La sera del 20
novembre di qualche anno fa Roberto e Teresa Golfi, due giovani sposi lombardi,
dopo aver trascorso il pomeriggio nelle Gallerie dell’Accademia, su
suggerimento di loro amici s’erano fermati a cena in Calle della Regina, in un
caratteristico locale veneziano dal nome evocante tempi passati: Vecio
Fritolin. Uscendo dall’Accademia avevano attraversato lì davanti il ponte di
legno e per Campo Santo Stefano e poi Sant’Angelo erano arrivati alle Mercerie
e quindi a Rialto. Una sosta sul ponte monumentale era parsa loro obbligatoria,
anche perché da lì si hanno visioni uniche al mondo, quindi per San Cassiano
erano arrivati nella stretta Calle della Regina.
Il ristorante era apparso già da fuori luminoso e ben
curato; ai tavoli, benché fosse ancora un po’ presto, c’erano delle persone
sedute e si sentiva un odore di cibi buoni. Entrati, i due sposi si sentirono
immersi in una piacevole e calda cortesia che li mise immediatamente a proprio
agio. Una giovane cameriera li accolse con un largo sorriso e li accompagnò a
un tavolo in una saletta interna e subito dopo un altro cameriere portò loro
due calici di spumante, che i giovani interpretarono come benvenuto. Poi un
cameriere posò discretamente agli angoli del tavolo la Carta dei piatti e
quella dei vini.
Dopo alcuni minuti
si avvicinò una signora per ricevere la comanda. Era una signora gentile,
vestita con buona eleganza e soprattutto con un luminoso e accattivante
sorriso: non poteva che essere la proprietaria, pensarono.
“Buona sera, signori, siate i
benvenuti, disse loro. Sono Irina Freguja, la titolare di questo ristorante e
sarò lieta di potervi accontentare.”
Li guardò in silenzio mentre
davano un’altra scorsa alla Carta.
Poi il marito disse: “Ci
piacerebbe conoscere qualche piatto della cucina veneziana, ma siamo ancora
indecisi. Sa, veniamo dalla Lombardia e a Venezia non è che si arrivi spesso.”
“Nessun problema,
signori. Se lo desiderate, posso consigliarvi io, disse. Per cominciare abbiamo
delle grançeole alla veneziana, oppure, meglio ancora, delle moleche fritte.
Questa è la loro stagione.”
“E cosa sono?”
chiese la moglie.
“Una specialità
solo veneziana. Sono dei granchi verdi raccolti in laguna nel momento in cui
perdono la corazza, per cui sono molli e delicati. Vengono leggermente
infarinati e fritti e serviti su un lettino di polentina bianca.”
“Proviamoli!”,
disse la signora.
“Erano in passato
un piatto povero, spiegò la signora Freguja, e ora sono una delle leccornie più
richieste dai turisti stranieri che vengono a Venezia. Poi potrei consigliarvi
un risottino con delle seppioline di barena o una pasta con i fasolari, che
sono dei molluschi stupendi, attualmente molto di moda in tutto l’alto
Adriatico.”
“Prendiamo il
risottino”, disse il marito, mentre la moglie annuiva.
“Come secondo
posso proporvi il nostro “scartozzo”, lo chiamiamo così, è un fritto misto di
mare, forse il piatto più tradizionale qui a Venezia. Potrei suggervene un
piccolo assaggio, perché poi ho da proporvi un piatto rarissimo, che si mangia
solo questa sera e domani. Poi, per ritrovarlo, bisogna attendere l’anno
prossimo.”
“E sarebbe?”
“La castradina,
signori, il piatto tradizionale della Madonna della Salute, che festeggiamo
domani.”
“L’assaggio del
pesce fritto ci piace, disse il marito, ma la castradina cos’è?”
Roberto guardò la
moglie. “Questa sera mi sa che mangiamo piatti mai visti.”
“Bene, fu il suo
commento, se possiamo conoscere qualche autentico piatto veneziano la cosa mi
farebbe proprio piacere.”
