lunedì 27 febbraio 2012

La vera storia del tiramisu'

Porta San Tommaso - Treviso
Vedendolo da fuori pare un antro antico, una di quelle fucine d’altri tempi all’interno della quale un qualche vecchio fabbro riscalda il ferro su braci ardenti, per poi batterlo su una pesante incudine, ottenendo quegli splendidi lavori che ornano le porte, i balconi e le mura di tante case cittadine. Lì dentro, però, come dice l’insegna in ferro battuto sopra la porta d’ingresso, non si producono inferriate artistiche o chiavistelli o cose simili, perché quella gestito da paron Mario non è l’officina d’un fabbro ma una delle più antiche osterie di Treviso, l’osteria “Al Gallo d’Oro”. Era stata aperta come locanda in pieno medioevo al piano terra d’un possente torrione, davanti al quale in quei secoli lontani passavano i contadini che arrivavano in città da porta San Tommaso e per la sua antichità quella mescita di vino è insignita del titolo di “Locale storico d’Italia”. L’osteria, chiamiamola pure così, è formata da più stanze e, oltre al vasto locale di mescita, c’è una stanza più luminosa, arredata con buon gusto, una piccola cucina e un magazzino. Fino a poco dopo la metà del Novecento al piano di sopra c’erano alcune camere per gente di passaggio, poi il padre dell’attuale proprietario ne aveva fatto la propria abitazione e ora vi abita il figlio con la moglie. Al piano terra è stata ritoccata solo una stanza, chiamata “la sala nuova”, dove entrano ogni giorno le signore che abitano nel quartiere per prendere il tè o il caffè e, d’estate una bibita fresca o il gelato. Ma a mezzogiorno e alla sera diventa una sala da pranzo per impiegati e altre persone che lavorano lì attorno. Paron Mario serve solo vini trevigiani: un ottimo Prosecco sia frizzante che spumante, un Verdiso frizzante e ancora i vini prodotti nelle terre del Piave, soprattutto Tocai, Chardonnay, Pinot bianco, Manzoni bianco e Verduzzo e un convincente Raboso, oltre a un Merlot di moderata gradazione alcolica, a un serio Cabernet, a un Marzemino passito e a un meraviglioso Torchiato di Fregona. I vini sono scelti con cura fra i migliori della provincia e anche per questo “Al Gallo d’Oro” gli avventori non mancano mai. 
Sopra il bancone in legno, un mobile ottocentesco ben conservato, ci sono, in un’apposita vetrinetta e sempre a disposizione dei clienti, una bella terrina ripiena di fagioli con fette di cipolla, mezze uova sode con l’acciughetta sottolio, cipollotti arrostiti, sardelle in saòr, nervetti e altri simili golosessi. A mezzogiorno e alla sera la moglie di Mario prepara piatti locali, semplici e gustosi: minestroni, risotti alle erbe, ai funghi o al radicchio con la luganega trevisana, paste condite con vari ragù, ottimi bolliti, umidi serviti con polenta fumante e dolci fatti in casa. Il dolce più richiesto è da anni il tiramisù, che la signora Maria dichiara essere il migliore della città, come dire il migliore del mondo. E a chi fa mostra di dubitarne paron Mario dice che essendo un dolce nato a Treviso solo i trevigiani ne conoscono la vera ricetta e nessuno lo sa confezionare come loro e quello di sua moglie è sicuramente il migliore di tutti.
Paron Mario è un omone grande e grosso, con due mustacchi alla Francesco Giuseppe e un grembiule di cuoio sempre addosso. Conosce i suoi clienti uno per uno e se entra un foresto lo inquadra all’istante e sa indovinare cosa ordinerà. Nelle ore di minor lavoro paron Mario, con i gomiti appoggiati sul banco di mescita, ama chiacchierare con qualche avventore, commentando i fatti del giorno, ma più spesso decanta i suoi vini, le zone di produzione e i vignaioli che lo servono, così come decanta la bravura di sua moglie, una cuoca che da giovane era stata a servizio a Venezia da signori molto importanti. 

