ottimo anche se, trasgredendo il consiglio di Zorzi, lo si condisce con un filo di buon olio extravergine, un goccio leggero d’aceto e una spruzzatina di sale.
Negli ultimi anni, a seguito anche di decine e decine di esperimenti compiuti da cuochi trevigiani, ma anche veneziani e padovani, sono stati realizzati molti accostamenti e il nostro radicchio è stato inserito in numerosissimi piatti, addirittura nei dolci e nel gelato, ma più volte ciò è avvenuto, purtroppo, ereticamente.
Un felice impiego gastronomico del radicchio, ampiamente collaudato con esiti assolutamente positivi, è nel risotto. Questa nostra terra, per volere della Serenissima, è, fin dai primi decenni del Cinquecento, la vera patria della cucina del riso, preparato sia in brodo che asciutto e la nostra cucina ha trovato nel risotto col radicchio di Treviso un leccornia assolutamente fantastica.
Purché non ci siano commistioni, perché il riso è per sua natura monogamo e il radicchio è di tale aristocratica delicatezza e unicità di gusto e di sapore che perderebbe molta della sua nobiltà se fosse confuso con altri ingredienti, come purtroppo avviene quando, per fare un esempio ben noto, lo si vuole, magari inconsapevolmente, soffocare coprendone il raffinato sapore con la salsiccia. Il risotto con la salsiccia o con la luganega è un piatto a sé, con una sua lunga e gloriosa storia che ha titolo per continuare a vivere come l’abbiamo ereditato; aggiungervi il radicchio si confondono gusti e sapori, deprezzando entrambi gli ingredienti.
L’esperienza ha dimostrato che, fin da quando è nato nel 1959 il glorioso Festival della Cucina Trevigiana, inizio di tutte le manifestazioni gastronomiche ancora in vita, nel trevigiano e altrove, festival voluto da Dino De Poli con la regia gastronomica di Beppo Maffioli, il radicchio rosso di Treviso ha iniziato a esaltare tutta una serie di piatti, purché non si ceda alla fantasiosità dei mediocri, che non sono, purtroppo, mai mancati in cucina.
Già allora erano in auge, e Maffioli ne riportò convintamente le ricette nel suo volume sulla cucina trevigiana, i fagottini di radicchio rosso di Treviso avvolti da una fettina di prosciutto o di pancetta, a volte anche gratinati al forno; il radicchio rosso passato alla pastella e fritto; il radicchio rosso, naturalmente ci riferiamo sempre al nostro radicchio rosso tardivo, passato all’uovo battuto e al pangrattato, quindi dorato in olio bollente; il radicchio brasato, servito ancora caldo; il radicchio ai ferri; le crespelle al radicchio rosso di Treviso; il pasticcio di radicchio rosso di Treviso; la frittata al radicchio rosso di Treviso e, naturalmente, il già ricordato risotto al radicchio rosso di Treviso. Pochi accenni ai nomi dei piatti e ce ne possono essere anche altri, e ce ne sono di eccellenti, purché chi li confeziona segua una regola fondamentale nella cucina del radicchio.
Qual è il principio, quale la regola che deve guidare chi desidera utilizzare sapientemente il radicchio rosso di Treviso in cucina, per farlo pienamente assaporare e godere?
Poiché da tempo sappiamo tutti che il radicchio rosso di Treviso è una cicoria raffinatissima e rara, solo nostra, va valorizzato al meglio, non solo per poterlo godere noi trevigiani e veneti, ma anche per farlo godere al meglio a quanti, da ogni parte del mondo, vengono a trovarci nei mesi invernali, dal momento che, come sappiamo, la gastronomia è una delle risorse principali per l’attrazione del turismo internazionale e il turismo è fondamentale per la nostra economia.
Il radicchio rosso di Treviso tardivo deve poter essere gustato quale vero stupendo e inimitabile protagonista della cucina trevigiana, quale esso veramente è, quindi, o da solo oppure, se unito ad altro ingrediente, sia esso il riso, la crespella, le uova e così via, non accetta un terzo incomodo. Se eventualmente ci fosse, il radicchio lo subirebbe e si rovinerebbe il delicato e fragile equilibrio gastronomico, abbassando la qualità e la nobiltà del piatto.
Se vogliamo dimostrare al mondo l’eccellenza della nostra cucina, come lo era nei secoli d’oro della Serenissima, occorre che la nostra ristorazione sappia operare sulla scia della migliore tradizione, con maturata professionalità e con sapiente umiltà, sapendo che da una fucina siffatta escono, solitamente, anche con il radicchio rosso di Treviso, vere opere d’autentica arte gastronomica.