Arrivarono in
tavola le moleche. I due sposi guardarono il piatto, poi si guardarono
perplessi.
Il cameriere che
li aveva serviti era lì a due passi. Li vide non convinti e si avvicino:
“Scusate se mi permetto, disse loro sottovoce. Guardate il tavole d’angolo alla
vostra sinistra. Hanno anche loro le moleche e le stanno mangiando con gusto.
Sono bocconcini straordinari. Godeteli.” E si allontanò.
Iniziò il marito,
mise una moleca in bocca e cominciò a masticarla. Era un’assoluta novità e gli
piaceva. Allora anche la moglie cominciò a mangiarle. Ce n’erano tre per piatto
e i due giovani, dopo le prime titubanze, si sentirono protagonisti di una
nuova avventura gastronomica. Il cameriere aveva intanto versato un altro po’
di spumante nei loco calici. “Con le moleche ci vuole il Prosecco, disse, poi
cambiamo vino, se volete.”
Gustarono un altro
sorso di quel vino leggero, ricco di bollicine che trovarono proprio buono.
Il sommelier
chiese che vino volessero col risotto e poi con il fritto misto.
“Questo ci piace,
dissero, se è possibile vorremmo continuare con il Prosecco.”
Poi il marito
chiese al sommelier: “Ci sa dire dove producono questo vino?”
“Certo, signore.
Il Prosecco è il vino tipico delle colline trevigiane, lo producono tra
Conegliano e Valdobbiadene e qui a Venezia è molto richiesto col pesce. Ma se
ne produce anche nel veneziano e in tutto il Friuli-Venezia Giulia, ma il
migliore, per profumi e fragranze è quello prodotto in collina, tra Conegliano
e Valdobbiadene e attorno ad Asolo, sempre nel trevigiano.”
La moglie pensando
che non sarebbero poi andati lontano, il loro albergo era infatti lì vicino,
volle godersi quel vino così piacevole. “Anche noi abbiamo ottimi spumanti,
soprattutto il Franciacorta e l’Oltrepò Pavese, disse il marito, ma questo è
più leggero, più fruttato, si lascia bere senza fatica.”
La serata in
ristorante era cominciata bene. Un ambiente caldo e accogliente, una
proprietaria molto gentile e disponibile, dei camerieri premurosi e professionali.
Poi quel primo piatto di granchi nudi fritti aveva rappresentato un’esperienza
tutta nuova e interessante.
In attesa del
risotto i due giovani si raccontarono quel ch’era rimasto loro impresso
all’Accademia ed erano, diceva il marito, le storie di Sant’Orsola di Vittore
Carpaccio, i teleri di Gentile Bellini con la Processione in Piazza San Marco e
i trittici di Giovanni Bellini. Sua moglie era rimasta particolarmente colpita
dalla Tempesta del Giorgine, dal Convitto in Casa Levi di Paolo Veronese e
dalla Pietà di Tiziano, opere grandiose che da sole valgono un intero museo,
diceva. Avevano acquistato il catalogo per rivedere, una volta a casa, quel
patrimonio sommo di opere d’arte che solo l’Italia può vantare. Erano stati
l’anno prima a Parigi e avevano trascorso un’intera giornata al Louvre e
un’altra al Museo d’Orsay; erano stati in altre parti, ma quel pomeriggio era
stato davvero stupendo.
Arrivò il risotto
con le seppioline di barena. Si sentiva
il profumo del mare. Avevano chiesto il risotto perché anche a casa loro lo
preparavano spesso ma erano curiosi di vedere come lo cuocevano a Venezia.
“Molto buono”,
disse la signora. Il marito annuì.
Era un risotto
all’onda, cotto perfettamente al dente, con dei pezzetti di seppioline tenerissime
e, sopra, una seppiolina intera. Le seppioline erano candidissime, quindi senza
il loro inchiostro. Il sapore era delicato ma netto e deciso, probabilmente,
pensò la moglie, c’è una qualche aggiunta. E lo chiese alla signora Irina che
s’era avvicinata al tavolo.