A far da mangiare aveva imparato prima a casa sua, in campagna, dalle parti di Maserada, poi era diventata molto brava a Venezia dove era arrivata come serva, ma dopo poche settimane, essendosi assentato il cuoco, ne aveva preso il posto, mai più abbandonato, e faceva dei manicaretti che quei signori ricordano sicuramente ancora, se sono vivi. 
Mario è innamorato di sua moglie, l’aveva conosciuta una sera di tanti anni prima alle fiere di San Luca, quando l’aveva invitata a ballare. Si erano piaciuti subito e un anno dopo era già sua moglie. Ed era stata la sua fortuna, perché grazie alla bontà della sua cucina a mezzogiorno e alla sera i pochi tavolini della sua osteria sono sempre pieni di clienti. Maria sa preparare anche piatti raffinati, dei pasticci di colombini come piaceva alla sua signora contessa e poi arrosti di cacciagione e petti d’anatra e ancora tanti tipi di dolci, ma in osteria fa preferibilmente i piatti di casa sua, semplici, anche rustici, ma molto buoni e gli altri, quelli più elaborati, solo su ordinazione. 
Ogni tanto prepara delle crostate di mandorle e di frutta fresca, ma il tiramisù non manca mai. L’aveva imparato prima di andare a Venezia, in una vecchia trattoria di Treviso, dietro il Palazzo dei Trecento, dove lo facevano da pochi anni. Suo marito, conversando con i suoi tanti avventori, ne aveva saputo anche la storia, ma questa interessa poco ai suoi clienti, che preferiscono piuttosto fare il bis, elogiando la cuoca per la sua bravura.
Mario, tuttavia, nei momenti di pausa, ama raccontare a chi ancora non l’avesse sentita, la storia del conte di Castelfranco che negli anni della Belle Époque arrivava spesso a Treviso in una carrozza trainata da due cavalli bianchi. Come inizia il suo racconto, i pochi avventori impigriti che sorseggiano il loro bicchiere di vino alzano la testa e lo guardano. L’attenzione è catturata e Paron Mario può continuare nel suo racconto, sicuro d’essere ascoltato. “Quel conte, dice, era un personaggio stravagante, sempre molto elegante, con una grossa catena d’oro che gli attraversava il panciotto e a cui era appeso un orologione d’oro e all’occhiello della giacca portava, a volte, addirittura una magnolia o il cuore di un radicchio variegato prodotto nelle campagne di Castelfranco o anche, ai morti, un crisantemo. Veniva in città per andare al Circolo dei Nobili o a Teatro e la sera rincasava sempre tardi. Appena uscito di città imboccava la statale Postumia ed era solito fermarsi presso un’osteria dove era atteso da delle donnine che sapevano farlo divertire. Un giorno il padrone di quell’osteria acquistò dei dolci milanesi, i panettoni, che in città ancora nessuno conosceva e, per quanto li decantasse, faticava a venderli. Pensò allora di tagliarli a fette, bagnarli nel caffè, farcirli con una specie di zabaglione o, a volte, per mezzogiorno, con del mascarpone, ricoprendo il tutto con del cacao amaro. Una sera l’oste offrì al conte una fetta di quella sua preparazione e al nobiluomo parve di sentirsi ringiovanire, pronto a fermarsi più a lungo del solito con le sue amichette. E si fermò così a lungo che riprese la strada di casa solo alle prime luci dell’alba. Il dolce che gli aveva offerto l’oste era davvero miracoloso, pensava, mentre i cavalli galoppavano verso Castelfranco, e lo avrebbe richiesto ogni volta che si fosse fermato in quell’osteria. E qualche giorno dopo, rientrando da Treviso, chiese all’oste il tiramisù di qualche sera prima, battezzando in tal modo un dolce che sarebbe diventato famoso in tutto il mondo.” 


“Ma è proprio così?” chiese a Paron Mario un suo cliente che l’aveva ascoltato fino in fondo. “Così si dice”, fu la risposta, anche Paron Mario sapeva bene che non era così, ma, anche questo sapeva bene, le leggende hanno un fascino superiore alla storia e, spesso, sono anche più credibili.
Un altro giorno, mentre ripeteva la stessa storia arricchita di nuovi particolari, delle signore che stavano prendendo il tè nella sala nuova, sentite alcune frasi di quel racconto chiesero alla moglie di Paron Mario quale fosse la vera storia di quel dolce che non si sapeva bene se era trevigiano o veneziano o addirittura americano, come aveva scritto una rivista specializzata d’oltreoceano. La signora Maria aveva lavorato da giovane nelle cucine del ristorante dove quel dolce era nato e perciò la sapeva bene la storia e, visto che in sala non c’erano altre clienti, prese una sedia e si sedette vicino alle sue ospiti, dopo essere salita in appartamento per prendere un giornale.
“Ecco qua, disse, vi leggo la vera storia di questo dolce scritta da un nostro concittadino, morto anni fa e che è stato tante volte anche qui dentro. A lui piaceva la mia cucina e veniva spesso a mangiare con i suoi amici e, prima di scrivere questo articolo, aveva parlato con me, perché sapeva che io avevo visto nascere questo dolce. Poi so che aveva assunto altre informazioni di prima mano e credo sia l’unico ad aver scritto dove, quando e come è nato il tiramisù. Questo articolo è stato scritto verso il 1970 e dice così: «È nato recentemente, poco più di due lustri or sono, un dessert nella città di Treviso, che fu proposto per la prima volta da un certo cuoco pasticciere di nome Loly Linguanotto, che giungeva da recenti esperienze di lavoro in Germania. Il dolce e il suo nome tiramisù, come cibo nutrientissimo e ristoratore, divennero immediatamente popolarissimi e ripresi, con assoluta fedeltà o con qualche variante, non solo nei ristoranti di Treviso e provincia, ma anche in tutto il grande Veneto ed oltre, in tutta Italia.» Capite, care signore, Loly Linguanotto lavorava con me alle Beccherie, il ristorante dietro Piazza dei Signori. Ed è proprio vero quel che ha scritto il povero Bepo Maffioli, morto ancor giovane.” 

R. Linguanotto

“Eppure io avevo sentito un’altra storia, disse una signora seduta al tavolo. A me hanno detto che questo dolce l’aveva creato la signora Speranza Bon, sì la signora Garatti che era titolare e cuoca del ristorante Al Fogher, che è ancora gestito dai suoi figli. E ci ho creduto, perché anch’io ho mangiato più volte in quel ristorante e la signora Speranza è una bravissima cuoca, ma non credo che lavori più, avrà ormai i suoi anni! Io lì, ricordo, ho mangiato più volte un dolce servito in coppa, era buonissimo ed era fatto con pan di Spagna, caffè amaro, zucchero, mascarpone e tuorli d’uovo, con sopra del cioccolato grattugiato. Ricordo bene che quella era la Coppa imperiale Al Fogher ed era buonissima. Mi hanno poi detto che quello era il vero tiramisù e che a Treviso lo sapevano in tanti, perché era stato presentato all’inizio degli anni Sessanta al Festival della Cucina nel prato della Fiera in occasione delle Fiere di San Luca.”
“Forse è vero anche questo, disse subito la signora Maria, ma io le dico come lo faceva Linguanotto ed è come lo faccio io. Dunque, prendo come il piccolo Loly 12 tuorli d’uovo e li monto a spuma con mezzo chilo di zucchero, poi incorporo un chilo di mascarpone e lavoro fino a ottenere un composto morbido e cremoso. Prendo poi un bel vassoio rettangolare e vi faccio una base con dei savoiardi messi l’uno accanto all’altro, poi li bagno con del caffè zuccherato fin quando risultano bene imbombati e li spalmo con metà del composto a base di mascarpone. Metto sopra un secondo strato di savoiardi, bagno anche questi col caffè e ricopro il tutto con il restante composto cremoso. Vi cospargo sopra del cacao amaro e metto in frigo fino al momento di servire. Questa, vi assicuro è la ricetta originale di Loly Linguanotto che la famiglia Campeol, proprietaria del ristorante Beccherie conserva intatta da allora. E so anche della coppa della signora Garatti, buonissima, ma lei usava il pan di Spagna e non i savoiardi, il cioccolato e non il cacao e può anche essere che la sua coppa sia nata prima, ma è un altro dolce e il vero tiramisù è quello di Loly e anche quello mio. Anzi, aggiunse la signora Maria, dato che ci siamo è meglio che lo assaggiamo.” Andò quindi velocemente in cucina per prenderne una fettina per ciascuna delle sue ospiti e per sé. Una delle clienti che aveva fino ad allora ascoltato in silenzio volle dire la sua.
“Nell’articolo che prima ha letto è scritto che Loly Linguanotto era stato a lavorare in Germania ed è proprio in quei luoghi, come a Vienna e come a Trieste, nell’antico impero degli Asburgo, che amano i dolci al caffè. Può darsi che l’idea di quel dolce sia nata proprio in Germania o anche in Austria, senza dimenticare che gli austriaci nell’Ottocento comandarono a Venezia, a Treviso e in tutto il Lombardo-Veneto per circa cinquant’anni, per cui un po’ di quella tradizione può benissimo essere arrivata anche da noi.”
“Io, invece, interloquì un’altra signora, avevo sentito dire che il tiramisù era stato creato prima dell’ultima guerra dai pasticceri Casellato. È possibile?”
“Se ne dicono tante, rispose la signora Maria, può anche essere che abbiano fatto un dolce con savoiardi, caffè, mascarpone e cacao, ma di certo non si trattava del tiramisù, perché io ero presente quando il piccolo Linguanotto l’ha fatto e nessuno prima, qui a Treviso, conosceva un dolce fatto così. Sapeste quante prove, quante brutte figure prima di arrivare al risultato giusto! La verità è che è ormai un dolce avvolto dalla leggenda e ora che lo si trova in tutto il mondo non tutti sanno che è un dolce trevigiano e che il mio è sicuramente il migliore di tutti. E credo proprio che le sue origini vadano ricercate più che in Germania a Vienna, perché è lì, mi ha detto un nostro avvocato, che amano fare i dolci col caffè.”
Forse è proprio così, ma ha ragione Paron Mario, le leggende hanno più fascino delle storie, perché portano con sé qualcosa di misterioso. “Fatto sta, concluse la signora Maria dopo che le sue ospiti si mangiarono con vero gusto il “tiramisù”, che questo è davvero un buon dolce, non per nulla in meno di cinquant’anni ha conquistato tutto il mondo.