“Nel cuocere
questo risotto con le seppioline di barena in bianco lo teniamo morbido con
l’acqua di cottura delle seppioline stesse, per cui si sente il sapore del
mare, ma non di altri molluschi o crostacei. Cotto in questo modo il riso prima
assorbe e poi regala tutto il sapore delle seppioline, pescate qui in laguna.
Questo lo facciamo in bianco, ma, per chi lo desidera, lo facciamo anche col
nero di seppia. Spero vi piaccia”, concluse.
Piaceva sì e lo si
vedeva mentre lo gustavano.
“Mentre mangiate
il riso, disse poi, vi racconto un po’ della castradina. Sarò breve, ma devo
andare indietro nel tempo, quando le navi veneziane partivano in gruppo per i
loro commerci. Le partenze avvenivano in primavera e in autunno e quando le
prime tornavano partivano le seconde. Ogni gruppo di navi, perché non andavano
mai da sole per paura dei pirati o comunque di brutti incontri, aveva una meta
da raggiungere, dalle foci del Volga, nel Mar Nero, a Costantinopoli, ad
Alessandria d’Egitto, al Nord Africa e fino alle Fiandre e all’Inghilterra. Ma
tutte passavano vicino alla Dalmazia e si fermavano nei suoi porti, sia in
Dalmazia che, un po’ più a sud, in Albania, oppure gettavano le ancore vicino
alla riva per caricare delle mezzene di castrato, che acquistavano dagli
abitanti dei villaggi di quell’area. Queste mezzene erano preparate dai pastori
di quei paesi, dapprima immettendole in acqua di mare per salarle bene, poi le
appendevano al sole per quasi seccarle oppure vi accendevano sotto del fuoco
per affumicarle. Era il modo tradizionale degli abitanti di quei villaggi per
conservare per mesi la carne senza che deperisse. Inizialmente lo facevano per
loro poi scoprirono che quelle mezzene interessavano molto alle navi veneziane
e così decisero di aumentarne la produzione, coinvolgendo anche i pastori
dell’interno. Una volta caricate, quelle mezzene erano disposte nella stiva
delle navi e rappresentavano un’ottima riserva alimentare. Se, per una qualche
sfortunata ragione, una tempesta di mare o altro, le navi non potevano fermarsi
nei porti a caricare derrate alimentari fresche, avevano sempre disponibile la
carne di castrato. Tenete conto che allora non c’erano frigoriferi e gli
alimenti se erano freschi potevano conservarsi sani per pochissimi giorni, in
caso contrario le navi dovevano caricare alimenti che duravano nel tempo e le
mezzene di castrato, salate, asciugate e affumicate rispondevano bene alle
esigenze dei marinai.”
“L’avevano vista
giusta, disse il marito. È un po’ come i salami, le carni salate, lo stoccafisso,
alimenti che si conservano a lungo.”
“Proprio così e i
nostri capitani di mare dei secoli passati avevano trovato dove acquistare
delle carni che si conservavano integre per mesi e, quel che forse loro
interessava di più, erano carni che costavano poco, per cui riempivano senza
parsimonia la stiva delle loro navi. Poi, una volta concluso il viaggio e
tornati a Venezia, ogni capitano di nave distribuiva ai propri marinai le
mezzene avanzate che, in tal modo, arrivavano in tante case veneziane e venivano
utilizzate quando lo desideravano, trasformate in piatti che la tradizione ha
codificato. Queste mezzene salate e affumicate rappresentano dunque la materia
prima del nostro antico piatto che è perfettamente uguale a quello dei secoli
addietro. Poteva però succedere che nelle case dei marinai quella carne non
venisse subito consumata, per cui a volte, aspettando troppi mesi, poteva
deperire e marcire, diventando tossica se fosse stata mangiata. E fu per questo
che un anno il Doge stabilì che entro il 21 di novembre, festa della Madonna
della Salute, la carne di castrato portata dalle navi doveva essere tutta
consumata e così ancor oggi, il 21 novembre, a ricordo dell’antica tradizione,
nelle osterie e nelle trattorie veneziane e anche in tante case si prepara la
castradina che io ho pronta anche per voi. E anche questo piatto si mangia solo
a Venezia.”
“E come si fa?”
chiese subito la moglie.
“Già vi ho detto
che è carne di castrato o agnellone, salata, più o meno seccata e affumicata.
Si prende il pezzo che serve e lo si mette a bagno almeno un giorno, prima in
acqua bollente, poi in acqua tiepida, cambiandola un paio di volte. L’acqua
calda serve sia per togliere il sapore di affumicato che il salato e anche per
farla rinvenire. Poi però bisogna lavarla in molte acque e tagliarla a pezzi e
farla cuocere in una pentola come un comune bollito, con sedano, carota e
cipolla. In base al volume e a come si presenta si deve farla bollire un’ora
circa, più o meno, quindi si lascia raffreddare e la si tiene in luogo fresco,
eliminando il grasso che si è rappreso in superficie. Si rimette poi la carne
in pentola con le verdure del brodo tagliate a pezzettini e abbondanti foglie
di cavolo verzotto tagliate a listarelle. Si rimette sul fuoco e si lascia
sobbollire fin che la carne risulta bella tenera e le verze sono cotte. A
questo punto il brodo si è quasi asciugato ma il composto risulta bello morbido
ed è pronto. Va mangiato con crostini di pane o, se piace, anche con polenta
che si accompagna benissimo a questa carne.”
“Ma perché questo
piatto lo si mangia solo oggi e domani?”
“Oggi è la vigilia
di una grande festa dedicata alla Madonna della Salute la cui grande chiesa si
trova verso la fine del Canal Grande, poco dopo le Gallerie dell’Accademia,
dalla parte opposta a San Marco. Nel 1630 era scoppiata a Venezia, come in
tutto il Nord Italia, una brutta peste e il 22 ottobre di quell’anno il Senato
della Repubblica, per adempiere a un voto fatto durante la peste, deliberò di
costruire, vicino alla punta della Dogana, una chiesa grande e magnifica in
onore della Madonna della Salute e l’incarico fu affidato per concorso al
grande architetto Baldassare Longhena. I lavori, iniziati nel 1631 terminarono
nel 1687, ma da almeno dieci anni prima vi veniva celebrata con grande
solennità la festa della Presentazione di Maria al Tempio, che cade il 21
novembre, con una processione che partiva dalla basilica di San Marco, presenti
il Patriarca e il Doge, e arrivava alla nuova chiesa attraverso un ponte di
barche gettato da Santa Maria del Giglio, nel sestiere di San Marco. Da allora,
ogni anno, si ripete questa grande festa del popolo veneziano.
“Sì, ma la
castradina che cosa centra?”
“Una pura
coincidenza. Il Doge scelse questa data perché il 21 novembre a Venezia è festa
grande e in tal modo si assicurò che la carne di castrato arrivata a Venezia
col ritorno delle navi di primavera non rimanesse più a lungo nelle case, dove
non c’era a quel tempo la possibilità di tenerla in luogo fresco. Ma quello che
conta è che questa tradizione ha superato l’esame dei secoli, per cui la
castradina è il piatto che tutti i veri veneziani gustano in questo
giorno.”
Intanto era
arrivato lo “scartozzo” di pesce fritto, fragrante e profumato, davvero
stupendo, fu il commento dei due sposi.
“Un assaggio di
castradina?” chiese poi la signora Irina.
“A questo punto,
ci sembra proprio necessaria”, disse il marito.
E poco dopo
arrivarono due piatti di castradina che i giovani commensali gustarono con vero
piacere.
“È una pagina di
storia veneziana, commentò Roberto Golfi, siamo stati proprio fortunati ad
entrare in questo ristorante.”
“E domattina, se restate a Venezia, aggiunse la signora Irina, andate al
traghetto di Santa Maria del Giglio, prendete il ponte di barche e andate alla
basilica di Santa Maria della Salute e così vivrete completamente questa bella
festa veneziana.”